Saburo Teshigawara / Danzare sui vetri
Danzare su un pavimento di frammenti di vetro: con Pointed Peak Saburo Teshigawara ci consegna un potente apologo coreografico sul senso del limite, del rischio e dell’equilibrio. Ma, sebbene l’artista sottolinei il suo disinteresse alla “danza di per sé”, è impossibile per lo spettatore non guardare a quest’opera anche come a un disvelamento della natura stessa del danzare, che sull’equilibrio e sulla sfida ai limiti del movimento “naturale” fonda i suoi principi. Essenziale e intenso, Pointed Peak è la nuova performance site specific ideata per gli spazi della Collezione Maramotti d’arte contemporanea nell’ambito del Festival Aperto 2017, che ha rinnovato il patto biennale tra la Collezione e i Teatri di Reggio Emilia nella sintesi ogni volta diversa tra arti plastiche e visive e danza.
Diversamente dai suoi predecessori – Trisha Brown con i suoi indimenticabili Early Works, Wayne McGregor, Shen Wei e Hofesh Schechter – Saburo Teshigawara sceglie di confrontarsi con un’opera sola della vasta collezione ospitata nel vecchio stabilimento industriale Max Mara. Infatti, dopo il breve e sorprendente prologo con una danzatrice-topo che si muove tra i pilastri di cemento e le opere della prima sala – in particolare tre lavori di Mario Merz: Mandria (1978) e Coccodrillo e serie di Fibonacci al neon piccolo e grande (1975) e il grande tavolo di vetro pieno di frutta sempre fresca (La frutta siamo noi, 1988) – gli spettatori sono invitati a costeggiare un rivolo di cocci di vetro illuminato da una schiera sinuosa di luci bianche fisse, che porta direttamente nella stanza dedicata all’opera Caspar David Friedrich di Claudio Parmiggiani (1989).
Sospesa al centro, a pochi metri da terra, l’arca di Parmiggiani è uno scafo ligneo con tre tele da pittore in funzione di vele, interamente dipinta di nero, ieratica e incombente ma allo stesso tempo privata del peso e in immaginaria partenza per altri mondi. Il pavimento della stanza è in parte lasciato al pubblico e in parte ai due interpreti, lo stesso Saburo e il suo alter ego femminile Rihoko Sato, che agiscono dentro un’area delimitata dalle luci e ricoperta da uno spesso strato di vetri rotti. L’idea è già stata sperimentata in passato dall’artista giapponese – oggi sessantaquattrenne e attivo dai primi anni Ottanta del Novecento – ma qui, sotto l’arca, la superficie verde-azzurra formata dalle schegge richiama esplicitamente l’elemento marino dischiudendo una micro-narrazione ricca di significati.
L’immagine iniziale – la danzatrice in piedi immobile sui vetri, leggermente ripiegata su se stessa, la schiena contro il muro – annuncia il principio di contraddizione su cui si sviluppa poi l’intera pièce, poiché danzare su schegge acuminate dovrebbe essere di fatto “impossibile”. Ma dopo lunghi minuti di semi-immobilità, la danzatrice comincia piccoli, quasi impercettibili movimenti, e quando il movimento arriva ai piedi, il vetro comincia a scricchiolare, in un crescendo di rumore che accompagna l’ingresso in scena di Saburo e, da lì, in poi, l’intera performance, fino a raggiungere, a tratti, picchi assordanti che coprono completamente la selezione musicale, da Bach a sonorità contemporanee, in una sorta di tempesta, che poi si placa, tornando a quel moto perpetuo ma discontinuo che è proprio del mare.
Tentiamo una rapida descrizione della performance.
All’inizio, la danzatrice sembra timorosa, quasi riluttante. Quando inizia la musica a pieno volume, con l’assolo di violino di Bach, il contrasto sonoro si fa esplicito: suono acuto, melodioso, aereo, di contro al rumore secco, crepitante, terrestre, dei vetri che si infrangono. Le mura della sala sembrano un rifugio, un luogo di riposo e attesa, fuori dal pericolo. La verticalità delle pareti entra in risonanza col soffitto, con la barca sospesa, e crea un contrasto tra alto e basso, tra verticale e orizzontale. Quando Saburo Teshigawara entra in scena avanza piano tra i rumori crepitanti, con un moto fluido delle braccia. Si ferma immobile, con il viso contro la parete di fondo. La posa statica dura solo un attimo, poi nella colonna sonora il violino lascia il posto a una musica elettronica, e i due danzatori non sembrano aver più paura di sfidare l’ignoto. Con passi rapidi, duettano nelle traiettorie diagonali, si scambiano di posto, poi tornano al centro. Saburo raccoglie una lastra di vetro spezzata e la schianta, poi salta sui vetri e accetta il rischio e la sfida. Una luce calda e profonda illumina la scena dal basso, spargendo riflessi azzurri sulle pareti e sul soffitto. Lui porta un pezzo di vetro alla bocca, lo tiene tra i denti, si dirige verso la parete di fondo, dove lascia cadere la scheggia. La musica si arricchisce di brani da Corelli e da Schubert e di un poema recitato in lingua giapponese: lo stesso Saburo ne ha scritto uno per la performance, interrogandosi sulla reversibilità tra la vita e la morte.
Mentre Saburo resta immobile alla parete, la danzatrice inizia un assolo armonioso, riprendendo il moto ondoso delle braccia. Ed ecco che la performance si trasforma, con un ritmo e una logica delle azioni più frenetica: se all’inizio il mare di vetro era vissuto con una certa diffidenza, ora entrambi i danzatori appaiono vittoriosi sui vetri e sulle difficoltà di movimento, creando coreografie che alternano rapidità e raccoglimento, cadute e salti, pesantezza e leggerezza. E arrivano a sdraiarsi a turno sui cocci di vetro, quasi fosse una morbida spiaggia. La musica accompagna con una cantata sacra, poi torna il violino di Bach, calmo e ampio, e tutte le luci si accendono assieme, creando ombre e riflessi dei danzatori sulle pareti e sul soffitto. Il climax di pacificazione con la materia ostile apre ad un’ultima fase. La danzatrice infatti raccoglie dei cocci di vetro come fossero conchiglie marine, ne ascolta il rumore scuotendoli tra le mani; Saburo danzando la raggiunge e quasi la abbraccia, la sfiora appena, accovacciandosi vicino a lei. Con gesti rapidi alternati a movimenti lentissimi, più rigidi o più fluidi, i due sembrano così tradurre il materiale liscio e duro con cui si confrontano. Dopo aver circoscritto il perimetro esterno alla vasca, Saburo torna a camminare sui vetri. Ora appare sicuro di sé, e raggiunge una lama di luce che cade trasversale dall’alto, mentre la danzatrice prende a muoversi lentamente. Dopo un ultimo turbinio comune, rapidissimo, tra volteggi e piroette che seguono le volute della musica di Bach, la performance termina nell’immobilità dei corpi, uno vicino all’altro.
Il timore e la prudenza iniziali si sono così trasformati in una vittoria sul vetro. Mentre la luce e i riflessi hanno raccontato istanti di tempo sospeso, al servizio di una di una danza che osa prendere il sopravvento sulla materia ostile.
Riletta dalla prospettiva della sociosemiotica contemporanea (pensiamo ad Eric Landowski, Rischiare nelle interazioni, Franco Angeli, 2010), la performance Pointed Peak mette in scena dei regimi di interazione e di senso particolari, quelli dell’alea e dell’aggiustamento. Se l’improvvisazione e la casualità possono trasformare l’incontro tra un danzatore e un pavimento di cocci di vetro, forse più efficace appare un’interpretazione della negoziazione inter-somatica tra danzatori e, in particolare, tra corpi e oggetti. Nella performance si crea infatti un aggiustamento sensibile tra diverse forze in gioco, rappresentate dai corpi dei danzatori in movimento e dal materiale vetroso, duro e tagliente, trasparente e riflettente, con un suo grado di resistenza o di inerzia che lo fa diventare un pericoloso “contro-attante” nello svolgersi della danza. Si tratta di un conflitto, in effetti, che si risolve però in una inaspettata intesa tra soggetti e oggetti, tra i corpi dei danzatori e i materiali di scena.
Danzare su cocci di vetro è dunque possibile: i movimenti, leggeri per definizione, risultano pesanti sulla materia fragile del vetro, che a sua volta provoca pesantissimi rumori, e in questo gioco di contraddizioni e di stereotipi svelati lo spettatore resta spiazzato e affascinato, non da ultimo dalla maestria con cui i due artisti sfidano il pericolo di ferirsi. Lo scopo non è stupire, l’abilità non è fine a se stessa: i movimenti angolari e scossi di Saburo, la sostanziale solitudine dei due interpreti – non è un pas de deux, ma una sorta di doppio assolo: i due si sfiorano solo in un paio di fugaci momenti – il riflesso spezzato dei corpi sul pavimento frastagliato ci parlano di una condizione esistenziale in cui forza e fragilità coesistono, in un perenne tentativo di armonia.
Il senso filosofico della pièce appare intrecciato alla ricerca di Teshigawara: “Come artista, il vetro devo romperlo” afferma durante il generoso incontro con il pubblico che chiude l’esperienza reggiana. Poi spiega che “una coreografia non nasce come insieme di elementi singoli, ma come una evoluzione lenta, perché danzare significa imparare che cosa non si sa fare”. Saburo Teshigawara costruisce così la sua danza “sopra un corpo che non può stare fermo”. Esplorare il proprio limite, ci ricorda, è la sua missione come artista.