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Diario russo 19. Parole per esorcizzare la realtà
Un’esplosione diventa uno scoppio, gli attacchi sono ridotti a incidenti, la stessa guerra è un’operazione speciale: le veline provenienti dall’Amministrazione presidenziale russa non costruiscono una nuova lingua, forse perché non se ne hanno le capacità, ma attribuiscono alle parole nuovi significati, una sorta di non detto significativo, per comunicati e articoli all’insegna dell’ufficialità.
Se sinonimi e allusioni prima erano usati da chi era sottoposto a censura per sfuggire alla repressione, oggi è il potere a ricorrervi, nel tentativo di edificare una realtà parallela, dove l’odore del sangue e la polvere delle macerie non giungano a infastidire i cittadini, spettatori di uno show le cui vittime sono reali. Il nesso tra guerra e politica è così noto da risultare anche eccessivo soffermarcisi in una pagina di diario, se non per una considerazione: la trasformazione linguistica degli anni Novanta, quando gli interventi militari son diventati missioni umanitarie e le elezioni si son tramutate in campagne pubblicitarie, ha investito anche la Russia, senza risparmiarla e in un certo senso portandola all’avanguardia a livello globale.
La stessa ascesa del personaggio Putin ne è testimonianza, frutto dell’arroganza creativa dei “tecnologi della politica”, i polit-technologi, figure in bilico tra i pr e gli aspiranti Richelieu, attenti ai sondaggi e alle voglie di un elettorato tramutato in pubblico pagante a cui vendere una proposta. Gleb Pavlovskij, forse il più eminente tra essi, già tra i principali artefici dell’immagine del Cremlino e da ormai un decennio, dopo una repentina caduta in disgrazia, all’opposizione, nel raccontare la scelta del successore di Eltsin, ha più volte raccontato di come nel 1999 un sondaggio su quale protagonista cinematografico i russi avrebbero voluto come presidente lo spinse a riflettere: se al primo posto vi era Pietro il Grande nell’interpretazione di Nikolaj Semenov, al secondo si era classificato il popolarissimo Max Otto von Stierlitz, agente segreto sovietico infiltrato ai vertici delle SS nel telefilm Diciassette momenti di primavera. Stierlitz, interpretato dall’attore Vjačeslav Tichonov, era un personaggio di fantasia protagonista dei romanzi di Julian Semenov, diventato poi icona negli anni Settanta, grazie alla potenza del televisore: un successo testimoniato anche dalla grande quantità di barzellette sul suo conto sussurrate sui luoghi di lavoro e nelle cucine di tutta l’Urss. Pavlovskij trovò uno Stierlitz in Putin, allora direttore dell’Fsb, pronto per essere il prescelto, dopo che le precedenti ipotesi di successione al primo presidente russo si erano rivelate fallimentari.
Quando ci si addentra nel retrobottega del potere, possono esserci delle spiegazioni in quel che si vede spesso affrettate, di cercare fili in grado di far risalire a possibili burattinai, di trovare la prova di questa o quella manipolazione. Ma spesso in realtà sui tavoli di questi stanzini (o meglio, sulle scrivanie degli uffici) si trovano progetti e idee il cui obiettivo è di tirare avanti al massimo fino alla prossima tornata elettorale o turbolenza internazionale, se tutto va bene, e di garantire gli equilibri, in un gioco dove spesso chi vorrebbe manovrare si trova a essere manovrato.
Così è stato con Putin, complici anche le coincidenze tragiche ma fortunate per l’allora uomo nuovo del potere, dalla guerra in Cecenia all’11 settembre, passando per il boom dei prezzi di gas e petrolio. Una “buona stella” evidenziata ancora a metà anni Dieci nelle chiacchiere dei giornalisti che seguivano il Cremlino, convinti di una capacità di evitare le cadute pressoché innaturale. Lo spettacolo vedeva e vede al centro lo Stierlitz pietroburghese, la sua fisionomia da uomo comune, la sua volontà ferrea.
Per gli spettatori, però, non sono previsti sconti, anzi: gli insuccessi, le gaffes, i crimini del primo attore li pagano anche loro, e nemmeno l’esorcizzazione linguistica delle responsabilità e dei disastri riesce a render il prezzo meno alto.
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