Speciale

Critica del pasolinismo

2 Novembre 2015

Non di Pier Paolo Pasolini vorrei parlare ma del pasolinismo, vale a dire di un'ideologia diffusasi a macchia d'olio nell'Italia dei quarant'anni successiva alla sua morte. Questa ideologia si è nutrita, ripetendola come un ritornello, della concettualità prodotta dal Pasolini “corsaro” in articoli e interventi pubblici che non hanno certo bisogno di essere qui ricordati. Se il poeta Pasolini, il cineasta Pasolini, lo scrittore Pasolini possano poi essere effettivamente ridotti al pasolinismo è questione aperta sulla quale è perlomeno prudente non pronunciarsi. Noto soltanto che in tempi non sospetti, siamo nel 1965, quando Pasolini era ancora bel lungi dal diventare la santa icona dell'intellettualità italiana, Alberto Asor Rosa, tenendo conto della produzione poetica, dei romanzi e delle primissime esperienza cinematografiche, aveva scritto pagine mirabili nelle quali aveva colto il tratto specifico della poetica pasoliniana in un certo populismo estetizzante e decadente, così coerente con l'italica tradizione. Ma non è questo il punto. Ciò che mi interessa – anche per ragioni autobiografiche, essendo io cresciuto nell'Italia post-Pasolini – sono le ragioni del consenso generalizzato, entusiasta, talvolta addirittura fideistico, che, come un'onda irresistibile, la proposta teorica e critica del Pasolini corsaro ha suscitato.

 

È un consenso che, caso quasi unico nella storia culturale italiana, trascende le appartenenze politiche come quelle religiose. Destra e sinistra (estrema destra ed estrema sinistra comprese), tradizionalisti cattolici e laici irriducibili, critici conservatori della cultura e aspiranti modernizzatori del paese, possono discutere e contrapporsi su tutto, ma su “Pasolini” – le virgolette sono d'obbligo – si riconoscono. Su quel “Pasolini”, teorico della “mutazione antropologica”, della “omologazione” e del “genocidio culturale” operata dal tardo-neo-post ecc. capitalismo, tutti giurano concordi. Tutti ne verificano la “straordinaria attualità”, tutti ne lodano le capacità “profetiche”, tutti ne lamentano la “mancanza” con accenti toccanti. Presso i più ferventi è ormai invalsa la regola di rivolgersi, secondo lo stile della confessione di fede, con il “tu” all'“amico” scomparso. La cosa veramente stupefacente è che il consenso non è di facciata. Non è affatto vero che ognuno rende omaggio al suo Pasolini, piegandolo alle proprie particolarissime esigenze. È proprio lo stesso Pasolini quello che intendono tutti. A richiesta, sarà ora la (brutta) poesia sul '68 ora la (splendida) tirata di Orson Welles nella Ricotta, ad essere citata come esempio di una radicalità che al presente farebbe difetto. L'unanimismo è tale da avvolgere in una sorta di “spirale del silenzio” chi volesse ancora problematizzare il pasolinismo: quando in una democrazia la pressione dell'opinione pubblica si fa asfissiante, spiegava la sociologa tedesca Noelle-Neumann, il dissenziente si auto-censura per l'umanissimo timore dello stigma sociale.

 

Ebbene, se mi è permesso un enunciato paradossale, il consenso generalizzato riservato alle analisi del Pasolini corsaro è un fenomeno che avrebbe attratto senz'altro l'attenzione del Pasolini “empirista eretico”. Perché gli intellettuali italiani si sono specchiati nel pasolinismo? Che cosa c'era di così seducente in quella diagnosi senza speranza? Certamente il Pasolini corsaro non aveva il pregio dell'originalità teorica. Il Marcuse dell'Uomo a una dimensione e l'Ivan Illich critico delle pseudo-liberazioni indotte dalla modernità, per citare solo due nomi già ben noti negli anni '60, avevano affrontato la medesima questione e lo avevano fatto con maggiore finezza. La coeva microfisica del potere di Michel Foucault risulta poi infinitamente più articolata e complessa della concezione pasoliniana di un Potere, rigorosamente con la maiuscola a capolettera, che verrebbe dall'alto a schiacciare corpi assettati di vita – un Potere che è la prefigurazione di quella Casta che salirà agli onori della ribalta trent'anni dopo. E se si risale ancora più indietro nel tempo si ritrovano, senza difficoltà, tracce del pasolinismo in tutta la critica conservatrice della cultura di marca tedesca, dalla filosofia della storia di Spengler alla contrapposizione, formulata da Joseph Görres, di “anima” (cioè vita) e “spirito” (cioè tecnica). La cultura di destra non si deve, quindi, giustificare per aver fatto largo uso del pasolinismo: semplicemente si è riappropriata di qualcosa che apparteneva al suo DNA, almeno da quando la celebre sentenza nietzscheana le aveva offerto il destro per la denuncia di un mondo disertato da Dio, lasciato in balia di un puro calcolo e oggetto di una pianificazione incessante che fa astrazione da tutti i “valori” trascendenti (cioè “mutazione antropologica”, “omologazione” e “genocidio culturale”...).

 

E allora perché Pasolini ha infiammato i cuori di tutti, anche (e soprattutto) a sinistra, quasi che nel suo pessimismo vi fosse una risposta che si attendeva da lungo tempo e che nessuno aveva osato ancora fornire con tanta nettezza? Che cosa veniva restituito agli intellettuali italiani attraverso una voce che la morte, che molto assomigliava al martirio di un santo, aveva reso ancora più autorevole? Con le sue veementi denunce e con la testimonianza della sua esistenza, il Pasolini corsaro aveva, per così dire, consacrato quella che mi arrischierei di definire l'ideologia italiana e lo aveva fatto nel tempo della sua massima crisi, proprio quando sommovimenti politici, trasformazioni sociali, rivoluzioni epitemologiche, avevano più che mai messo in questione quella tradizione, lasciando l'intellettuale italiano (cioè il “letterato”) sguarnito, privato della sua specifica “aura”, in uno stato di disorientamento e sradicatezza, costretto a fare i conti, senza più ripari, con quella “modernità” copernicana che, da sempre, aveva osteggiato.

 

Della Germania del 1935 il filosofo comunista Ernst Bloch diceva che era “il paese classico della non-contemporaneità” perché aveva una quantità eccezionalmente rilevante di materiali pre-capitalistici. Accanto alla contraddizione classica capitale-lavoro, che, secondo la scienza marxiana, determina la storia, agisce un'altra contraddizione, la contraddizione non-contemporanea, che come protagonista non ha il cosiddetto soggetto della storia (il proletariato), ma coloro che “non esistono nello stesso presente”, che “portano con sé qualcosa di anteriore che viene a mescolarsi con il presente”: è il “popolo” nella sua dimensione mistica e mitica, una dimensione che al letterato è accessibile solo esteticamente, lasciandosi guidare dal “calore degli istinti” e dalle “buie viscere” (espressioni che traggo dalle Ceneri di Gramsci). L'analisi di Bloch vale a maggior ragione per l'Italia, paese della non-contemporaneità per eccellenza, e non solo per quella che ha generato il fascismo e che non cessa di riprodurlo in tutte le sue infinite varianti post-moderne. Non pecco certo di originalità se affermo che l'intellettuale italiano, nella forma del “letterato”, è di questa non-contemporaneità l'“usignolo”. Ad essa è fedele perché da essa trae la sua autorità. La lotta con il moderno, l'ostilità al copernicanesimo e alle sue conseguenze etico e pratiche, lo definisce nel suo essere.

 

Tra le immediate conseguenze pratiche della rivoluzione copernicana vi è infatti l'intollerabile (per lui) affermazione dell'uguaglianza infinita di tutti gli enti, la fine della differenza antropologica in tutte le sue forme, la fine dalla differenza di genere, di ordini, di strati sociali, il collasso delle differenze linguistiche in una neo-lingua che non è la lingua di nessuno in particolare. Tale fine è metaforicamente espressa da quei capelli lunghi e da quei jeans uguali per tutti che impediscono al letterato-entomologo, flâneur delle borgate, di procedere a un immediato e rassicurante riconoscimento delle appartenenze di classe: in un impressionante documentario, risalente alla prima metà degli anni '60, si vede Pasolini illustrare a un intervistatore francese, che lo accompagna in un viaggio etnologico tra le borgate romane, quali sono le “posture” ideologicamente corrette che un uomo del “popolo” deve tenere a tavola, per la strada ecc., per essere “autenticamente” quello che è e che non può non essere, vale a dire un “vero” sottoproletario oppure, se è “corrotto”, un “vero” piccolo-borghese... Ed è ancora a causa di questo irriducibile anticopernicanesimo che il letterato italiano, se è di sinistra, opterà per le soluzioni millenaristiche, escatologiche, massimaliste, a forte coloritura gnostica, guardando con il disprezzo di Orson Welles nella Ricotta il riformismo “borghese” e “illuminista”. Se è invece è di destra, cosa che capita assai più raramente, ha già la soluzione pronta in casa, anche se è innominabile... La politica diventa comunque cosa intrinsecamente cattiva (il “Palazzo” e, poi, la “Casta”) quando è giudicata con il metro di una contraddizione posta fuori dalla storia naturale degli uomini. La morale la sostituisce (l'“indignazione”).

 

Di tale ideologia, ben radicata nel nostro cattolico paese, Pasolini, dopo la sua morte, divenne l'alfiere. Non c'è dunque da stupirsi del consenso generalizzato ricevuto. Esso era espressione di una tradizione che, all'apice di una crisi che sembrava letale, si riconosceva e finalmente poteva ricompattarsi. Rispetto ad essa ben altre sono allora le figure eretiche. Sono disperse nel tempo, sepolte sotto tesori di erudizione che ne hanno però dissimulato la forza sovversiva. E sono tutte figure anti-pasoliniane, nel senso che abbiamo qui attribuito al lemma “Pasolini”. Penso al Leopardi materialista radicale, illuminista disincantato, irriducibilmente acattolico e politicamente riformista (cioè, in Italia, rivoluzionario). Penso soprattutto a Giordano Bruno, anche lui una vittima del potere e, forse, anche lui, a suo modo, un “santo”, che, nel momento in cui si decidevano i destini dei secoli a venire, aveva provato a trarre tutte le conseguenze metafisiche, etiche e pratiche del copernicanesimo. E vi aveva scorto una possibilità di uguaglianza (infinita) e di emancipazione di tutte le creature che resterà lettera morta nella tradizione letteraria italiana, “Pasolini” compreso.

 

Questo testo fa parte del contributo che doppiozero ha scelto di realizzare, articolato in tre parti - interviste, poesie, lettere - in occasione delle celebrazioni promosse dal Comune di Bologna, dalla Fondazione Cineteca di Bologna, e all’interno del progetto speciale per il quarantennale della morte, che si articola in un vasto e ricco programma d’iniziative nella città dove Pasolini è nato e ha studiato.

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