Dizionario Manganelli 7. Dizionario
«Un dizionario è l'universo per ordine alfabetico: è il libro per eccellenza: tutti gli altri vi sono già dentro; basta tirarli fuori». (Anatole France)
1.Un Luogo, ovvero il linguaggio
Come noto la lingua svolge un ruolo fondamentale all’interno della visione letteraria di Giorgio Manganelli al punto che non è azzardato ipotizzare, come è stato fatto, che per lo scrittore questa consista nell’«unica realtà di cui si possa davvero fare esperienza» (Luigi Matt). Manganelli lo scrive del resto sin dal principio, ovvero da quel primo numero di «Grammatica», rivista d’avanguardia che co-diresse nella sua brevissima parentesi editoriale, e su cui in un saggio-manifesto del 1964 (anno per lui del sospirato esordio) sentenzia:
«ogni universo è in primo luogo un universo linguistico in quanto è proprio una morfologia, ed è sottoposto a tutto il rigore e a tutta l’arbitrarietà delle morfologie. Così noi possiamo parlare del linguaggio come di ciò in cui l’universo stesso diventa non direi pensabile, (cosa possiamo dire? In che modo l’universo è linguaggio?), direi: abitabile». E poi ancora: «non credo al significato come indicazione avulsa dal linguaggio. Il linguaggio è un luogo abitabile e quello che noi chiamiamo significato è semplicemente l’abitabilità di quel luogo (…) non ci sono dei significati al di fuori del linguaggio. Ci sono dei luoghi» (GR).
La medesima idea, seppur con indole meno assertiva, è ribadita in una recensione ad Alberto Arbasino di due anni successiva, che appare stavolta su sede meno peregrina («L’espresso») e corredato da un titolo cattivante: “come un architetto dell’anno mille”. In uno dei suoi snodi testuali, Manganelli distilla la sua idea sul linguaggio in un sillogismo dalle movenze dogmatico-deduttive:
«Dubito che esistano universi che non siano universi di segni; ritengo quindi che ogni interrogazione abbia per destinatario un linguaggio; e che infine noi viviamo, abitiamo, linguaggi, sempre e solamente». (AC 151)
E lo stesso concetto è riproposto in uno scritto teatrale in cui Manganelli si dice scettico rispetto all’esistenza di «universi che non siano universi di segni»: da cui fa derivare l’assunto che «noi viviamo, abitiamo linguaggi, sempre e solamente» (CA 51).
Se in più luoghi dell’opera dello scrittore figura dunque il da lui postulato – e, col necessario rigore, stabilito – nesso tra luogo e linguaggio non sorprenderà rilevare come le pagine manganelliane si presentino singolarmente fitte di descrizioni di luoghi svolte mediante il lessico proprio delle categorie grammaticali: un uso del meta-linguaggio attraverso il quale l’architetto-grammatico costruisce e cataloga a un tempo i contorni degli spazi-linguistici entro cui si muove.
Il carattere fondativo che per Manganelli ebbe questo rapporto inestricabile è d’altronde testimoniato dalle diverse occasioni in cui lo scrittore trovò modo di tornare su questo genere di relazioni – talvolta in occasioni inopinate. È il caso, per certi versi eccentrico, della prolusione che tenne a un convegno di studi sui parchi regionali ad Albano Laziale – meritoriamente portata alla luce dagli scavi di Emanuele Dattilo – in cui l’illustre relatore, dopo le prudenti specifiche intorno ai suoi interessi preminenti (le lettere), che nulla avevano a che fare con il tema dell’incontro (i parchi, appunto), procede senza indugi a sovrapporre i due ambiti. Nel prosieguo del discorso Manganelli assimila il giardino in cui si trova a «una costruzione che agisce su un territorio come si può agire su una gigantesca pagina che va scritta», mentre il ritmo che contempla nell’intervallarsi di prati, specchi d’acqua e rilievi che lo circondano «finisce per formare un dizionario pronto per essere incluso in una colossale sintassi elaborata dalla fantasia degli architetti paesaggisti» (PN 165). Questa stessa prospettiva grammaticale lo scrittore la assume con i luoghi che visita in veste di reporter inviato dai giornali, attività esplorativa che Manganelli compie con l’armamentario dell’analisi logica, prima che di quella urbanistica.
Il nesso si fa ancora più manifesto in un’intervista a ridosso del suo esordio, in cui Manganelli ammette con un certo orgoglio di aver ideato un nuovo genere letterario a cui conferisce il nome provvisorio di «geocritica», che consiste «nel trattare un luogo alla stessa maniera con cui trattiamo sostanzialmente un libro. Cioè come sistema di stimoli che agisce su di noi, e che noi possiamo, nel caso di una visita frettolosa recensire, nel caso di un soggiorno più paziente ricostruire con una critica vera e propria» (PM 23)
Ciò accade evidentemente con Firenze, territorio in cui Manganelli non vede una città, bensì «un modo di occupare uno spazio del mondo […] proprio «come una lingua, catalogo dei possibili retorici, viene organizzata in una sintassi» (FP 37); ma il parallelismo si attaglia anche alle rovine di Pozzuoli, sito ove il visitatore trova ad accoglierlo «una saldatura impossibile e sottilmente peccaminosa […] tra la bella e scheggiata sintassi del tempio di Augusto e la pompa del moncherino barocco» (FP 151).
Ai luoghi attraversati fisicamente, o almeno per via potenziale, si alternano quelli percorribili col solo estro dell’ekphrasis, un’arte in cui Manganelli si distingue, nel nostro Novecento, per la densità di soluzioni non di rado abbacinanti. Tra i diversi esempi proponibili, si potrà menzionare qui l’aureo tragitto della «nube di luce» che nel Cinquecento «investe la pianura emiliana, e invase di ori abbaglianti» la città di Parma. I meriti di tale folgorante novità per la direzione della fotografia della «regale» cittadina sono da Manganelli ricondotti al Correggio, colui che con «luminosa sintassi catturò lo spazio, aprì prospettive di cielo, disegnò itinerari d’aria» (SA 141).
2.Il linguaggio, ovvero un luogo
In un sistema in cui il postulato di partenza recita come ogni luogo sia linguaggio, da cui discende il fatto che sia leggibile come un catalogo di fatti retorici o, almeno, come una fitta e ordita trama di subordinate, sarà legittimo inferire che per Manganelli, viceversa, i vocabolari assurgano a loro volta al ruolo di mappe o veri luoghi da percorrere. L’ipotesi pare trovare conferma nell’articolo con cui lo scrittore recensisce la ristampa anastatica dello storico Dizionario Tommaseo-Bellini, opera che reputa «un gradevolissimo luogo di passeggio» in quanto atto «a quell’ozioso passeggiare di forma in forma, di colore in suono, infine di sostantivo in verbo»: che Manganelli compie con il passo attardato del flâneur (LI 223).
Colpisce quindi rilevare come pure un autore da lui assai distante come Italo Svevo, e che certo doveva avvertire maggiore soggezione verso la lingua italiana, rappresenti il dizionario come un itinerario – e però piuttosto impervio.
Protagonista del racconto Una burla riuscita, di patente ispirazione autobiografica, è uno scrittore triestino fallito, ma oltremodo desideroso di successo, che si prepara alla stesura del secondo romanzo mettendo in campo goffamente le strategie che di seguito riportiamo:
«Mario nell’anima del quale il successo stava evolvendosi, credeva di doversi preparare anche alla seconda edizione italiana, e rimase attaccato al vocabolario. Anzi, con la riverenza che per quel libro ha ogni buon scrittore italiano, una volta presolo in mano, ne lesse una pagina intera. Ora la lettura del vocabolario somiglia alla corsa di un’automobile su una brughiera». (mio il corsivo)
Tutt’altro, dunque, il rapporto che Manganelli intrattiene con vocabolari e repertori lessicali, al punto che si potrebbe arguire che come per Carlo Dossi, scrittore a lui non discaro (LI 224-27), la compagnia del vocabolario fosse preferibile a quella di molti libri. D’altra parte, un autore «verbivoro» e ghiotto come Manganelli non poteva certo rinunciare al piacere lussuoso di dizionari di sinonimi come il monumentale “Nomenclatore” approntato da Palmiro Premoli, «libro in cui le parole sono protagoniste» e che lo scrittore assimila ancora con un’imagery a dominante architettonica, a «una fortezza, un laboratorio di invenzioni, un ricettario di chimere e morgane» (LI 166).
Il gusto con cui Manganelli recensisce i dizionari non sta però solo nel delibare parole rare e inconsuete o nel trattarli come oggetti letterari, ma consiste spesso nello scorgere le esili silhouette degli studiosi che scompaiono al cospetto dei loro imponenti volumi. Per questa ragione, non sorprende che Manganelli, come in parte già visto, dimostri di apprezzare il lavoro archeologico di Niccolò Tommaseo, studioso d’animo infaticabile e dal carattere assai idiosincratico, che era solito compilare con una partecipazione umorale, per noi oggi davvero irreplicabile, le proprie schede – talvolta arricchendole con divagazioni faziose, specie sui lemmi ideologici, inesorabilmente marchiate dal suggello della sua famigerata firma: T (l’assoluta iniziale del cognome puntata).
È in virtù di questo spirito che tracima le colonne del dizionario, che Manganelli arriva a figgersi il lessicografo nella memoranda immagine di «un re dei predatori, un mastodonte, una bestia preistorica colma di catarro e di schede» in un crescendo grottesco che lo vede trasformarsi in un megalitico, ossia «quelli che misero in piedi le mura di Aurelia e di Alatri prima che si apprendesse l’arte di arrostire i tordi, e i menhir di Bretagna, prima che a la Marie Bleu si tentassero le prime arselle in salsa verde» (LI 221). Lo stesso accade nelle pagine che dedica al Vocabolario marino e militare di Guglielmotti in cui intuisce un «inverosimile domenicano invaghito di cose marinare» (CL 35), oppure con la Grammatica del Panzini, un’ opera che giudica «insaporita dei funebri aromi del bosco e del cipresso» (ancora un luogo, dunque!) dietro la quale lo scrittore non può fare a meno di notare come si occulti «un uomo d’ordine», che «non disdegna di porre la lingua italiana sotto tutela fascista, senza iattanza» e il quale inserisce, con malizia certo consapevole, «Mussolini, in un esempio sull’uso dell’articolo, accanto a Garibaldi e a Cavour»(CI 34). L’immagine boschiva non può allora che condurci a La selva delle parole di Daniello Bartoli, l’autore che forse più di tutti ha condizionato l’opera di Manganelli, che non solo lo riteneva forse la vetta del suo personale anticanone, ma che, in una prospettiva più ampia, si spingeva a definirlo un «classico della nostra prosa» (LI 163), per quanto irreperibile in libreria.
Manganelli doveva sentire una particolare vicinanza a quest’autore che avvicina al Dizionario Zanichelli per via del comune «catalogo dei possibili verbali» che ne fa «quasi un testo base per fare scongiuri, per evocare quei fantasmi che solo al cenno delle parole vogliono ubbidire»: gli stessi spettri con cui Manganelli proverà a interloquire sin dagli esordi (LI 165). Nel recensire l’edizione del gesuita secentesco, l’autore di Centuria si addentra ancora una volta in un luogo-linguistico, che stavolta assume le forme di un ambiente «insieme folto d’alberi e materia primigenia» (LI 164), un fastoso deposito di parole organizzate per colonne parallele secondo una struttura che Manganelli riproporrà curiosamente nei taccuini linguistici ad uso proprio (Federico Francucci), e in cui tanto più lo scrittore riconosce l’ansia delle parole di farsi «frase, pagina, libro» (LI 164).
Come accadeva a molti intellettuali italiani d’area periferica a lui precedenti, Manganelli è portato a studiare a fondo il lessico, a compilare liste, a raccogliere parole, a «trasformarsi da scrittore in vocabolarista o da vocabolarista in scrittore» ( Claudio Marazzini, Giulia Raboni, Pietro Gibellini) ma nelle sue mani il vocabolario non si limita ad essere strumento di consultazione o di carotaggio per arcaismi da tesaurizzare, diventando una miniera cui attingere la materia della propria espressività, oltre che della propria letteratura. In un’intervista Manganelli può quindi a ragione ricondurre il risultato della sua opera a «un dizionario impazzito» per poi concludere con un interrogativo carico di dubbi per l’interlocutore e per sé stesso: «Sono io il dizionario impazzito, o è lui che mi sfoglia?» (PM 227).
Non ci stupisce pertanto che l’oggetto-vocabolario domini a tal punto l’immaginario di Giorgio Manganelli da trovare ospitalità in due diverse centurie: in quello cioè che, ad ogni buon conto, è il libro a maggiore trazione narrativa nell’opus dello scrittore milanese. Nella centuria venti si legge infatti la bizzarra vicenda di una donna che «un giorno che cercava una chiusura lampo» ebbe un’avventura, ma «ignora se per amore, distrazione, fretta» o «imperfetta consultazione dei vocabolari» (CE 46). Meno visionariamente rocambolesca è la storia che nella centuria cinquantasette vede coinvolto invece un aspirante scrittore, che sappiamo solitario e parco di memorie, il quale, proprio come il protagonista della succitata novella sveviana, cerca insistentemente idee per mettersi a scrivere e soprattutto non sa ancora se il suo libro «debba parlare di qualcosa o di niente».
Per ovviare a questa impasse, l’uomo «ha provato ad aprire il vocabolario, ma ha sempre trovato parole come ‘cane’ o ‘treno’; pensa dunque che «qualcuno lo stia insultando, e lo inviti a fuggire, e si guarda attorno, pian piano, digrignando i denti» (CE 120). A differenza del suo disorientato personaggio, Manganelli possedeva un’idea precisa della letteratura, che pensava come una divagazione oltranzisticamente formalista: una pratica rituale, insomma, che poneva a pari distanza dall’ idea di avere qualcosa da dire almeno quanto da quella di dover parlare di qualcosa.
È in ragione di questa consapevolezza, forse, che la sua prosa poteva servirsi, tra le molte altre letture, anche delle pagine dei vocabolari, dell’accumulo di schede o elenchi di parole («la parola ‘amare’ non ama, e la parola ‘odiare’ non odia, e la parola ‘morte’ non muore» DO 136). Del resto, in un sistema così rigorosamente calibrato (quale certamente era quello manganelliano) se l’universo coincide con il linguaggio e il vocabolario è la sua materia ogni divagazione letteraria non potrà che nascere da qui: che, qui, cioè, risieda almeno il suo principio. E aprendo al centro il Discorso dell’ombra e dello stemma, l’opera in cui Manganelli ha vagheggiato proprio le origini primordiali della Letteratura, il capitolo diciotto si apre su una pagina che fa giusto così: «il grande bang fu semplicemente l’esplosione di un dizionario» (DO 227).
Opere di Giorgio Manganelli citate con relative abbreviazioni:
GR = La frase si trova nel frontespizio del numero primo di «Grammatica» che nelle prime pagine della rivista che riproduce, sotto il titolo La carne è l’uomo che crede al rapido consumo, la trascrizione di una discussione registrata su nastro a cui hanno preso parte, oltre a Manganelli, Nanni Balestrini, Alfredo Giuliani, Gastone Novelli, Elio Pagliarani, Achille Perilli.
AC = Altre concupiscenze, Milano, Adelphi, 2022.
CA = Cerimonie e artifici. Scritti di teatro e di spettacolo, a. c. di Luca Scarlini, Salerno, Oedipus, 2000.
PN = Parchi naturali, in «Riga» n. 44 a. c. di M. Belpoliti e A. Cortellessa, Macerata, Quodlibet, 2022.
PM = La penombra mentale. Interviste e conversazioni (1965-1990), a c. di R. Deidier, Roma, Editori Riuniti, 2001.
FP = La favola pitagorica, Milano, Adelphi, 2005.
SA = Salons, Milano, Adelphi, 2000.
LI = Laboriose inezie, Milano, Garzanti, 1986.
CL = Concupiscenza libraria, Milano, Adelphi, 2020.
CE = Centuria, Milano, Rizzoli, 1979.
DO = Discorso dell’ombra e dello stemma, Milano, Adephi, 2017.
Leggi anche:
Filippo Milani | Dizionario Manganelli 1. Dissimulazione
Chiara Portesine | Dizionario Manganelli 2. Arte
Ambra Carta | Dizionario Manganelli 3. Fantastico
Marco Belpoliti | Dizionario Manganelli 4. Recensore
Giorgio Manganelli , Jean-Claude Berger | Dizionario Manganelli 5. Solo menzogne!
Emanuele Dattilo | Dizionario Manganelli 6. Teologia