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Diario russo 13. Uno come Putin

25 Giugno 2022

L’idea della persona in grado di far la storia non è nuova, eppure non smette mai di far presa. Forse siamo innamorati dell’immagine, un po’ prometeica un po’ faustiana, dell’uomo capace di domare gli eventi e di far prendere loro la direzione voluta, divinizzandone e demonizzandone le fattezze, cercando spiegazioni spesso sconfinanti con l’irrazionale. Le settimane di guerra ancora una volta dimostrano questa idea, aiutata dalle particolarità dell’epoca mediatica e dei social, spesso riducendo la tragedia a una sorta di duello tra Putin e Zelenskij, utilizzando le differenze (e ce ne sono) per creare delle figure al di fuori della realtà e del contesto. 

Nel caso di Putin, la costruzione della sua immagine viene da lontano, e comincia con l’inizio del suo percorso da erede designato del primo presidente russo, Boris Eltsin. Un passaggio spesso trascurato, passato in silenzio per una idealizzazione del Corvo Bianco, visto come incarnazione di democrazia e libertà a differenza del successore, quando in realtà si tratta di una semplificazione assai dozzinale. Ma com’è arrivato al potere Putin? È una domanda a cui in tanti hanno provato a rispondere nel corso degli anni, con libri e studi di ogni genere, alcuni denunciando una vera e propria operazione di lungo periodo condotta dal Kgb prima e dall’Fsb poi, d’altronde il presidente ha prima lavorato per i servizi sovietici e poi è stato addirittura direttore dell’agenzia di sicurezza russa.

Ricostruzioni del genere, affascinanti per chi ama un certo tipo di gialli, non tengono conto però di quel che son stati gli anni Novanta russi, non si soffermano su quale tipo di élite sia sorta dal caos post-sovietico, e della formazione di una nuova realtà, dove inevitabilmente vi erano sopravvivenze del recente passato ma prevaleva anche l’imprevedibilità di una società catapultata in condizioni inedite, dove dissidenti e uomini del fu apparato comunista, tecnocrati, ex agenti, generali in bolletta, diplomatici in pensione e oligarchi in odor di mafia si trovavano a costruire le istituzioni della Federazione Russa. Un contesto eterogeneo, dove alla fedeltà personale a Eltsin e alla volontà di andare oltre l’eredità sovietica corrispondevano grandi ambizioni e una spietata ricerca dell’affermazione personale, sia in forma di mero arricchimento che di accumulazione di potere politico. 

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Putin, agente di terza fila del Kgb, impiegato all’estero ma a Dresda, in Germania orientale, con un incarico poco rilevante, si trova in quegli anni al seguito di Anatolij Sobčak, primo sindaco eletto di Leningrado (che cambierà nome nel giro di pochi mesi in San Pietroburgo), spesso troppo sommariamente descritto come uno dei padri della democrazia russa. Ancora oggi non vi sono studi specifici sulla sua figura, né biografie accurate, però probabilmente per capire alcune cose di Putin bisognerebbe analizzare meglio Sobčak e le sue posizioni: democratico, forse, ma poco tollerante verso le opposizioni, l’ex capo dell’attuale presidente russo era animato da un sentimento nazionalista forse poco notato, ma rivendicato in queste settimane terrificanti dal suo vicesindaco.

Sobčak era tra quelli che rivendicavano la “restituzione” dei territori definiti “storicamente russi” dati via dai comunisti all’Ucraina, e che intravedeva in Kiev una minaccia per l’umanità, parole quest’ultime che nel 1992 vennero prese per quello che erano, una boutade di un personaggio assai innamorato di sé stesso e del suo potere. Questa atmosfera è parzialmente inquadrata da Masha Gessen nel suo L’uomo senza volto, edizione ampliata della biografia di Putin pubblicata nel 2012, dove però la ricostruzione dell’ascesa di questo funzionario cozza con le illusioni di un establishment liberale verso cui l’autrice sembra nutrire un certo rispetto che non consente di andare a fondo nel suo tentativo di ricostruire la genesi dell’affermazione di un ex agente al Cremlino, alludendo spesso a una specie di piano dei servizi segreti per conquistare il potere, come emerge, ad esempio, dalle pagine sui giorni del putsch del 1991 a Pietroburgo. Un peccato, perché l’ossessione securitaria che ha permesso la nomina di Putin come successore di Eltsin ha permeato i sogni e le gesta di quei funzionari di governo liberaleggianti alla ricerca di un “Pinochet russo”, e non è un caso che uno di loro, Sergei Kirienko, oggi sia una delle eminenze grigie dell’Amministrazione presidenziale. 

Ma è vero un dato, la capacità di far diventare una figura sullo sfondo il leader riverito e temuto di oggi: una capacità dovuta all’adozione delle peggiori tecniche pubblicitarie di manipolazione, prima, e poi dal controllo dell’apparato amministrativo unita a una repressione sempre più brutale e spietata. Putin in volo con le gru siberiane per riportarle sulla giusta via migratoria, a torso nudo per laghi e fiumi, con gli occhiali da sole, nella tajga con il ministro della Difesa Shoigu: queste sono alcune delle immagini più note del presidente, utilizzate non per un tradizionale e polveroso culto della personalità, ma per un ben più pervasivo e pericoloso merchandising nazionale, con magliette vendute già all’inizio degli anni Dieci negli aeroporti e nei mercatini, conditi da un servilismo in alcuni suoi risvolti più fantozziano che staliniano. 

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Anche una canzone, pensata come leggermente ironica, è servita a costruire il brand, Takogo kak Putin (Uno come Putin), hit di un gruppo di ragazze, le Pojuščie vmeste, dove l’uomo ideale è ritratto con le supposte qualità del presidente: Uno come Putin/nel pieno delle forze/uno come Putin/che non beva/uno come Putin/che non mi offenda/uno come Putin/che non scappi. La ricezione del pezzo non fu ironica, e ha conosciuto una vita non breve per una canzoncina pop, perché dopo il lancio del 2002 venne usata per le presidenziali del 2004, fino a restare in programmazione in molte radio e su Mtv Russia fino al 2008, e mi ricordo di averla sentita nell’estate del 2005 dovunque a Pietroburgo, persino dalle casse di un gay bar dietro Gostinyj dvor, i cui astanti erano ancora ignari dell’ondata di omofobia promossa dal Cremlino di là a venire.

Spesso alcune delle iniziative più odiose sono state di natura personale, come quando la Gessen venne licenziata dal posto di direttrice di “Vokrug sveta”, popolarissima rivista ambientale, per essersi rifiutata di coprire il volo delle gru. Il giorno dopo, dal Cremlino arrivò un invito alla giornalista, ricevuta da Putin assieme all’editore, redarguito dal presidente per il licenziamento, e con l’offerta per la Gessen di tornare al suo posto, rifiutata sdegnosamente. Questo piccolo mediocre siparietto di un decennio fa permette di capire qualcosa in più della mentalità putiniana, in cui alcuni atteggiamenti da managerino si sommano all’esperienza nei servizi, uniti in una propria rappresentazione da padre severo ma generoso, pronto a perdonare ma non a dimenticare e sempre nella posizione di controllare, reprimere e distruggere. 

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