Eco e il libero arbitrio

20 Febbraio 2016

Salve, signore della rosa – innamorato della Borroni, la bella, la rara, la prima presentatrice della televisione italiana, la rosa gentile. Salve, maestro.

Se domandavano a me, quelli di Stoccolma, avrei detto: ma sia dato a Umberto Eco, a nome delle semiotiche, del narrare aneddoti, del fare tecnico, del suonare il flauto, della sapienza e dell’ironia: e anche del narrare. Chi più di lui diligente, attento, sempre presente a lezione, sempre attorniato dai migliori, a seguire tesi difficili e ben fatte? Chi più di lui severo e ridente, maestro della ricerca e della didattica?

 

Porca miseria, non mi aspettavo che andasse via adesso.

 

L’ho incontrato la prima volta poco dopo il 1950, io ero forse in prima liceo, o prima, avevo 16 anni.

Eravamo al passo Falzarego, immersi nella neve alta, giovani raccolti per quindici giorni in ritiro da tutta Italia con l’Azione Cattolica dei tempi di Carretto, Mario Rossi e don Arturo Paoli, già ormai lettori di Gramsci e Gobetti e altri autori pericolosi come Simone Weil e Bernanos. Umberto aveva vent’anni, faceva il secondo anno di filosofia a Torino, lavorava con Pareyson. Al Falzerego (era forse il 1952), sotto il Sass de Stria roccioso e nevato, ne facemmo di tutti i colori, con Gianni Vattimo sedicenne, e Francesco Scotti, e Toni Negri, De Poli di Treviso e tanti e tanti, veramente magnifici e aspiranti santi. Teatro, lezioni d’ogni tipo, dialoghi, musiche, canti, meditazioni, messe, comunioni, purificazioni. Credo che tutti dopo siano diventati più o meno miscredenti, magari comunisti, pensatori deboli, potoppisti, ministri. Di Umberto ricordo con ammirazione e sbalordimento la lezione perfetta che ci fece sul libero arbitrio partendo dal canto di Dante e polemizzando con Croce. Io l’ho sentito già in quel ritiro maestro – e non ho più avuto dubbi che lo fosse.

 

E lo sia, anche se il teatro e la semiotica si sono sempre guardati con diffidenza.

 

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