Nel mistero di Vivian Maier

Silvia Mazzucchelli

Finding Vivian Maier

 

Finding Vivian Maier (Usa 2013, Feltrinelli Real Cinema) è un film prodotto e diretto da John Maloof e Charlie Siskel, presentato in diversi festival internazionali (in anteprima il 4 di ottobre alla Galleria dell’Incisione di Brescia) e dedicato a una delle figure più celebrate del momento: Vivian Maier.

 

La storia è nota e il film la ripercorre: nel 2007 John Maloof acquista quasi per caso ad un’asta i rullini della fotografa nata nel 1926 e morta nel 2009, che per tutta la vita ha lavorato come baby sitter. Convinto di aver reperito materiale interessante per il libro che stava scrivendo sul suo quartiere di Portage Park a Chicago, si ritrova ad essere unico erede e curatore di uno sterminato archivio fotografico: oltre 100.000 negativi di foto, molti filmati in Super-8, registrazioni su audiocassette, vari oggetti e ritagli di giornali.

Il dvd è accompagnato da un volume La bambinaia fotografa a cura di Naima Comotti, in cui sono raccolte alcune interviste e articoli apparsi sui quotidiani italiani.

 

La domanda che viene suggerita durante la visione del film non lascia dubbi: chi era la sconosciuta che per tutta la vita ha scattato migliaia di fotografie in ogni istante del proprio tempo libero sviluppando solo poche immagini?

 

Una donna “coraggiosa, eccentrica, paradossale, misteriosa, riservata, segreta”, non senza qualche aspetto oscuro (forse oppressa dal proprio carico biografico ed emotivo a causa di un trauma infantile?), rivelano le interviste di coloro a cui Vivian aveva fatto da nanny. Un’anima inquieta con l’immancabile Rolleiflex appesa al collo e, racconta lo stesso Maloof, affetta da una mania ossessiva che la spingeva ad accumulare ogni tipo di oggetto, come se fossero “ricordi e stralci di momenti”: gioielli, scarpe, cappelli, ricevute, biglietti. Il film non dice niente di più.

 

John Maloof parla di Vivian Maier al PowerHouse Arena di New York nel novembre 2011

 

Ma osservando le immagini che scorrono, sorgono altri interrogativi, soprattutto rivolti alla sua opera. Quali sono i motivi che hanno attirato Vivian Maier verso la marginalità urbana: voyeurismo, curiosità, compassione, sentimento di appartenenza, empatia? “Sono una sorta di spia”, amava dire di sé in maniera ironica e compiaciuta. E ancora: cosa rivela “la coscienza dell’occhio” di Vivian? L’elemento umano che popola lo spazio urbano in cui lei stessa si trova immersa, costituisce forse un antidoto all’“impersonalità, alla freddezza, alla vacuità”, che affliggono la città con “la loro geometria meccanica e tirannica”, si chiederebbe Richard Sennett? Cosa sveleranno le immagini ancora da sviluppare e le interviste registrate per strada?

 

 

New York, NY © Vivian Maier/Maloof Collection

 

Se, come scrive Abigail Solomon Godeau a proposito della recente mostra Vivian Maier.Une photographe révélée tenutasi al Jeu de Paume/Château de Tours, negli anni Trenta non è così difficile individuare una serie di fotografe che operano negli spazi pubblici (Ilse Bing, Germaine Krull, Marianne Breslauer, a Parigi), mentre negli Stati Uniti alcune di esse lavoravano addirittura per i giornali (Esther Bubley, Dorothea Lange, Marion Post Wolcott, Margaret Bourke-White, fra le altre), perché proprio il caso di Vivian Maier ha avuto una tale eco mediatica?

 

Vi è anche un’altra domanda che sorge dalla visione di questo film. Vivian Maier – ricordano le persone che l’hanno conosciuta – era solita affermare perentoria: “Non aprite mai la porta della mia camera” (che conteneva i suoi rullini e il materiale protetto gelosamente). Ma come avrebbe reagito nell’epoca dello sharing compulsivo e della conseguente ricerca di un consenso agognato a colpi di like e numero di followers?

 

Molti sostengono che non disponeva di sufficienti risorse economiche per poter sviluppare le sue immagini. E se avesse posseduto una macchina fotografica digitale e un profilo in Facebook, che aspetto avrebbe avuto la sua bacheca? Uno sterminato archivio-diario virtuale costruito allineando serie infinite di post, in sospeso tra il desiderio di mostrare il mondo esterno e l’impulso a rappresentarsi con l’inseparabile Rolleiflex? E ancora: si sarebbe decisa infine a pubblicare le sue foto su Flickr o Tumblr, pur correndo il rischio di essere sottoposta alla massima esposizione mediatica e alle incursioni voyeuristiche dei giudizi altrui?

 

Ovviamente Vivian Maier non può rispondere, ma John Maloof, una moderna versione 2.0 di Max Brod che fece pubblicare le opere dell’amico Franz Kafka, è riuscito a sfruttare con abilità lo spazio virtuale dei social network e delle communities che in essi vi operano.

 

Nel 2009 posta un messaggio sul gruppo Hardcore Street Photography di Flickr, rivolgendo agli utenti diversi quesiti in merito alle fotografie di Vivian Maier, come ricorda Caroline Benichou in un articolo pubblicato sulla rivista Réponses Photo dell’ottobre 2013 (What do I do with this stuff? Is this type of work worthy of exhibitions, a book? Or do bodies of work like this come up often?); poi si occupa di ideare un sito web e infine, con un’intuizione semplice e allo stesso tempo geniale, trasforma l’opera e la figura della fotografa in un profilo di Facebook da lui curato.

 

Per paradosso, la pulsione di Vivian Maier a rimanere invisibile dietro l’obiettivo, pur riuscendo a stabilire una istantanea relazione con il soggetto fotografato e la sua abilità nel cogliere il palpito irripetibile delle emozioni altrui – a cui per una frazione di secondo restituisce l’illusione della visibilità – sono state perpetuate, direbbe Nicolas Bourriaud, dall’“estetica relazionale” e dal potere interattivo dei social network – blog, forum, chat – che facilitano lo sviluppo di un alto livello di reciprocità, convivialità e condivisione fra tra coloro che agiscono sul web, come si legge anche nel saggio di Luca Panaro Casualità e controllo. Fotografia, video e web (Postmedia 2014).

 

Il suo essere invisibile e la “straordinaria normalità” (Vivian Maier era un’autodidatta, con una passione tutt’altro che amatoriale), prima che alla rigida struttura delle istituzioni museali, la rendono prossima a migliaia di utenti che hanno avuto accesso alle sue immagini postate su Flickr e Facebook e le hanno condivise sui loro profili, amplificando la curiosità intorno all’opera e alla storia personale della fotografa.

 

Inoltre tutto ciò non è avvenuto solo con i celebri scatti di street photography – bambini, anziani, emarginati, gente incontrata per caso – ma anche attraverso i post con le immagini dei suoi autoritratti (raccolti anche in un catalogo: Vivian Maier. Self Portraits), selfie per nulla ingenui o autocompiaciuti, elaborati come vertiginose messe in scena di sé, colmi di soluzioni formali e indici metanarrativi legati al medium fotografico: duplicazioni, giochi di riflessi, specchi, ombre, quasi degli slogan autobiografici, che suggeriscono come l’“occhio” della macchina sia inestricabilmente legato all’“io” del soggetto e insieme costituiscano un’unica entità. “I am a camera” avrebbe potuto dire Vivian Maier.

 

Autoritratto, 1961 © Vivian Maier/Maloof Collection

 

Il film e il libro non aggiungono molto; raccontano un’altra volta tutta la storia e danno alcune informazioni in più, rispetto a quelle che già si sapevano o si potevano facilmente intuire.

 

La mostra Vivian Maier. Street Photographer a cura di Anne Morin, al MAN_Museo d’Arte Provincia di Nuoro, dal 10 luglio al 13 settembre 2015 sarà la prima di Vivian Maier ospitata da un’istituzione pubblica italiana.

 


 

Veronica Vituzzi

L'intima solitudine del gesto fotografico

 

Sembra sia impossibile scindere oggi l'opera di Vivian Maier dalla sua biografia: dalla scoperta fin troppo tardiva del suo lavoro, trovato per caso dal collezionista John Maloof in occasione dell'acquisto di una scatola di negativi all'asta, l'indagine intorno a questa fotografa misteriosa, autrice in vita di migliaia di immagini, in maggior parte mai sviluppata, ha assunto i contorni di un thriller psicologico. Tralasceremo i dettagli personali, che competono più il gossip che la critica, per descrivere solamente a grandi tratti la figura che è emersa dalla ricerca di John Maloof, poi concretizzatasi in due progetti, la lenta catalogazione in fieri di tutte le sue fotografie e un documentario, Alla ricerca di Vivian Maier, uscito nelle sale italiane la scorsa primavera, edito poi in dvd dalla Feltrinelli Real Cinema.

 


Di mestiere bambinaia, costantemente ossessionata dalla propria privacy fino a cambiare di volta in volta nome e nazionalità di fronte agli sconosciuti, Maier sviluppò in totale segreto la sua passione per il mondo immortalandone infiniti ritratti dove la perfezione formale, che combacia con uno sguardo acuto verso la realtà, richiama alla memoria la straight photography di Robert Frank, Walker Evans con talvolta un sottotono grottesco proprio dello sguardo di Lisette Model e Diane Arbus. Ma come reazione a questa visione famelica verso l'esterno, la donna non accettava di subire lo sguardo degli altri addosso, quasi non potesse sopportare su di sé l'energia con cui scrutava i volti catturati per le strade; e se non fosse per la fortuita rivelazione postuma.di questi suoi lavori, come della storia della sua vita e del suo carattere, non sarebbe rimasto niente dopo la morte, avvenuta nel 2009 in totale miseria e isolamento.

 

Così bisognerà collegare l'inedita fama odierna di Vivian Maier alla creazione del personaggio che oggi è rimasto a farne le veci: affetta da paranoia, misantropa, malata mentale? Chissà, forse il modo in cui è stata mostrata al mondo potrebbe dire più della società che l'ha scoperta, e in generale della difficoltà antropologica ad accettare la riservatezza e il silenzio delle persone, tacciandoli come difetti patologici. Per non parlare poi della mancata ricerca in vita di un arricchimento professionale per fortuna prontamente compensata dagli eredi, i quali, scoperta l'esistenza di una parente geniale, non hanno esitato a iniziare ora battaglie legali fra vari presunti – e si intende, affezionatissimi - pronipoti.

 

 

Ma di un'artista che crea incessantemente, sazia solo del suo fare, e di gran lunga molto meno interessata allo sviluppo e al commercio delle sue opere, resta innanzitutto, a prescindere dalle indagini biografiche in cui la filologia si mischia pericolosamente al pettegolezzo, una dedizione all'atto della fotografia, più che al suo prodotto, incarnato dal muoversi, perdersi per le strade di Vivian, talvolta accompagnata dai recalcitranti bambini di cui si prendeva cura.

 

Un atto solitario, che esula dalla condivisione finale dell'immagine con gli altri, la cui consuetudine ha rafforzato l'idea per cui si scatta (e in generale si crea) proprio per essere fruiti dal mondo. Un'inclinazione del genere, a metà fra egocentrismo e anarchia, richiama al discorso sul diritto dell'autore di privare i possibili consumatori dei suoi elaborati, e si interroga riguardo in quale misura ogni creazione, una volta partorita, possa ritenersi indipendenza da chi l'ha generata. Il sospiro di sollievo con cui noi lettori accogliamo la notizia che Kafka fallì nel suo desiderio di vedere distrutta tutta la sua opera sembra dirci che egoismo per egoismo, una volta che volontariamente o meno ci si lascia sfuggire il prodotto del proprio ingegno esso non ci appartiene più se non di nome.

 

Se però ogni tentativo di penetrare nel mistero Vivian Maier può nei migliori dei casi portare a un ritratto sommariamente abbozzato di una donna che ha vissuto nel silenzio per scelta personale, al suo posto rimane un corpus di opere sterminato la cui disamina si protrarrà ancora anni e anni. Un utile effetto collaterale di tutta la faccenda, in un'epoca dove l'attenzione all'esposizione dell'immagine prevarica l'attimo in cui si è soli con la macchina fotografica – secondo il moderno paradigma per cui vale più l'essere visti che vedere – potrà essere allora riallacciare la genesi della sua opera a un nuovo sguardo sull'intima solitudine del gesto fotografico, nell'ipotesi che farne esperienza in tutta la sua pienezza possa poi portare a un produzione finale realmente consapevole.

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