Manganelli innamorato
Le lettere a Ebe Flamini (1960-1973), qui raccolte nel volume Mia anima carnale (Sellerio, 2023, a cura di Salvatore Silvano Nigro), sono lettere di un Manganelli furiosamente innamorato di Ebe, spesso chiamata Ebissima. Lo scrittore la conosce nel 1960 e fin dalle prime lettere la seduce anche con il suo rutilante, iperbolico, superlativo linguaggio. È come se “essere innamorato” rendesse la sua lingua ancora più densa e barocca, protesa a cogliere improvvise epifanie in dettagli quotidiani, soprassalti inconfessati. Manganelli non può che “infiammarsi” per il nuovo e prezioso oggetto d’amore, sia esso letterario o umano (il titolo di due suoi splendidi volumi di lettore di libri è significativo: Concupiscenze letterarie): investe l’oggetto amato del suo fuoco e lo coinvolge in quella fiamma. Non è solo un caso se lo scrittore paragona il suo amore a un privato concerto musicale che lui stesso mette in scena per l’amata.
In una lettera a Ebe del 25 dicembre 1960, Manganelli scrive: «Nella Bayreuth del mio foro interiore, nella imminenza della esecuzione, sono stati allontanati gli ottoni, i timpani, i triangoli, e violoncelli; il cerchio dell’orchestra è abitato da: una arpista di mano sottile e occhio malinconico, una Maria Giovanna un poco pingue e greve di camminata; a diciotto metri da costei, un cembalo; vi siede un calvo malinconioso e solitario, poiché lo molesta una corrente d’aria che si infiltra per una porta lontana quaranta metri, eccolo talvolta levarsi dalle sue tastiere e con mite scricchiolìo di scarpe percorrere il grande palcoscenico, e accostare la porta rissosa e malfatta; infine far ritorno al suo dolce strumento, sempre con lieve e consapevole cricchio di scarpe, e diteggiare il bianconero della lamentazione; a trentadue metri da costui un flauto in veste di velluto, longilineo e immalinconito, cui assiste un esile fiato per delizia della sua breve gamma: e costoro fanno musica per te. La sala è vuota, solo tu stai in un angolo, sguardo autorevole e cuore inquieto, e sfogli i “documenti”, i “testi”, mentre flautista cembalista arpista fiatano diteggiano scoccano per te: la donna sola e cibernetica che ha due orchidee nella borsa, casuali e brucianti». Da questo concerto immaginato dall’amoroso Manganelli emerge un dettaglio singolare ma potente, che ritornerà nelle lettere a Ebe: lo scrittore innamorato non ammutolisce e non si abbandona, rapito dalla sua passione; anzi, approfittando della passione, esalta il linguaggio che la descrive e percorre nuovi circuiti immaginativi, immerso in uno stato di eccitazione che lo porta a fantasticare un concerto privato, che rifiuta l’immensa Bayreuth ma vuole la sola Ebe come autorevole e complice ascoltatrice.
Neppure per un attimo Manganelli depone il suo linguaggio, consegnandolo al silenzio stupito dell’emozione. Lo usa come uno scudo che riflette la sua energia erotica e quella di Ebe. Le lettere, nel loro complesso, si trasformano in un precipitato di visioni amorose, in un laboratorio linguistico felice. Scrive il curatore Salvatore Nigro: «Con i caratteri malformi della macchina da scrivere o con una penna distratta e disinvolta, che disgrega o raggrinza le parole, Manganelli scrive lettere di sapiente letterarietà». Ma non è mai una “letterarietà” esterna all’estasi amorosa, non è una finzione linguistica o descrittiva, è qualcosa di più intimo: è l’animale erotico Manganelli che si fonde/confonde all’animale scrittore Manganelli, senza soluzione di continuità. Tutto accade nello stesso momento. E tutto brilla, pervaso da una felice, surreale, squillante ironia: «IO non voglio essere accettato: voglio che tu cammini per casa Benzoni con gli occhi fermi e allucinati, che tu offra grandi corone di fiori di loto al tuo ospite solo in grazia del nome, che, in genere, suscita allarme e inquietudine con un contegno ovviamente demenziale (ad esempio potresti, all’ora del tè, mordicchiare la poltrona su cui mi sono seduto – oppure staccare i padiglioni delle orecchie di qualche ospite di buona pelle, per farne babbucce o portadocumenti, o ditali da offrirmi)».
Nelle lettere a Ebe, Manganelli si mostra sinceramente, quasi oscenamente, bulimico di sesso, cibo, parole: non smette di affermarlo, con una prosa che diverte e travolge, in un crescendo iperbolico: «Mia patologia, mi ha dato gran gioia leggere che nel nostro incontro tu trovi ricchezza e imprevisto; cose che più d’ogni altra vorrei darti. E ansimano e tumultuano i destrieri selvatici, ansiosi di giostrare in tuo onore. Che cosa sei per me? All’inizio sembrava un gioco galante: oggi è una dura, una fiera dolcezza, un colloquio che non riesco mai ad interrompere». Anche la letteratura deve, per un attimo, andare “in pausa”, e l’amore per Ebe trovare una via secca e sincera, lontana per un attimo dalla lussuria verbale. La domanda “Che cosa sei per me” è assoluta, come la percezione di un colloquio che, nell’acme dell’amore, sembra non avere fine. Sono sentimenti tipici di una vertigine erotica che lo scrittore si guarda bene dal nascondere e che anzi manifesta con una evidenza traboccante.
Il vorticoso e reciproco amore non durerà a lungo. Lo scrittore nel 1966 si innamorerà di Viola Papetti. In pochi anni l’amore con Ebe si dissolve, anche se entrambi percepiranno per sempre la mancanza dell’assoluto amoroso che vissero insieme. La relazione ha fine il 31 dicembre del 1973. Manganelli resterà ancora legato a Ebe fino al 1974, poi collocherà la loro storia amorosa nel “catalogo delle proprie lapidi”, anche se Ebe continuerà a essere per lui il “sole portatile per tutte le sere della vita”. Ebe Flamini morrà il 3 ottobre del 1992 e fra i suoi oggetti personali sarà trovata una scatola di cartone che custodiva la corrispondenza con Manganelli. Su una busta, accanto alla data della morte di Manganelli (28 maggio 1990), si legge “Lettere di Giorgio”. A parte, erano raccolte le lettere di Ebe che la destinataria aveva trovato tra le carte dello scrittore, da lei stessa riordinate perché confluissero nel Fondo Manganelli del Centro per gli studi della tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei dell’Università di Pavia.
Prima che l’amore abbia fine, Giorgio le scrive ancora, durante i frequenti viaggi della maturità, numerose lettere da Addis Abeba, Mombasa, Cairo, Malacca, Manila; ma l’incantesimo dell’incontro sembra, se non dissolto, smorzato. Manganelli le scriverà impressioni anche sarcastiche e fulminanti dei luoghi dove si trova a vivere in viaggio, sorpreso della sua nuova natura di scrittore errante. Ma è finito per sempre il tempo delle golose e sensuali osservazioni amorose, come quella inviata da Roma nell’agosto del 1960: «Mia cara. Tu abiti la mia memoria, fragile e regale nella tua vestaglia a quadri rossi e bianchi, tutto mi abiti col tuo breve corpo, e mi illumini del verde e grigio dei tuoi occhi gatteschi, gli occhi da cui voglio essere riconosciuto. Così io ti scaldo nel sacco a pelo della golosa memoria, come ti ho scoperto lunedì, smagrita e accesa, anima di cerva». Manganelli, da retore galante, non ha mai smesso di parlare. La sua natura bulimica di funambolo verbale ha trovato la sua sorgente non nel tripudio dell’immaginazione linguistica – o meglio non solo in questo – ma nel desiderio carnale e potente di un corpo femminile.
Il libro si chiude con una litania profana non datata, un’ossimorica invocazione erotica, improvvisata su macchina da scrivere, immaginata come un gioco a due con Ebe, che inizia così: «Mia anima carnale / mia carne spirituale / mia luce tenebrosa / mia tenebra illuminosa / mia solitudine gremita / mia mandria solitaria / mia luce notturnante / mia notte illuminante / mio inizio conclusivo / conclusione incominciante / mia anima carnale // mia carne spirituale / mio furore pacificante / mia pace furibonda / mio disordine consacrante...». Non c’è nulla di cui Manganelli non ami parlare, dai coccodrilli nelle foreste africane agli scacchi e alle farfalle di Nabokov. Onnivoro, erudito, curioso, trafitto dalle ondate di un linguaggio impudico e irrefrenabile, dai primi giorni del suo innamoramento fino agli ultimi, Manganelli muove e combina una lingua accesa, sensuale, sfrenata. «Di Malacca non ti dirò nulla», scrive; e specifica: «è una delle cose più straordinarie, più struggenti, più fascinose che abbia mai visto; credo che in Oriente non ci sia nulla di simile. Per parlarne bisognerebbe recitare, fare grandi gesti, poi muovere gli occhi in modo sognante e allusivo, camminare a passetti, inginocchiarsi due o tre volte, cantarellare, fare il gesto di cullare un bambino mormorando uno scongiuro, suonare un tamburello, un’arpa, organizzare un funerale, schioccare la lingua come al termine di un pasto copioso, e infine singhiozzare». Con queste parole, che descrivono la simultaneità incantatoria della percezione, Manganelli ci rivela, a modo suo, l’estasi erotica che per quasi un decennio lo legò a Ebe Flamini. Anche se Ebe quasi mai appare con la sua viva voce o viene descritta in un dettaglio fisico, è sempre figura forte e viva, incoronata dai sortilegi verbali dell’amato.