La Russia di Putin e Prigozhin

28 Giugno 2023

L’ultima, al momento, fase dello scontro tra Evgenij Prigozhin, a capo della compagnia militare privata Wagner, e il sistema di potere russo ha registrato sviluppi inattesi, ma che dicono molto sulla stabilità della Russia oggi e su cosa prepari il futuro. La marcia delle colonne della Wagner su Mosca e la loro conquista di Rostov, importante centro della Russia meridionale, si è svolta senza grossi problemi, con un tentativo di fermarne il percorso nei pressi di Voronezh, andato fallito, e 13 avieri morti per l’abbattimento dei loro mezzi da parte dei rivoltosi. La ritirata ordinata da Prigozhin, quando ormai ai primi edifici della capitale mancavano poco meno di due ore, anche ha stupito i russi e il mondo, e non perché vi fossero illusioni sulla possibilità, per qualche migliaio di mercenari, di prendere Mosca, dove vivono circa tredici milioni di abitanti, ma per la velocità del cambiamento di qualcosa dato come già inevitabile, impossibile da scongiurare. Per di più, a evitare lo scontro finale è stato Aleksandr Lukashenko, improvvisamente spuntato fuori a mediare per conto di Putin, il quale ha rifiutato di rispondere alle continue richieste di Prigozhin. Uno spettacolo surreale, come spesso sa esserlo la vita in tempi di guerra.

La decisione di Vladimir Putin di aggredire l’Ucraina, ormai 16 mesi fa, sta mettendo a dura prova la tenuta del sistema costruito attorno e per la sua figura negli ultimi vent’anni. Il Putin invincibile non esiste più, quella narrazione che vedeva un leader capace di mettere termine, a caro prezzo di vite umane, la guerra cecena e di ottenere risultati economici anche attraverso la distruzione di ogni forma di tutela sul lavoro, poi passato a occuparsi di politica estera, è qualcosa consegnato al passato. Anche la stessa fisicità del potere, dove l’evoluzione aveva portato un anonimo ex funzionario impeccabile nel suo vestito scuro ai vertici internazionali a essere il presidente a torso nudo impegnato a pescare o ad abbronzarsi nei boschi, in vacanza a Tuva con il ministro della Difesa Shoigu o ad accogliere Silvio Berlusconi a Soci, è andata declinando, com’è anche ovvio che sia per un settantenne.

Se prima la presenza di Putin era ovunque, anche oggetto di merchandising, in questi giorni abbiamo assistito all’assenza del leader, apparso in pubblico solo martedì, per un breve discorso ai militari e agli agenti mobilitati per fermare la Wagner: due messaggi registrati, il primo apparso sabato, a 12 ore dall’inizio delle ostilità, dove il presidente è apparso arrabbiato, visibilmente irritato ma anche perso a evocare pugnalate alle spalle e guerre civili, paralleli con il 1917 e minacce di annientare i ribelli. Nel secondo video, pubblicato a 48 ore dal dietrofront di Prigozhin, nonostante le dichiarazioni sull’ottimo lavoro di militari e agenti, la rabbia del presidente era tutta sul volto, l’espressione fredda, quasi sarcastica, a cui ha abituato i media scomparsa, persa come la sicurezza di esser lui e soltanto lui a dettare l’agenda e i tempi.

Il compromesso raggiunto da Lukashenko viene presentato da Putin come un gesto magnanimo verso i patrioti della Wagner, lasciando così spazio a un pericoloso precedente, dove chi prende le armi, dopo averle ricevute assieme a un’enorme quantità di fondi dallo Stato, può sollevarsi contro e non essere punito. Un paradosso, in un paese dove la sola espressione pacifica, online, della propria contrarietà alla guerra porta dritti in prigione con condanne di svariati anni. Anche Sergei Shoigu, il ministro della Difesa di cui Prigozhin ha più volte chiesto le dimissioni, oggetto di accuse (fondate) di corruzione e ritenuto responsabile delle difficoltà dell’esercito russo, è scomparso fino a lunedì, apparendo nello spezzone del video dell’incontro di Putin con i responsabili delle strutture e dei ministeri addetti alla sicurezza, scuro in volto, in abiti civili, per poi esser presente al discorso del presidente ai militari martedì mattina, questa volta in uniforme.

Shoigu non ha mai commentato gli attacchi del capo della Wagner, e in questi giorni non ha mai rilasciato dichiarazioni, anche qui qualcosa in contraddizione con il suo percorso dedito alla formazione di un profilo da risoluto leader in grado di affrontare ogni emergenza: prima da ministro della Protezione civile, diventata armata, nel corso di vent’anni dal 1992 al 2012, e poi da responsabile della Difesa russa, le sue apparizioni in pubblico, le dichiarazioni ai media, son state sempre ben costruite e pubblicizzate, restando uno dei pochissimi uomini politici e di potere ancora in sella dopo l’era eltsiniana. Già fondatore di Russia Unita, Shoigu ha goduto di una certa, ben coltivata, popolarità fino all’inizio della guerra, prima di diventare oggetto di critiche pubbliche da parte, oltre che di Prigozhin, anche di Kadyrov e del settore più oltranzista.

Il nuovo contesto della guerra, che ha visto le lotte intestine diventare pubbliche, in un tetro pluralismo teso a mostrare il proprio esser falchi, ha consentito a Prigozhin di rivolgere le proprie critiche, condite da una sequela di insulti inimmaginabile nel discorso pubblico russo, a Shoigu apertamente, utilizzando i propri mezzi mediatici e provando a instillare l’idea di come corruzione e incompetenza portino inevitabilmente al tradimento e alla sconfitta. Aver indicato nei familiari del ministro, già oggetto di numerose inchieste giornalistiche, dei privilegiati rispetto ai figli strappati dalle madri e da famiglie povere, ha toccato una corda profonda del sentimento popolare russo, e anche la scelta di definire la propria marcia per la spravedlivost’, termine che indica sì la giustizia, ma con un’accezione sociale profonda, è stato un tentativo di Prigozhin di presentarsi come colui in grado di vendicare i lutti e i torti di gente mandata in guerra per combattere al posto dei rampolli dell’élite. 

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In un sistema dove l’immagine del presidente vincitore, presentato come in sintonia con il suo popolo, colpisce anche l’assoluta mancanza di appelli alla popolazione per chiedere sostegno. Forse anche questo è, nell’interpretazione di Putin, un segnale di debolezza, perché i leader non ne hanno bisogno, ed è un errore forse dovuto alla sua idealizzazione della Russia imperiale, forse all’esser stato “prescelto” per esser successore di Eltsin, chissà. Far paralleli è sempre cosa rischiosa, e i due paesi hanno sistemi, storie, peculiarità differenti, ma nel 2016 Erdogan chiamò i suoi sostenitori in piazza, in ogni modo si rese visibile, utilizzando anche i social, in prima persona lottando per mantenere il potere. Vero, il rischio che i mercenari della Wagner potessero circondare il Cremlino e la residenza presidenziale di Novo-Ogarevo non vi è stato, ma conta poco nella costruzione e nel mantenimento della propria immagine.

Quando, nel discorso di martedì mattina, il presidente si è rivolto ai militari impegnati nel contenimento del colpo di mano, le parole sul mancato appoggio del popolo ai ribelli hanno suscitato la reazione memetica dei canali Telegram della Wagner, che hanno avuto gioco facile nel montare un video di Rostov nel corso della giornata di sabato, con foto di persone in posa o intrattenute a chiacchierare con gli uomini di ventura: sarebbe errato vedervi un bagno di folla, ma il messaggio inviato è chiaro, Prigozhin e la sua truppa sono accessibili, vengono dalla gente, mentre il presidente è separato dal mondo comune. Anche qui si tratta di una proiezione abilmente costruita, poco veritiera, ma in grado di produrre effetti e di fornire l’impressione di Prigozhin come uno in grado di far da sé.

L’idea di Putin, invece, è di affidare compiti, appaltare spazi e responsabilità, lo è stato con la compagnia di Prigozhin, a cui è stata data la gestione del reclutamento nelle carceri, in una ulteriore eccezione normativa per cui era il patron della Wagner ad andare nei penitenziari a prendere i detenuti per mandarli al fronte, graziati dai decreti presidenziali. L’outsourcing continua anche dopo la ribellione, con i ceceni mandati a Rostov per scacciare i mercenari, e l’annuncio di martedì 27 giugno su maggiori armamenti alla Rosgvardija, la guardia nazionale russa, con tanto di carri armati, sembra voler dire affidare la propria sicurezza a corpi trasformati da garanti dell’ordine pubblico in pretoriani a difesa del potere del presidente. Un ulteriore elemento che porterà a nuovi equilibri in un establishment dove il ruolo di Putin appare sempre più privo delle elogiate qualità di mediazione e comando, e sempre più preoccupato per quel che avverrà.

Facile dire che l’ordine è stato restaurato e tesser le lodi della solidità di Putin di fronte alla minaccia attuata: anche per le modalità in cui è avvenuto, con l’amnistia preventiva, vediamo qualcosa di inedito, di solito provvedimenti del genere avvengono dopo processi e detenzioni. Assistiamo, invece, a un processo di sgretolamento della verticale, in corso da mesi e con ritmi diversi, salti qualitativi in avanti e indietro, con tensioni crescenti in una società fortemente frammentata e vista come spettatrice, e chi si permette di criticare lo spettacolo prontamente incarcerato, se non è in mimetica e con un fucile.

La violenza nella vita quotidiana, già presente e ignorata dall’assenza di provvedimenti su quanto avviene a casa, diventa legittimata, e anche commettere reati: se si è pronti ad andar al fronte, il criminale diventa patriota, e potrà, se riuscirà a salvarsi, tornare in libertà, in un circolo vizioso di morti e angherie di ogni genere.

Scenari sempre più inquietanti continuano a stagliarsi all’orizzonte in un paese privato della libertà, e rileggere oggi la lettera di Vissarion Belinskij a Nikolaj Gogol’ assume un significato particolare, quando il critico attaccava la svolta conservatrice e monarchica dello scrittore, scrivendo che la Russia vede la sua salvezza non nel misticismo, non nell’ascesi, non nel pietismo, ma nei successi della civiltà, dell’illuminismo, dell’umanità. Non ha bisogno di prediche (finiamola di ascoltarle!), non di preghiere (smettiamola di ripeterle!), ma di risvegliare nelle persone il senso della dignità umana, da tanti secoli perso nel fango e nella spazzatura, – diritti e leggi che non debbano essere coerenti con gli insegnamenti della Chiesa, ma con il buon senso e la giustizia, e la loro attuazione la più rigorosa possibile. Una disamina che oggi appare ancora attuale.

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