Dissolidarizzare o no dalle "generazioni"?

16 Luglio 2014

Tornano impetuose le “generazioni”. La parola corre. Non importa chi l’ha usata per primo, è questione di molti giorni. Nicola Abbagnano ricorda che l’opposto di “generazione” è “corruzione”: sarà forse per questo che torna oggi come sciame?

 

Matteo Renzi ha ricordato la “generazione Erasmus” che esiste da anni e che in effetti ultimamente era stata dimenticata, data come ben nota, quindi archiviata; ma forse no. Marco Travaglio coglie al volo e, su “Il fatto”, parla di “generazione Telemaco”, a proposito di Pier Silvio, figlio di Berlusconi, cotanto padre, intorno al quale fino a pochi settimane fa si addensava la “generazione dei berluscones”, in cui si trova una vasta platea di “igienisti dentali”, e così via.

 

 

Michele Serra, nella sua “Amaca”, ricorda che anche i centenari servono a qualcosa: ad esempio, a rammentare la “grande guerra” che seppellì una “generazione di europei” nel sangue e nel fango. Si può aggiungere ad essa, quella dei leggendari “ragazzi del ‘99”, partiti per il fronte ancora adolescenti, esaltata dalla retorica patriottica.

 

Nei giornali e nelle tv, col magone dell’uscita dei boys di Prandelli dal mundial, sono state evocate con ordine due “generazioni”, quella degli eroi di Italia- Germania 4-3 del campionato 1970; e quella del patriota Buffon, il vecio, l’unico esente dalla “caporetto” brasiliana.

Si potrebbe continuare, poiché molto di quanto accade nel presente e mastichi un briciolo del passato finisce negli scaffali delle “generazioni”, in giro di memorie che prendono il posto delle delusioni per sostituirle alla meglio, dare una boccata d’aria del buon tempo antico, più o meno recente.

 

 

A lungo sopravvive, tornando come alta marea, “la beat generation” dei poeti Allen Ginsberg, Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti; mentre da noi, paese in cui le poesie e le arti vivono di bassa marea, solo i singles ci provano; a sessantadue anni maturati tocca a Vasco Rossi far da “comandante” nel culto del Roxy Bar di Bologna, dove i ragazzi del ’77, indiani metropolitani e punk, cominciarono a fare le aste libertarie.

 

Da queste citazioni, in lungo e in largo del Novecento, puri riferimenti, emerge con chiarezza che il secolo breve si è allungato, sdraiandosi nel secolo seguente, il nostro; così confermando che c’era e c’è sempre più un forte bisogno di segnalare confini al di là del periodo di venticinque anni indicato dagli esperti, e dai vocabolari, come la durata di una generazione.

 

Per tenere il passo della velocità di tutto, compresa quella di sciupare la storia e i ricordi nelle classificazioni spesso solo di comodo.

La curiosità, e poi l’interesse, per il tema delle “generazioni”, chiave di una storia costruita nel Novecento, mi sono venute lavorando ad una trasmissione per la tv intitolata “I protagonisti”.

 

Una delle puntate, un piccolo film come del resto tutte le altre, era ed è dedicato a Indro Montanelli che, scoprii, aveva frequentato il piccolo schermo in diverse occasioni dalla fine degli anni Cinquanta a pochi anni dalla scomparsa, 2006. Con una divertente partecipazione ad una rubrica condotta da Beniamino Placido. Il sottile, anziano, lucido, Indro, disse che dalla sua scrivania non se ne sarebbe mai andato. E di lì a poco, invece, se ne andò; e neanche come amuleto compare nelle infinite repliche della Rai.

 

Il momento che mi colpì nei documenti su Montanelli fu quello in cui parlava di “generazioni”. Raccontava della sua generazione e di come il fascismo l’avesse, lui compreso, affascinato. “Ci dava l’avventura, ci metteva in divisa, ci faceva sfilare, prometteva viaggi in terra lontane, l’Africa, tutte cose che si mescolavano dentro… Avevo vent’anni e il giornalismo sembrava invitante e accettai l’invito. Me ne pentii. Il giornalismo di allora voleva solo il consenso e allora cominciai a scrivere di un soldato che allevava una gallina… sciocchezze”.

 

Indro Montanelli

 

La crisi del giovane Montanelli venne e fu seria, passò i suoi piccoli guai, e si allontanò dall’Italia per cambiare, per capire cosa potesse fare. Era finita la Guerra di Spagna, vinta dai Franchisti. Indro andò a trovare un amico a Parigi, a cui espose il suo desiderio di rompere col fascismo. E la risposta dell’amico fu: “Non lo fare, non dissodalizzare dalla tua generazione”. Ecco cosa rispose Montanelli: “ O mi convinse o mi tornò comodo, fatto sta che dissolidarizzai più tardi, anni dopo, negli anni della guerra quando mi trovai mescolato alla Resistenza a cui non aderii, sì mescolato…”

 

Le parole del grande giornalista, sempre molto chiaro nel suo schierarsi con la destra (quella pulita, minoritaria e a volte invisibile), mi sembrano un controcanto a quanto è avvenuto nella nostra società.

 

Attraverso simboli, parole d’ordine, formule, le “generazioni” vengono contrassegnate sempre più nel mondo e in particolare da diverse forme di affiliazione ideale, ammantate di cose a volte, il più delle volte, solo in apparenza attraenti e ingannevoli, come lo fu il fascismo per i giovani, come ricorda Montanelli; e ci vuole qualcosa di doloroso, e mortale, per svelarlo.

 

Il potere evocativo, vocativo, delle “generazioni” quando se ne cantano le gesta o le emotività, possono diventare senza la prova della realtà promesse e appuntamenti virtuali. Le emotività, in particolare, costruiscono forme di “familismo” che forma e perdona o dimentica nel tempo. Come è accaduto per il ’68, la contestazione giovanile, l’innocenza e i valori dei ragazzi che restano vagamente come età dell’oro nel ricordo, lasciando un effetto ipnotico che cancella il fanatismo delle parole e dei gesti.

 

Non so quando, né come: ma “dissolidarizzare” dai ricordi generazionali o dalle generazioni stesse, può essere indispensabile.

La democrazia non appartiene ai “familismi” generazionali visibili, bendati, invisibili; li evita; chiede la aperta e appassionata condivisione di brevi epoche, brevi età dell’oro, strette nel tempo e nei suoi entusiasmi, vede i limiti e i segni della de-generazione, ovvero la corruzione o le corruzioni di cui siamo spettatori da troppi anni, storie della storia d’Italia che rischiano di ingoiare vita e di vitalità, pregiudicando le une e l’altra.  

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