Speciale
Educare e negare
L’impoverimento educativo, fenomeno che siamo abituati ad attribuire alle realtà marginali e periferiche delle nostre città, nelle quali abbandono e dispersione scolastica sono molto diffusi, non appare più circoscrivibile solo al fallimento dell’esperienza scolastica ma vede in questo tempo allargare il suo perimetro a tutte le generazioni investendo non soltanto la scuola, ma tutti i mondi vitali. È il prezzo – molto alto – che paghiamo in forma di omologazione culturale alla trasformazione dell’organizzazione sociale ed economica secondo i parametri del capitalismo cosiddetto “delle piattaforme”, che con la rivoluzione digitale e l’avvento degli algoritmi ha cambiato profondamente pelle.
Bernard Stiegler ha parlato in proposito di una società automatica nella quale i cittadini diventano soprattutto consumatori depauperando sempre di più la dimensione simbolica e perciò il senso stesso dell’esistenza [B. Stiegler, La società automatica. 1. L’avvenire del lavoro, Meltemi, 2019]. In quest’ottica, l’impatto sui processi di individuazione soggettiva e collettiva si fa problematico, soprattutto se l’alternativa all’esistere è il solo funzionare, come direbbe Miguel Benasayag. Nel qual caso basterebbe dotarsi di un pilota automatico che guidi al nostro posto all’interno di un circuito chiuso – come le piste con le macchinine telecomandate con le quali giocavamo da ragazzi – che si presenta come l’intero dell’esistente e l’unico possibile, e per alcuni, sotto l’effetto perverso della colonizzazione del desiderio, anche auspicabile.
La lotta per il riconoscimento, questione filosofica e politica nobilissima, e di conio progressista, rischia oggi di spostarsi sul terreno della libertà apparente, se, a questo mondo, che tende a generare identità seriali, è oggi negato un “fuori”, un altrove per prendere le distanze da sé stesso e rigenerarsi.
In questo divenire, il paradosso più grande e grave al tempo stesso è che i sistemi educativi e formativi, primari e secondari, scolastici e non, per loro natura vocati a far crescere un sapere critico per tenere aperti spazi di senso, vengono meno al loro ruolo diventando la stampella principale del sistema. Mentre oggi l’educazione avrebbe il compito primario di far emergere contestualmente l’ambiguità (limiti e possibilità) della tecnologia digitale, la consapevolezza degli automatismi che condizionano la nostra esistenza, e quindi la libertà e le relazioni con gli altri, indicando il sapere affettivo e l’intersoggettività come anticorpi fondamentali all’impoverimento simbolico.
Ivan Illich, anticipando i tempi, parlava di descolarizzare la società, avendo ipotizzato il rischio che si venisse a creare un circolo vizioso per il quale la società automatica alimentata culturalmente dal pensiero dominante, anche attraverso la scolarizzazione di massa, producesse un apprendimento povero di sapere critico, incline al conformismo, e volto ad (auto)sostenere la società del controllo e della disciplina, che ai nostri giorni, ha trovato una via soft alla sua attuazione attraverso il paternalismo della politica e dai mass media.
Un indicatore chiave della tendenza ad attivare piuttosto che a dis-attivare i portati della società automatica è il linguaggio meccanicistico che abita i luoghi della formazione, con l’effetto, innanzitutto simbolico, di negare che i processi di apprendimento e di conoscenza non sono circoscrivibili al solo aspetto cognitivo ma, che con esso, rappresentano un insieme inscindibile sia le relazioni sia le emozioni: conoscere è sentire, direbbe Antonio Damasio. Il linguaggio gergale così diffuso nei contesti formativi tende a esorcizzare la complessità, banalizzandola, e a ridurre la portata educativa della formazione a una questione di tecniche e di strumenti – cassetta degli attrezzi, cruscotto delle competenze, problem solving, ecc. – piuttosto che dare valore al lavoro su sé stessi.
Quel linguaggio induce invece un dover essere che è il rovescio dell’esito di un processo educativo, nel quale l’apprendimento è possibile solo nella relazione con l’altro, e quindi nella dinamica della decostruzione e ricostruzione di sé, nella destrutturazione di certezze e credenze, nella rottura di schemi mentali, nella denudazione, esplorazione e riconoscimento di sé.
Alla vulgata meccanicista possiamo iscrivere anche le parole del ministro dell’Istruzione e del Merito, Valditara, che intende rendere la matematica più utile e meno astratta. Jerome Bruner, tra i maggiori studiosi di psicologia cognitiva e dell’educazione, gli avrebbe risposto che non solo non esiste alcuna opposizione tra astratto e concreto, ma che tra dimensione paradigmatica (matematica) e narrativa (situazioni di contesto umane) c’è una relazione inscindibile, anzi fondamentale, ad esempio se si vuole costruire un ragionamento sulle tendenze dell’economia e sulla misurazione delle disuguaglianze, che non può non avere come base dimostrazioni matematiche. Questo tratto pedagogico è rintracciabile anche nei percorsi della Scuola di Barbiana di don Lorenzo Milani, che della matematica fece un pilastro.
Ancora oggi sono affissi ai muri dell’aula barbianese le tabelle e i grafici con le statistiche su temi economici e sociali disegnati negli anni ‘60 dai suoi allievi, che dai quei dati partivano per darsi un metodo, per rendere credibili le loro analisi, e per imbastire le idee per la costruzione di un mondo più giusto. Si legge in Lettera a una professoressa: “L’incarico delle statistiche l’ha preso Giancarlo. Ha 15 anni. È un altro di quei ragazzi di paese che voi avete sentenziato disadatto agli studi. Da noi carbura bene. Per esempio ora è quattro mesi che è immerso in queste cifre. Non gli pare arida nemmeno la matematica” [Don Lorenzo Milani, Scuola di Barbiana Lettera ad una professoressa, Libera Editrice Fiorentina, 1967].
Ma don Milani ispirava i suoi orientamenti educativi alla Costituzione italiana, in particolare all’art.3, che riguarda l’uguaglianza formale e sostanziale dei cittadini, e perciò l’impegno delle istituzioni a rimuovere gli ostacoli di ogni natura che non permettono il pieno sviluppo della persona e l’effettiva partecipazione dei lavoratori all’organizzazione civile sociale e politica del Paese. Una prospettiva, questa, già largamente disattesa – vista la crescita esponenziale delle diseguaglianze in questi anni – che oggi rischia di essere addirittura negata dall’enfasi posta dal governo Meloni sulla meritocrazia nei percorsi scolastici: se infatti non vengono tenute nel dovuto conto le condizioni e dotazioni originarie di ciascuno, invece che liberare chi ne è intrappolato dalla cosiddetta lotteria della nascita, si corre il rischio di cristallizzare le situazioni date, accrescendo disuguaglianze e ingiustizia sociale. L’educazione è invece una pratica di libertà – ricorderebbe a noi tutti il pedagogista Paulo Freire – ed oggi assume un doppio compito. Da un lato, nell’aiutare soprattutto le giovani generazioni ad apprendere ad apprendere, perché siano in grado di orientarsi tra la mole infinita di informazioni disponibili e saper decidere in che modo stare al mondo nell’era del digitale e del “capitalismo della sorveglianza”.
Dall’altro, nell’arginare un analfabetismo di secondo grado legato alla crisi del simbolico, e nel favorire il recupero di una bussola del senso, promuovendo un apprendimento, per dirla con Ugo Morelli, inteso come l’acquisizione di capacitazioni soggettive dotate insieme di un sapere (know how) e di un sapere perché (know why).
Si tratta di ricomporre le diverse dimensioni della conoscenza che, sotto i colpi dell’aziendalizzazione e privatizzazione dei sistemi formativi, sono state separate, negando nei fatti il significato e i fini dell’educazione. Ma l’abito dell’apprendimento è uno e senza cuciture, ricorda in uno dei suoi scritti il filosofo dell’educazione Alfred Whitehead, pubblicati recentemente [A. Whitehead, I fini dell’educazione, a cura di F. Cappa, Raffello Cortina editore, 2022]. Francesco Cappa che ne è il curatore sottolinea nell’introduzione che l’educazione soffre qualsiasi vincolo utilitarista, travalica i cicli formativi, è commisurata allo sviluppo soggettivo, ed è rispettosa della differenza, perché la natura della verità è nella relazione reciproca. Secondo il pensiero di Whitehead, ricorda Cappa, l’educazione si fonda innanzitutto sull’esperienza ed ha come obiettivo la saggezza, ossia quella “capacità di trasformare ogni fase dell’esperienza immediata in qualcosa che si riempie di senso per sé e per le relazioni nelle quali siamo coinvolti”.