Dente. Favole per bimbi molto stanchi

3 Ottobre 2015

Sotto un temporale che pareva interminabile, la scorsa estate, pensai all'improvviso che il mio cantante preferito del momento era Dente. O era stato in tram mentre guardavo fuori dal finestrino la città? E il disco che preferivo era L'amore non è bello e i pezzi A me piace lei, Buon appetito, Solo andata (per uccidersi allegramente, fischiettando).

 

 

Dicono che Dente sia un appassionato di enigmistica, oltre che di giochi di parole; di certo è un autore di canzoni palindrome. Per lo meno dal punto di vista delle situazioni e dei sentimenti cantati. Sono tutte e sempre canzoni d'amore, e di disamore: L'amore non è bello è come pensare immediatamente che l'amore è bello, come è impossibile non pensare all'elefante se si intima “non pensare all'elefante!” Si fa fatica a capire se le storie d'amore in Dente siano finite o no, se iniziano o se sono soltanto immaginate; piuttosto sembrerebbero essere in corso ma pronte a tracollare. Sono storie reversibili, palindrome appunto: Buon appetito potrebbe raccontare di un dopo, ma si ha qualche lecito dubbio; potrebbe trattarsi della fantasticheria, della speranza addirittura, di una fine (“L'idea di non vederti più”). Il manifesto sta in Sempre uguale a mai: “per sempre” è espressione bugiarda, “fondamentalmente”, appunto, “è uguale a mai”. Dente appare così ciondolante e svagato perché cammina su un ponticello che traballa, uno di quei ponti molli stesi per i giochi dei ragazzi da un albero all'altro. Le situazioni del cuore se le guardi da una parte splendono, se giri la boccetta di vetro nevica sullo stesso paesaggio:

Che bello un sogno che diventa vero

un incubo un po' di meno

 

Si potrebbe azzardare una causa psicologica per tutto ciò e dietro metterne una sociologica. L'io cantante che affiora nei testi di Dente è un egoista, uno dei peggiori, cioè un egoista divino, di quelli che s'innamorano e soffrono, diffuso nell'aria e pericolosamente inebriante. Parte da una presunta condivisione per osservare l'oggetto d'amore da un verso e dall'altro come il bambino con il suo giocattolo, facendo riflessioni e misurazioni in comune (“io non capisco se / ti amo di più o di meno / di quanto tu ami me” Incubo). Poi inizia il lento risucchio, via via sempre più rapido come il mulinello di lavandino quando ci cade un anello scintillante: “a me piace lei e lei piace a me / e vorrei che mi vedesse che la pensasse / esattamente come me”. L'antesignano anni ottanta Luca Carboni, a sua volta ammorbidito continuatore di Lucio Battisti (nel frattempo non a caso scomparso tra ritornelli ed ecolalie), cantava “vieni a vivere come me”, Dente “vieni a vivere come me”. Quando tutto precipita troviamo anche un'assunzione di colpa (“so anche che non c'entri niente / che ho fatto tutto da me” Solo andata). Così le sue storie di (non/forse) amore fanno un po' ridere, la sua tristezza è buffa. Dietro, dicevamo, sta la vita liquida di Bauman, che ci avrà anche stancati, ma da cui si fa fatica a nuotare fuori. E allora sì, confermo, che era proprio con i piedi di gomma sotto l'acqua, che mi è venuto in mente Dente is my favourite singer.

 

Adesso abbiamo anche un libro molto bianco, dagli angoli smussati, argutamente illustrato da Franco Matticchio: Favole per bambini molto stanchi (Bompiani 2015). A tutta prima sembrano poesie brevi, per via degli a capo, delle maiuscole e della mancanza di punteggiatura, nonché per la collocazione delle frasi: “C'era una vecchina che cantava alla finestra / Di sera / Da sola / Cantava alla finestra con la sua voce da vecchina / Poi andava a dormire / E sognava il controcanto / Fine.” (Il controcanto). Altre volte ci avviciniamo alla filastrocca (Nonno Loco), al proverbio (Le dicerie sul giardino vicino), all'aforisma che con la favola spartisce la chiusa ad effetto: “C'era un signore che per paura di non ricordarsi dove abitava / Non usciva mai di casa / E il mondo se lo dimenticò/ Fine” (La memoria del mondo). Salva il genere l'attacco canonico “C'era”, il riferimento in una delle sezioni agli animali; per il resto è reinterpretazione. Al modo della fiaba spesseggiano gli oggetti – accendino, carretti, galleggiante e filo, mestolo, calze -, che però hanno perso malinconicamente i poteri magici, o ne hanno di assurdi; sono deceduti, fermi sulle ruote, scontenti di sé, inservibili, separati come le due calze dalla lavatrice, trasformati come il bel campo da calcio in un parcheggio. E poi pullulano i personaggi minimi, stravaganti o caricaturati dallo sguardo infantile, di cui ci piace ricordare i diversi, siano esseri umani folli, o esseri inanimati (lo zucchero con “qualche granellino salato”), animali come il castoro senza denti, addirittura parole, come “Carogna” che quando “qualcuno la pronuncia si mette le mani davanti agli occhi e forse piange”.

 

L'incontro è quasi sempre un disincontro o un disincanto come per l'inventore del teletrasporto che, non prendendo più il treno, perderà la donna della sua vita in attesa per sempre alla stazione o i litigiosi sposi in viaggio di nozze, oppure : “Un signore e una signora un giorno si incontrarono / Lei veniva da destra / Lui non la vide / Fine.” (Uniti per sempre). Quest'ultima per introdurre una delle sezioni più riuscite – Favole che alla fine qualcuno muore -, da cui si può transitare, secondo il legame evidente tra nero e gioco, alle favole altrettanto riuscite con al centro se stesse o le parole: “C'era un signore che stava molto male / E per paura del finale / Moricchiò / Fine.” (Favole dal finale aperto). Qui Dente incontra i suoi surreali conterranei dal linguaggio orale (Nori, Cornia etc.) e il lettore reincontra il Dente dei siparietti parlati dentro i concerti. I cortocircuiti di linguaggio avvengono tra titolo e testo (Favola missionaria “C'era un uomo sulla trentina / e la trentina sotto all'uomo”); con la formula d'attacco (La cupola “C'era una volta / Fine.”) e con la parola “fine” immancabile in chiusa (Favola cortissima a vista “All'inizio della favola si vedeva già la fine.”); tematizzando figure retoriche come l'ossimoro di un uomo su un'isola deserta o termini particolari come “sinonimo” che non ha sinonimi, fino alla citazione buffa: Cinquanta sfumature di pecora “C'era una pecora bianca che diventò nera.”

 

Queste sono favole sonore che tengono svegli.

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