È stato il maggiordomo

31 Dicembre 2014

Gosford Park di Robert Altman nacque inizialmente dalla semplice considerazione di non aver “mai fatto un film giallo. Uno di quelli in cui tutti cercano di capire chi è il colpevole, ambientato in una villa aristocratica, come Dieci piccoli indiani: un giallo alla Agatha Christie.” Come dichiarato dalle parole dello stesso regista, tra le eredità più interessanti della celebre scrittrice britannica si annovera il film del 2001, formidabile rivisitazione del più classico tra gli inviti a cena con delitto, sceneggiato dalla penna arguta del barone Julian Fellowes, attore, sceneggiatore e scrittore, cresciuto nell’aristocrazia inglese e sposato alla dama di compagnia della principessa di Kent.

 

 

 

Il film Gosford Park si apre con il rumore di un acquazzone e l’immagine fissa di una pozzanghera. La cinepresa si allarga su un prato con una casa signorile sullo sfondo, l’erba ben curata sulla quale continua a scrosciare una pioggia sempre più fitta. Davanti all’ingresso, un autista si fa aiutare da Kelly Macdonald (nel film Mary Maceachran), la cameriera apprendista di Lady Trentham (Maggy Smith) attraverso i cui occhi lo spettatore seguirà ogni intrigo. La ragazza inzuppata chiude la capotte dell’auto e, una volta salita la Lady, la sola a essere riparata da un ombrello retto dal maggiordomo, l’automobile parte e se ne va, accompagnata dalle prime note di un’impeccabile colonna sonora d’epoca. Queste le prime sequenze del film ambientato nel novembre 1932 che racconta di una riunione di famiglia con il pretesto dell’annuale battuta di caccia – molte le affinità con La regola del gioco di Jean Renoir, (1939).

 

Come la casa, i personaggi di Gosford park sono divisi e geometricamente disposti tra alto e basso, tra piani nobili e piani bassi, quelli della servitù. Tutti sono fortemente caratterizzati, al limite del cliché della commedia di maniera: la contessa squattrinata eppure insopportabilmente snob, un eroe della Prima guerra mondiale, il produttore americano dei film di Charlie Chan dall’inconfondibile accento yankee, il cameriere omosessuale caché e il valletto erotomane; tra le nobildonne due sorelle in conflitto per esseri giocate a carte lo stesso uomo, e in cucina altre due sorelle che si danno del lei.

 

Tra la bellezza del parco e lo scintillio degli interni, con mobili d’epoca e fini broccati, l’unica nota di modernismo è il telefono nel corridoio al quale, per l’intera durata del film, resta appeso il personaggio del regista americano, nella cui figura goffa Robert Altman disse di essersi voluto ritrarre. Egli cerca faticosamente un contatto con gli studios di Hollywood dove sta realizzando un film giallo, per il quale spera di potersi ispirare alla vita della country-house di cui è ospite. Al telefono, con le spalle curve convinto forse di poter migliorare l’acustica transoceanica, tra centraliniste e linee interrotte, confuso nel disattento andirivieni di camerieri e ospiti, il regista gracchia nella cornetta che nel suo film l’assassino sarà “il maggiordomo, è sempre il maggiordomo!”. Mentre i protagonisti rincorrono affannosamente il proprio destino la verità del film scivola in una semplice frase, nel luogo comune del maggiordomo assassino. È evidente, ovvio, come tutto ciò che nella vita umana è già deciso. Elementare, Watson.

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