Elogio del dialogo

19 Gennaio 2023

L’inferno che Jean-Paul Sartre mette in scena nella pièce teatrale A porte chiuse (1944) è un salotto privo di finestre e specchi nel quale i tre protagonisti sono condannati a un castigo eterno. Quale? Tormentarsi a vicenda nell’incapacità di costruire un dialogo aperto e paritario, rievocando misfatti e meschinità delle vite precedenti in un esercizio di reciproca prevaricazione. Una raffigurazione tutt’altro che grottesca, se calata in un presente sempre più marcato da incomunicabilità, dalla pervasività dell’hate speech e dalla distorsione del principio stesso di “libertà di espressione”. Alla radice del diffuso disagio sociale del nostro tempo vi è infatti una pronunciata difficoltà a entrare in relazione con l’Altro, laddove la nostra storia personale, così come la nostra vita psichica, è essenzialmente frutto di relazioni.

Se un tempo costituiva la modalità di interazione per eccellenza, oggi il dialogo si esprime entro spazi sempre più rarefatti. Latita nelle conversazioni monologiche sui social network, dove si spara la propria opinione irriducibile a qualunque forma di confronto costruttivo, o si annacqua nel pensiero della tribù cui si è scelto di appartenere, spesso acriticamente. Latita anche nei dibattiti televisivi, in cui la voce di chi sta esponendo una riflessione viene prontamente sommersa da qualche altra voce che desidera solo silenziarla per lasciare spazio alla propria tesi, innescando quasi sempre un’estenuante gara di decibel. Il progressivo impoverimento della capacità e della propensione a dialogare dipende essenzialmente dallo svuotamento di quella communitas magistralmente descritta da Roberto Esposito in un illuminante saggio del 2006 (Communitas. Origine e destino delle comunità, Einaudi), e nello sbriciolamento di entità trascendenti la singola persona in una miriade di monadi arroganti. Ancora una volta: non possiamo esistere se non “in relazione”, né tantomeno possiamo essere felici in una “bolla”.

È probabilmente a partire da questo assunto universale che si spiega l’aumento esponenziale, e sempre più evidente, di disturbi psichici nelle società occidentali. Un fenomeno che descriveva già acutamente Zygmunt Bauman in Homo consumens (Il Margine, 2021 [2006]), ma soprattutto in Conversazioni sull’educazione (Erickson, 2011) a proposito delle primavere arabe: una volta esistevano i gruppi, le fazioni, i partiti politici, adesso predominano gli “sciami”, ovvero folti gruppi di volatili che percorrono lo stesso tragitto per infine sciogliersi in mille direzioni, allo stesso modo in cui una piccola o grande manifestazione di piazza viene indetta da uno smartphone e ciascuno vi aderisce singolarmente, con una personale idea o proposta di cambiamento, per poi riprendere il proprio cammino senza rendersi conto dell’inconsistenza di un’azione che, per essere efficace, avrebbe invece avuto bisogno di riflessione condivisa, discussione, elaborazione di un progetto.

Lo stesso Bauman, in Conversazioni su Dio e sull’uomo (con S. Obirek, Laterza, 2016), ha sottolineato che una vera trasformazione del mondo e di noi stessi passa attraverso il “polilogo”, ovvero un confronto che contempli ben più di due punti di vista, ciò che una volta si definiva “discussione pubblica”. Persino un esperto di finanza, studioso di pensiero strategico e analisi dei processi decisionali, come Olivier Sibony, coautore del premio Nobel per l’Economia Daniel Kahneman, spiega nel recente Stai per commettere un terribile errore (Raffaello Cortina, 2022) come una vera leadership – aziendale, ma non solo – dovrebbe una volta per tutte smarcarsi dal consueto modello à la John Wayne («Io adesso parto. Seguitemi!») e prendere invece insegnamento dal prode Ulisse che, per affrontare l’ammaliante ed esiziale canto delle sirene evitando di soccombergli, si fa legare all’albero della nave e si affida ai suoi marinai, esortandoli a tapparsi le orecchie con la cera. In sostanza, quantunque la decisione finale spetti sempre al capo, è di vitale importanza che costui si confronti con i pareri degli altri membri del board.

Il dialogo, tuttavia, viene eluso anche nei rapporti fra le diverse discipline, diventate sempre più autoreferenziali. Così, per esempio, la sociologia tende a non misurarsi e a non interagire più con la letteratura, laddove nella complementarità di due modelli solo apparentemente differenti di indagare e rappresentare l’uomo e la società si dischiude uno spettro di analisi in grado di comprendere appieno ambito oggettivo e soggettivo. 

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La neonata collana Pratiche dialogiche, pubblicata dall’editore leccese Pensa Multimedia, nasce proprio da questo inconsapevole quanto smisurato bisogno di recuperare una dimensione senza la quale il significato delle nostre vite viene amputato. Un progetto che intende «calare i discorsi disciplinari asettici e svuotati di immaginazione in pratiche vive, pulsanti, conflittuali e al tempo stesso aperte […], conferendo alle discipline la porosità necessaria per tentare di scoprire nuovi modi più fertili per migliorare il mondo in cui viviamo», scrive il direttore della collana Riccardo Mazzeo, già autore di “libri in dialogo” con Zygmunt Bauman, Edgar Morin, Ágnes Heller, Miguel Benasayag e Tariq Ramadan. Il volume che inaugura la collana, Dialogo cinema e letteratura (pp. 160, € 15), è stato scritto, nella forma di un dialogo epistolare – non poteva essere diversamente –, dallo stesso Mazzeo insieme a Nina Harriet Saarinen, scienziata sociale nonché allieva dei due fondatori del metodo noto come “approccio dialogico”, il sociologo Tom Arnkil e lo psicoterapeuta Jaakko Seikkula. Introdotto oltre tre decenni fa in Finlandia, e fondato sull’assoluta efficacia terapeutica dell’ascolto e del dialogo, tale modello è attualmente adottato a livello internazionale non solo in campo clinico, ma anche dalle agenzie educative, nei servizi sociali e nelle governance locali.  

Tra Houellebecq e Bergman, Bradbury e Woody Allen, Franzen e Sorrentino, Dostoevskij e De Sica, e in un sorprendente intrecciarsi di film e romanzi, storie e immagini, in questo libro prende forma un avventuroso e illuminante percorso tra alcuni temi chiave del presente. Un prolifico confronto di idee, interpretazioni e osservazioni nel quale la grande letteratura – «strumento insostituibile per la crescita umana» perché innanzitutto sorgente e disciplina di emozioni, nonché contravveleno alle insidie della «società della seduzione» – trova nel cinema un potente alleato nel reindirizzare positivamente la propensione al mimetismo e quella diffusa tendenza narcisistica a trasfigurare la ricerca e il consolidamento di un’identità in un’immediata identificazione. Che i mezzi cinematografici abbiano, parafrasando Italo Calvino, una «suggestione di verità più diretta» rispetto alle opere letterarie, non ha molta importanza. Pur nella differenza dei linguaggi espressivi, l’immersione nei “concettimmagine”, che sono propri dell’esperienza visiva del cinema, e nelle vicende di personaggi letterari, in cui ciascuno di noi finisce per “proiettarsi”, offre inedite aperture di senso: «Quando si riesce a rispecchiarsi in una storia, che sia un film o un romanzo», scrivono Saarinen e Mazzeo, «si ha la possibilità di comprendere le parti frantumate di sé e di vederle da una diversa prospettiva». Ovvero il presupposto e la sostanza di una relazione autentica e nutriente con l’Altro. La stessa situazione in cui si ritrovano entrambi i protagonisti del film Scompartimento numero 6 del regista Juho Kuosmanen, tratto dall’omonimo romanzo di Rosa Liksom: in un ambiente claustrofobico, in tutto e per tutto simile al salotto infernale di Sartre, emerge lentamente, nell’irriducibile diversità dei due viaggiatori, la possibilità di una “coesistenza armoniosa”. Uno dei tanti, autentici “dialoghi”, non privi di divergenze o conflittualità, che fanno di questo agile libro a quattro mani un curioso quanto piacevole strumento di riflessione.

Nel secondo volume della collana, Del dialogo nella complessità (pp. 144, € 15,00) – anch’esso fresco di stampa, anch’esso a quattro mani – Miguel Benasayag e Teodoro Cohen, in uno stimolante contrappunto al percorso di Saarinen e Mazzeo, mostrano invece tutti i travestimenti che le spinte colonizzatrici e le manovre manipolatorie possono assumere presentandosi sotto la rassicurante immagine del dialogo.

I prossimi due libri, in uscita in marzo, sono Il dialogo guarisce, ma perché? di Jaakko Seikkula, ed Educazione e identità interculturale di Zygmunt Bauman, Agostino Portera e Riccardo Mazzeo, in una versione ampliata del testo originale pubblicato in inglese da Routledge due anni fa. Il primo descrive nel dettaglio, in modo esaustivo ma al tempo stesso con accenti poetici, tecniche e modalità dell’approccio dialogico, che oltre a salvare la vita psichica di tanti malati offre una nuova significazione al dialogo con gli altri e con se stessi, nella consapevolezza che il superamento del disagio esistenziale non si ottiene attraverso la mera esplorazione delle stanze più remote del nostro inconscio, come sosteneva Freud. Il secondo presenta le sfide che dobbiamo raccogliere in un mondo globalizzato, nel quale soprattutto le seconde generazioni di immigrati si ritrovano spesso sospese tra due mondi e due identità.  

Pratiche dialogiche offre dunque un prezioso tramite di orientamento per emergere dalla palude monocorde della comunicazione contemporanea, e un fecondo allargamento di prospettive per recuperare una sana capacità e consapevolezza di pensare criticamente in uno spazio di relazioni.  

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