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Diario russo 12. Pietro il grande e il salto in alto

11 Giugno 2022

La nostra vita post-moderna è già normalmente attraversata da ossessioni di ogni tipo, alimentate e amplificate dagli smartphone e dai social network, in questi tempi di guerra la faccenda assume contorni ancor più preoccupanti. Alla preoccupazione legittima delle prime settimane di guerra, accompagnata dall’indignazione e dalla volontà di opporsi all’aggressione putiniana, è seguita la paura scaturita dalla grande ondata repressiva che ha colpito chi si opponeva alla follia militarista per poi subentrare una normalità fragile, fatta di contraddizioni, dolore rimosso, sguardi sfuggenti e tentativi di vivere come prima del 24 febbraio.

Levchenko

Una realtà artificiale, quella che si vive in questi giorni, fatta di rivendicazioni imperiali sempre più pressanti, come dimostrato per l’ennesima volta dall’intervento di Putin giovedì scorso a un incontro con giovani imprenditori e ricercatori, dove il presidente ha fornito giudizi assai problematici e curiosi su Pietro il Grande, elogiandone l’espansionismo territoriale e tacendone l’apertura della “finestra sull’Europa” per cui lo aveva invece riverito Aleksandr Puškin. Pietro, secondo il presidente russo, si sarebbe semplicemente riappropriato di terre già appartenute in precedenza a Mosca, senza specificare quali, forse perché, eccezion fatta per alcuni territori nei dintorni dell’attuale Pietroburgo, non era così. Una riduzione volgare e imprecisa dell’afflato europeizzante dello zar, ancora oggi odiato dalle alte sfere della Chiesa ortodossa per aver domato l’oscurantismo dei patriarchi, e riveduto e corretto da Putin come una comparsa di una Gomorra in cirillico, pronta a riprendersi quel che era di suo possesso. 

La ricerca della normalità irreale in alcuni casi crea dei veri e propri corti circuiti, il cui fumo avvelena ogni possibile sforzo volto ad accrescere l’opposizione alla guerra, anche quando si tratta di tentativi animati da nobili intenti. La saltatrice in alto Maria Lasitskene, campionessa olimpica a Tokyo 2020, in una lettera indirizzata al presidente del Comitato internazionale olimpico Thomas Bach, ha protestato contro l’esclusione degli atleti russi dalle competizioni, utilizzando queste parole a proposito della guerra (mai citata apertamente): “Nel salto in alto, le mie principali colleghe sono ucraine. Non so come guardarle negli occhi o cosa dire. Loro, i loro amici e le loro famiglie sperimentano ciò che nessun essere umano dovrebbe vivere.

Lasi

Sono certa che niente di tutto questo sarebbe mai dovuto accadere. E qualsiasi argomento non può convincermi a cambiare questa opinione.La lettera è stata pubblicata dall’atleta sul suo profilo Instagram, ricevendo tanti commenti, molti dall’Ucraina: Julija Levčenko, argento agli Europei Indoor di Glasgow del 2019, ha risposto scrivendo come “anche dopo l’annessione della Crimea e l’inizio della guerra in Ucraina orientale vi abbiamo sostenuto come potevamo, a rischio della nostra reputazione, non abbiamo perso la compassione. Volevamo credere che non fossero tutti così (…) ma quando il 24 febbraio è accaduta l’invasione su larga scala, a 5 chilometri da casa mia è caduto un missile, quando io alle 4 del mattino tremo dal terrore e non so a chi telefonare, quando dal mio allenatore ricevo un sms “Julija, fai i bagagli”… non una parola dagli atleti russi… addirittura al contrario, concerti in sostegno della guerra e praticamente il sostegno unanime. Qui non è questione dello sport fuori dalla politica o della politica nello sport, cazzo, qui si tratta di vite umane! Di vita! Della cosa più preziosa! Non di medaglie o di record!”. La Lasitskene è capitano dell’esercito russo, e nel 2018 è stata tra le sostenitrici della candidatura di Putin a presidente: cosa le accadrà per questa timida, forse pro-forma, contrarietà alla guerra-non-nominata?

La lacerazione non riguarda solo lo sport, ma anche come organizzare la propria vita e l’opposizione alla guerra, sui social e dal vivo. Chi resta in Russia, per tante ragioni, si è trovato ad essere accusato da Garry Kasparov, rinomato scacchista e politico assai disastroso, di sostegno alla politica putiniana, ritenendo impossibile poter lottare contro il regime trovandosi nel paese. Una dichiarazione che lascerebbe il tempo che trova, soprattutto se dalle labbra di un personaggio ormai da più di un decennio ininfluente per l’area della protesta in Russia, ma membro del Comitato russo contro la guerra, di cui è stato tra i fondatori assieme a Michail Chodorkovskij e altre personalità. Sempre da quell’ambiente è venuta fuori l’idea del passaporto del “buon russo”, proposta da Kasparov per agevolare chi ha lasciato il paese. L’idea ha suscitato ilarità e al tempo stesso ribrezzo, per esser qualcosa di molto simile, nelle caratteristiche, alle patenti di patriottismo rilasciate oggi dal regime putiniano, e che testimoniano l’incapacità di comunicare con la società russa. Esiste, all’interno della Russia e nella nuova emigrazione, una nuova generazione politica, diversa dagli ex boiari riparati all’estero anni fa, e che probabilmente inizia a essere anche qualcos’altro dall’esperienza di Navalny, recluso in una colonia da cui ad oggi l’uscita è prevista tra poco più di un decennio. 

Kasparov

Intanto vi sono le necessità della vita quotidiana, famiglie separate dall’emigrazione, spaccate dal giudizio sulla guerra, divise da un confine diventato una barriera di sangue e distruzione. Stamattina una mia amica, a cui è stato rifiutato il permesso di soggiorno in Italia per motivi di reddito e per questo costretta a tornare in Russia, mi ha scritto che finalmente rivedrà il marito a Biškek, a giugno. Ed è strano vedere come quei paesi dell’Asia Centrale e del Caucaso, fino al 24 febbraio luoghi di provenienza di tanta emigrazione in cerca di lavoro, oggi siano la meta di molti russi in fuga, o diventino la meta di incontri romantici. Una giornata d’amore nell’ex Frunze, un nuovo lavoro a Taškent, una borsa di studio a Erevan, e, per i più fortunati, la ricerca di un futuro migliore a Berlino o a Praga: queste sono le storie di tanti nostri amici.

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