David Vann. Da dove vengono i sogni
L’isola di Caribou in Alaska in cui costruire un capanno con le proprie mani inseguendo più i propri rimpianti che i propri sogni, una famiglia esplosa da cui ognuno fugge in cerca di un riparo, una terra ostile e di ghiaccio quale terreno ideale per una resa dei conti che non vedrà alcun vincitore, ma solo l’azzeramento di un destino privo di ogni possibile felicità.
David Vann non ha scritto un capolavoro e non è probabilmente nemmeno paragonabile a Cormac McCarthy, come scrivono gli strilli giornalistici pubblicati sulla quarta di copertina del volume; tuttavia racconta con non poca bravura ed efficacia una storia ai margini del successo. Tre passi dopo Jonathan Franzen, i protagonisti di Vann vivono pienamente un fallimento senza possibilità di riscatto, come elementi dispersi su una terra estrema e dura, si ritrovano fianco a fianco in lotta per una sopravvivenza che non sarà mai una vita pienamente desiderata e voluta.
Protagonista assoluta è l’ansia, e con lei la difficoltà di percepire i propri stessi desideri, fino poi a tradirli in uno spietato gioco autodistruttivo, che va dall’accondiscendenza alle bizzarrie di un marito non più amato al desiderio di un matrimonio rassicurante e borghese, da un trip farmacologico e alcolico all’accettazione di tutti i ricatti e i capricci di una giovane amante. Ogni possibilità è azzerata, non c’è via di scampo: si sopravvive alla vita stessa ormai rinchiusa ermeticamente nei rimpianti, nel tempo che fu giovane e incompreso. Anche respirare diventa difficile e complicato, ma non esiste diagnosi e non esiste cura, come nel caso di Irene, incapace, a differenza degli altri personaggi, di individuare un’alternativa, seppur fatua, alla propria esistenza. Eppure Irene è anche l’unica che ostinatamente rende visibile il proprio malessere, tanto più visibile quanto rinnegato dagli altri, marito e figli, medici e specialisti compresi.
Soffocante, per quanto a tratti anche comico, il romanzo si muove come una nube verso la tragedia, senza tuttavia mai esplodere totalmente - ed è forse questa la sua più grande qualità. La tensione genera una sorta di ronzio assordante, un rumore bianco che azzera ogni profondità rivelando una superficie desolante su cui personaggi e oggetti si muovono abbandonati e persi. Nulla è rotto, ma tutto è in disuso: il fallimento non viene da fuori, ma è insito in un territorio che, come quello dell’Alaska, riduce drasticamente le scelte e le possibilità e obbliga a sopravvivere, invece che a vivere. Gli uomini si rivelano incapaci a tutto proprio perché in un altro tempo e i un altro luogo sono stati capaci dei propri sogni. Le donne, come anche in Libertà di Franzen, sono gli unici agenti in grado di connettere la realtà con la volontà, evidenziando il continuo scarto temporale degli uomini. Inseguitori offesi di passioni ridotte a nostalgie patetiche prive di rischi in cui la vittima designata è la donna.
Al ruolo di vittima, prima supinamente accettato, provano a reagire tanto Irene quanto la figlia Rhoda, fallendo in ogni senso, perché passioni tanto tristi difettano persino della forza che le riscatterebbe sia pure nella tragedia. L’assenza torna nuovamente a impadronirsi della scena in un vuoto atroce che lascia le donne disperse e gli uomini abbattuti e parte di un desolante paesaggio post metropolitano invivibile e alla deriva.
David Vann trasforma l’Alaska nel dietro le quinte di un teatro la cui recita sta a New York come a Parigi o a Milano e i cui attori sembrano incapaci di ritrovare la propria identità. Fuori ruolo giù dal palco, lontani da ogni possibile successo.
David Vann
Da dove vengono i sogni
Bompiani, Milano aprile 2012
pagine 313
€ 18,50
Titolo originale: Caribou Island
Traduzione di Sergio Claudio Perroni