Memento vivere / Donatella D’Angelo: fotografare il desiderio

20 Gennaio 2017

Lo ammetto. Ho iniziato a leggere il libro di Donatella D’Angelo, Memento vivere,  conoscendo la vicenda biografica. Non si dovrebbe. Ma è successo. Così ho lasciato che le sue parole costituissero l’aria della storia, anche se non c’è stata la possibilità che essa si dipanasse. Donatella e Josè si innamorano, sono entrambi fotografi e decidono di lavorare insieme. Tutto si colloca nella drammatica tenerezza del tempo prima di ogni evento, dove ogni istante è perfezione, illusione, desiderio. Non sanno cosa potrà accadere, se ne vanno in un casale nel Monferrato, si spogliano e si fotografano.  Sono come sono: un uomo e una donna. Ma  Josè sa che gli rimangono pochi mesi di vita e non lo dice alla compagna. È così che inizia la storia di Memento vivere, la raccolta poetica di Donatella D’Angelo corredata dalle immagini scattate insieme a Josè Lasheras (Edizioni del foglio clandestino, 2016). 

Le  immagini e le parole, come in amore, nascono da questa disparità, da un abisso, un vuoto, una mancanza. Nelle fotografie essi sono vicini nel momento in cui sono più distanti, mai più così nudi, mai più così vivi. Le fotografie che si sono scattati lo fanno intuire, celebrano questo mistero, rivelano l’attimo sospeso della perfezione. Il tempo si ferma, lo spazio si dilata, i corpi perdono la loro consistenza. La morte e la vita si incontrano nell’attimo sospeso dell’estasi: ognuno esce da se stesso ed entra nell’altro attraverso il proprio riflesso, il proprio doppio fotografico, la propria anima, “l’ombra luminosa che accompagna il corpo”.

 

Donatalla D’Angelo e Josè Lasheras, Los respiros del Alma, 2013. 

 

Eppure nulla è più inconsistente. I dettagli lo rivelano: la brocca vuota abbandonata sui gradini, come un detrito prima della sua definitiva scomparsa,  l’acqua che si perde sulla superficie, gli sguardi che non si incontrano, i corpi che si penetrano senza sfiorarsi. Sono solo istanti, pura temporalità fotografica. Vuoti, ricordi in vita. Fruscii, se la fotografia potesse evocare un suono. Un tocco effimero, una carezza. Le hanno chiamate “Los Respiros del Alma”. Ed è vero. Fra di esse ci sono due immagini che li rappresentano.

 

Donatalla D’Angelo e Josè Lasheras, Los respiros del Alma, 2013. 

 

Lei è seduta sui gradini di una scala che sale verso l’alto. Non si vede il soffitto, non si capisce nemmeno se c’è una fine, “il nulla all’ingresso/e all’uscita della nostra vita”, scrive Donatella. Lo sguardo è lontano verso un altrove, che non si può intravedere. Lo spazio esplode, come il tempo, come la materia, che perde la sua densità. Lui sale, non ha un volto, si muove. Lei è ferma. Stanno insieme dicendosi addio. Poi c’è il ritratto di José. È l’immagine più commovente del libro. Si scorgono i suoi piedi, sospesi, come se stesse volando verso l’altro, immerso nel vuoto. Donatella è sdraiata sul divano, quasi aggrovigliata in se stessa, in un dolore inconsapevole, ma profetico. Sono entrambi chiusi nelle loro irriducibili solitudini. Ognuno a elaborare un dolore: la mancanza per lei, la fine imminente per lui. 

 

Donatalla D’Angelo e Josè Lasheras, Los respiros del Alma, 2013. 

 

Donatalla D’Angelo e Josè Lasheras, Los respiros del Alma, 2013. 

 

Nondimeno l’immagine li tiene vicini, li avvolge in un tempo sospeso e  sospende il tempo della morte. L’illusione che si vorrebbe reale, il potere degli dei: fermare il tempo e far vivere le ombre. Nello spazio chiuso in cui si trovano, essi sono artefici e materia, si esprimono e creano i loro corpi, partecipano ognuno della propria vulnerabilità,  due semidei dentro un istante ambivalente: quello in cui la luce illumina la terra per la prima volta e quello su cui  calano le tenebre e si avvicina il giorno del giudizio. Un battito di ciglia, uno scatto, l’obiettivo che si apre e si chiude. Tutto qui: un momento che può esistere solo nell’illusione di un’immagine. Una morte in vita, come scriveva Eugenio Montale nel suo “Piccolo testamento”, dove  “persistenza è solo l’estinzione” e l’eredità evanescente è fatta di  cipria e cenere. “Los Respiros del Alma” è composto della stessa materia: vuoti, mancanze, respiri, riflessi. L’impalpabilità della fine, che tuttavia nell’immagine acquista una forma e  costituisce la forma del desiderio, evocata come in un negativo: il riflesso fa immaginare la pienezza del corpo, l’assenza evoca il contatto, la morte genera la  vita.  

 

Non è forse questo lo strazio che si percepisce in ciò che Barthes definisce noema della fotografia: l’“è stato”, ovvero l’istante già perduto, totalmente indifferente a chi tenta di fissarlo, eppure così presente?  E in questo caso è la foto di un amore senza futuro, fondamento irradiante, attorno al quale si moltiplicano tutte le rappresentazioni, che trascende i valori formali dell’immagine per diventare “un nucleo carnale, una pelle” da condividere fra colui e colei che si sono fotografati.  Forse le immagini di Donatella e Josè non aprono alla comprensione razionale di un evento,  ma al mistero dei sentimenti. È inutile puntare lo sguardo sulla foto per illuminarne il senso, qualcosa fugge al tentativo di decifrazione. “Farfalla, vola via da me/sei la mia vita”, dice Josè alla compagna.

Forse si tratta di un’allucinazione fotografica: i tempi lunghi dello scatto, la messa in scena, i corpi mossi, sfocati, confusi, sono la rappresentazione delle emozioni che muovono ogni loro azione: ammiccano, attirano, seducono, senza sfiorarsi mai. E la fotografia risulta riluttante a rivelare ciò che contiene: la messa in scena di una sparizione tramite la rappresentazione del desiderio e del vuoto che la genera: una reticenza semantica, un’estasi senza contatto, senza corpo, senza vita. Ma forse per questo più intensa di qualsiasi esperienza vissuta.

 

Poi ci sono le parole. Il testo avvolge le immagini. Donatella scrive dopo avere scattato le fotografie insieme a José. Anche se le poesie sono suddivise in due parti, hanno l’andamento di un flusso continuo, la narrazione sgorga dall’urgenza, dal dolore, dall’attesa della fine. Così la morte è “l’ombra di Cristo che lacrima sangue”, è “una cagna affamata”,  “un Canto a bocca chiusa”, anche se, scrive Donatella, “ci sono vuoti che non sono /spazi da colmare”.  La seconda sezione è dedicata proprio a questo vuoto, all’assenza di Josè, al suo ricordo, al residuo che è rimasto nella vita di Donatella, assenza e insieme memoria, come nelle immagini che si erano scattati pochi mesi prima che lui morisse. Lentamente il lutto viene elaborato: “lasciami andare ora/fa che sia il vento a seminare”, scrive ancora Donatella. Poi finisce anche “il tempo delle parole”, l’imperativo è continuare a vivere, a scrivere, a fotografare. È questa l’eredità che Josè lascia a Donatella, la possibilità di sopravvivere dentro la propria assenza. 

“In ogni fine/ sopravvive un inizio”. Sono queste le ultime parole dell’ultimo verso. 

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