Tornare a scuola / Didattica del virus

7 Settembre 2020

Siccome mi rivolgo agli insegnanti, alla vigilia di un anno scolastico che sarà tra i più difficili e incerti, mi preme innanzitutto chiarire che cosa ci accomuna tutti in quanto insegnanti. Ciò che condividiamo è una “pratica”: l’insegnamento. Ciò che, in quanto insegnanti, sappiamo del nostro mestiere, sebbene esitiamo talvolta a confessarlo pubblicamente, è che la nostra pratica non si definisce a partire dai suoi contenuti (se non derivatamente) e che non si risolve nella trasmissione degli stessi “alla più alta velocità consentita dal canale” (se non derivatamente). A definire quello che facciamo non è ciò che facciamo ma come lo facciamo. Per questo l’assegnazione dell’insegnamento al dominio delle “pratiche” (o delle “arti” nel senso greco delle technai) risulta pertinente. Il come insegnare la scienza pedagogica lo chiama “didattica”. Nei dipartimenti di scienze della formazione la didattica è oggetto di uno specifico insegnamento. In quanto insegnanti che si sono fatti le ossa sul campo, noi però sappiamo che la didattica non è una metodologia che si possa insegnare separatamente. La didattica non è cioè una propedeutica all’insegnamento (da filosofo, aggiungo poi che una “didattica della didattica” è un autentico paradosso perché è solo insegnando che si può insegnare ad insegnare…). Come insegnanti noi sappiamo che l’insegnamento è piuttosto un atto sempre sospeso al suo quando e al suo dove, un atto situato che ha il suo perno e la sua condizione di possibilità in una relazione determinata, prescindendo dalla quale non vi è più insegnamento alcuno. La didattica è perciò il suo elemento, non il suo metodo a priori.

 

Quello che propongo, anche per farla finita con il tempo dei lamenti, è di provare a pensare il Covid come occasione. Provare a pensare il Covid come kairos, questa è la sfida. Kairos, lo sapete, nomina in greco antico il momento propizio, l’occasione da cogliere al volo per agire efficacemente. Per gli antichi, Plotino, ad esempio, l’occasione, se colta, partorisce una azione necessaria: kairos e to deon sono sinonimi, l’occasione è gravida di una conseguenza pragmatica, l’occasione è una potenza che si manifesta improvvisamente e che, se colta, non può non essere esercitata (questo è il significato di to deon). Coglierla non vuol dire altro che agirla. Per noi insegnanti, il Covid può allora funzionare proprio come un siffatto evento kairologico. La virtù specifica dell’evento consiste nel produrre repentinamente una trasformazione che prima del suo (dell’evento) aver luogo non era nemmeno immaginabile. Gli eventi, differiscono dai fatti, proprio perché non sono anticipabili, ma, accadendo, creano del possibile, vale a dire generano delle nuove possibilità operative, degli abiti di condotta inediti. Il grembo dell’evento è gravido di futuro, mentre il suo stato di nascita lo attesta orfano di un passato dal quale deriverebbe come la conclusione di un sillogismo o come l’attualizzazione di una potenza anteriore. Per questo gli eventi sono traumatici, al punto che è possibile dire che dove non c’è trauma, spaesamento, choc, non c’è stato evento alcuno.

 

Pensare il Covid come evento vuol dire, in generale, pensarlo come l’occasione per la riformulazione di un’etica. Non intendo con questo termine un insieme di norme morali ma un complesso di risposte sul piano dei comportamenti. Nel lemma ethos, come è noto, c’è un riferimento al comportarsi, al come abitare coi nostri corpi la situazione che il destino ci assegna traumaticamente. L’etica è in prima battuta una etologia. Una indicazione di Gilles Deleuze può essere utile a questo proposito. In un passo ricco di pathos, egli infatti scrive che se la “morale” ha un senso, questo non può essere che un senso etologico, cioè etico. Essa si risolve nell’appello a “non essere indegni di ciò che ci accade”. Deleuze si riferisce al poeta Joe Bousquet inchiodato al letto da una pallottola che gli ha spezzato la schiena, per noi insegnanti significa provare ad “essere all’altezza” nella nostra pratica quotidiana dell’evento Covid che ci ha traumatizzato. Come per il “poeta ferito”, anche per noi insegnanti il problema è rigettare la tentazione del lamento, del diniego, del risentimento contro l’evento. Bisogna evitare che l’evento si incripti nelle nostre esistenze come qualcosa che le rode dall’interno, votandole all’impotenza. Bisogna insomma incarnarlo, coglierlo al volo, farlo proprio e farlo agire produttivamente. Deleuze conia il verbo “controeffettaure” per indicare questa metamorfosi dell’evento, da subito ad agito. Dopotutto non si esprime diversamente da uno dei suoi maestri, Jean-Paul Sartre, il quale in una frase che è andata a decorare perfino le librerie Feltrinelli, affermava che tutta la libertà dell’uomo si risolve nel fare qualcosa di ciò che gli altri hanno fatto di me.

 

Ora, ci sono sostanzialmente due modi di rapportarsi all’evento Covid e questi definiscono anche due modi possibili di pensare la scuola post-Covid. Il primo è quello normalizzante. L’evento è vissuto come deviazione dalla norma data. Dopotutto, il Covid non è forse una “malattia” e che cos’è la patologia se non la modificazione per difetto o per eccesso (ipo o iper) di una norma fisiologica data (quella che definirebbe la salute)? La risposta etologica all’evento Covid è allora una risposta adattiva. Nel caso della organizzazione della vita scolastica saranno banchi con le rotelle, mascherine, rigore nelle distanze interpersonali, orari sfalsati e, per quello che riguarda la didattica, come si è visto nel lockdown, l’eventuale ricorso all’online, sul quale dovremo subito ritornare. L’idea che fa da sfondo a questa risposta adattiva è che ci sia una normalità presupposta che funga da modello. In attesa che il tanto auspicato vaccino riconduca tutto a questa benedetta normalità perduta, non resta che supplire ciò che manca. Evidentemente qualsiasi soluzione dettata dall’emergenza si presenterà come una copia difettosa dell’originale.

 

Ma c’è anche un altro modo di rapportarsi all’evento che chiamerò “normativo”, riprendendo una tassonomia (normale-normativo) proposta da Georges Canguilhem nel suo celeberrimo libro sul normale e il patologico. In questo libro, partorito negli stessi anni in cui Canguilhem militava nelle file della resistenza antifascista, il medico e filosofo francese contestava l’idea classica di una comunanza di genere tra patologia e fisiologia. Per Canguilhem il patologico non differisce per grado dal fisiologico, non è ipo o iper rispetto ad una norma data, ma differisce per natura, è altro dallo stato normale pur essendo in continuità con esso. In questo caso la risposta etologica all’evento non è più adattiva, ma si fa, per così dire, “esattiva”. La parola, che non è di Canguilhem, una parola che riprendo dalle pagine di Stephen Jay Gould sull’evoluzione, indica la potenza che ha la selezione naturale di creare del nuovo sulla base di vecchie facoltà, rimodellandole e ricalcolandole, dando loro, per così dire, nuovi “scopi”. L’evoluzione naturale è creatrice perché, lungi dall’essere normalizzante, è normativa, cioè crea. Non crea dal nulla, certo, questo è il privilegio di Dio, ma da un passato sedimentato e trasvalutato, seguendo una logica che ricorda quella del bricolage. La risposta esattiva o normativa differisce allora da quella adattiva perché non produce copie difettose dell’originale assente, non supplisce come può (cioè sempre male) delle mancanze, ma fissa positivamente delle nuove norme. Come diceva Deleuze: “controeffettua”.

 

Come diceva Sartre: fa qualcosa di quello che l’altro ha fatto di me. Riassumendo: il punto di vista della normalizzazione è quello della malattia (dobbiamo adattarci al Covid), il punto di vista della normatività è la salute (dobbiamo inventarci una nuova salute nel tempo del Covid). Noi insegnanti, alla vigilia della riapertura delle scuole, ci troviamo nella stessa alternativa: dobbiamo adattare la scuola esistente alle condizioni restrittive imposte dal Covid oppure inventare una nuova scuola, sfruttando l’occasione offertaci dal Covid? Dobbiamo accettare la malattia o dobbiamo creare con quello che abbiamo una salute possibile?

 

 

In filosofia si parla di “riduzione fenomenologica” per indicare quella conversione dell’attenzione grazie alla quale affiora alla consapevolezza lo sfondo cosiddetto anti-predicativo (“anti”, qui, significa “prima”) che sempre accompagna le prestazioni della coscienza vigile. L’interesse del fenomenologo si sposta infatti dalla cosa osservata alle sue modalità di apparizione: attraverso il mondo dato il fenomenologo vede l’apparire del mondo. È la stessa cosa che accade, nella vita ordinaria, quando un incidente o un inciampo nell’uso di un attrezzo o nell’espressione di una parola, ci pone in presenza, senza che l’avessimo progettato, con l’apparire di quell’attrezzo mille volte usato o con la consistenza sensibile di quella parola mille volte impiegata. La riduzione fenomenologica (come lo straniamento brechtiano) fa insomma passare le cose dal registro del significato e dell’uso a quello dell’apparizione. 

 

Gli artisti sanno bene che il riconoscimento automatico impedisce la visione e che solo nella apocalissi del significato il “reale” si dà a vedere. L’ovvio si fa allora Fragwürdig, degno di essere interrogato (Frage = domanda) perché problematico ed estraneo. Questo è il metodo della “riduzione”, professata dai filosofi e praticato dagli artisti. Ora se ci chiediamo, che cosa ha fatto il lockdown, almeno nei suoi momenti di massima intensità, dobbiamo rispondere che ha democraticamente esteso la condizione di filosofo e di artista. Per qualche momento almeno, tutti abbiamo assunto nella nostra vita quotidiana la postura che Bertolt Brecht raccomandava a chi volesse “vedere” criticamente il mondo (per trasformarlo): la postura del signor Keuner, il quale, dice Brecht, abita (o “disabita”) il mondo come un “ospite estraneo”. Perché allora non considerare il Covid una gigantesca occasione che è ci offerta dal destino per operare una “riduzione fenomenologica” della nostra pratica di insegnanti? Perché non considerarlo un’occasione per creare, da bravi bricoleurs della formazione, una nuova salute scolastica? 

 

La didattica online ha rappresentato senz’altro la novità più rilevante imposta dall’emergenza. Se ci chiediamo che cosa ci abbia insegnato, dobbiamo rispondere che se da un lato ci ha familiarizzato con una didattica virtuale, dall’altro ci ha resi sensibili a un dato che sembra contraddirla: l’imprescindibile necessità della presenza vivente perché vi sia comunità educativa. Online si possono forse fare ottime lezioni, ma dalla nostra esperienza di smart workers abbiamo appreso che la lezione (e la verifica degli apprendimenti) non esaurisce la didattica. Altrimenti non si comprenderebbe quel senso di frustrazione che comunque l’online produce. Dopotutto, se come prescrive la teoria della comunicazione standard, una buona comunicazione fosse una comunicazione alla più alta velocità consentita dal canale e con il minor “rumore” possibile, l’online avrebbe dovuto essere un’ottima soluzione. Se la scuola fosse solo trasmissione del sapere da una fonte a un ricevente, l’online non sarebbe una copia difettosa della lezione frontale, ma la sua piena realizzazione. Ma non è andata così, nemmeno per quegli insegnamenti che, a causa dell’alto livello di formalizzazione (matematica, materie scientifiche), meglio si sarebbero dovuti prestare alla loro nuova veste telematica. La presenza vivente ha fatto sentire tutta la sua rilevanza per la didattica proprio quando le condizioni oggettive la interdicevano.

 

Senza “corpi all’opera” niente formazione! Intendo corpi pesanti, contigui, soggetti alle variazioni dell’umore, intendo uno spazio nel quale quei corpi si raccolgono, un tempo limitato durante il quale devono convivere e relazionarsi, un ordine, una disciplina alla quale devono sottomettersi facendo violenza alla loro vitalità. Grazie agli impacci dell’online, abbiamo “visto” che la presenza non è accessoria al sapere e alla sua “trasmissione”, ma è essenziale. Il sapere, infatti, non è questione soltanto teorematica, così come la didattica non concerne soltanto la trasmissione di quel sapere. Il sapere è impregnato nella carne. Senza un “contatto” non c’è comunità educativa e per “contatto” si intende qui qualcosa di più di una stabile connessione: si intende quella “erotica dei corpi” che, da sempre, i classici hanno posto alla base del fatto pedagogico, considerandola la scintilla che accende il fuoco della dialettica (“dialettica” era il nome che gli antichi davano al nesso insegamento-apprendimento).

 

La questione è infatti antica. Coloro che si sono interrogati sui limiti della didattica online hanno spesso fatto riferimento al Platone della VII lettera che rimproverava Dionigi, tiranno di Siracusa, di aver scambiato la dialettica filosofica con la dottrina sintetizzata in un libro. La critica platonica della scrittura alfabetica è la critica di una formidabile tecnologia che per la prima volta nella storia dell’umanità permette una straordinaria didaché (didattica) in absentia. Non c’è bisogno del locutore, non c’è bisogno della presenza del padre del discorso, perché il libro può fare le sue veci. E non c’è bisogno di comunità educativa, vale a dire di quei corpi raccolti in un luogo determinato e in un tempo determinato, perché la scrittura alfabetica si dà a tutti, come una donna di malaffare. Non sceglie a chi rivolgersi, né come né quando. Al superbo tiranno, Platone obiettava che quando il sapere si emancipa dal contatto, per virtualizzarsi nel segno, ebbene allora non c’è più sapere, ma solo un suo simulacro.

 

Ma la cosa più interessante, per noi insegnanti che ci interroghiamo sulla didattica al tempo del Covid, è che la soluzione platonica non è consistita nella rinuncia alla scrittura e nell’aristocratico culto della parola orale. Platone, lo sappiamo, è il più grande scrittore del canone occidentale. Il che significa che Platone, il quale senz’altro aveva vissuto come un trauma l’alfabetizzazione della Musa, imbocca decisamente la strada della normatività e dell’esattamento. Si leggano i suoi dialoghi, si prenda atto della loro incredibile perfezione architettonica, e ci si renderà conto che la sfida della filosofia platonica fu quella di curvare il nuovo medium alfabetico – un medium magico che permetteva ai morti di entrare in contatto con i non ancora nati – all’esigenza imprescindibile della presenza vivente, senza la quale non c’è didaché. La scrittura dei dialoghi platonici è una dialettica in atto, non la simula, ma la mette in pratica, selezionando il proprio lettore, testandone la disposizione alla filosofia, mettendolo alla prova e conducendolo  una rivelazione che non appartiene più al solo piano del sapere. Sul piano formale, il problema sollevato da Platone è il nostro problema. I suoi termini sono radicalmente mutati perché non è certo più la scrittura la tecnica da piegare alla esigenza della presenza vivente, anzi, per noi, il libro e l’idea di sapere ad esso connesso rappresenta la norma che è minacciata dalle trasformazioni tecnologiche a cui siamo obbligati. Tuttavia anche noi ci confrontiamo con la necessità di incarnare il sapere, anche noi ci misuriamo con una tecnica che porta all’estremo la virtualizzazione del reale, anche noi sappiamo che la presenza è il perno della comunità educativa e anche noi la vediamo vieppiù compromessa, anche noi sentiamo l’esigenza di trovare una via d’uscita che non sia semplicemente il vagheggiamento di una impossibile restaurazione. Il Covid ci offre allora l’occasione per affrontare, come insegnanti, questa straordinaria sfida evolutiva. In fin dei conti, dobbiamo essergli riconoscenti.

 

Il testo riprende la conferenza tenuta da Rocco Ronchi il 2 Settembre 2020 agli insegnanti del Comune di Ravenna in occasione della presentazione del POFT (Piano di offerta formativa del territorio) per l’a.s. 2020 - 2021.

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