Speciale
Vigilare / La faccia nascosta dell’epidemia
Molti sono i giornalisti e gli intellettuali che, negli ultimi tempi, si sono cimentati nel descrivere, spesso con dovizia di particolari, lo scenario che ci si presenterà dopo l’epidemia.
Queste analisi scontano necessariamente due limiti. Primo: le dimensioni di questa crisi non permettono di mantenere il distacco necessario a immaginarne ragionevolmente gli esiti. Secondo – ed è questo ciò che più rileva – tali esiti dipendono in gran parte dalla comprensione critica che, su ciò che sta accadendo, come collettività siamo in grado di costruire.
Ed è questo che dovrebbe allora occuparci e, soprattutto, preoccuparci.
La sensazione, infatti, è che l’emergenza stia legittimando una narrativa pericolosa, che reca come implicito il fatto che il solo metterla in discussione o problematizzarla rende colui che lo fa una specie di nemico della salute pubblica, che si sottrae a una tanto stucchevole quanto fittizia “unità nazionale”, alla quale saremmo tutti chiamati.
In altre parole, o uno si compra l’intera retorica di #iorestoacasa, dell’inno nazionale dai balconi, degli arcobaleni attaccati alle finestre e del quotidiano decreto del Governo (retorica sdoganata in modo più o meno nauseabondo da cantanti, presentatori e sportivi su canali social e tv) o si viene automaticamente tacciati di non aver compreso la gravità della situazione e di volersi sottrarre alle proprie responsabilità.
Ora: che questo virus rappresenti una tragedia immane e che i principi di solidarietà, prevenzione e precauzione impongano a ognuno di noi di restare in casa, di limitare gli spostamenti e di attuare le ormai note norme di distanziamento sociale, è un dato incontestabile, sul quale non si può che essere d’accordo. Si deve, tuttavia, poter dire che la narrativa attraverso cui queste necessità sono veicolate è a tratti scivolosa, pericolosa e non scevra di profonde criticità.
Le scienze sociali insegnano che le contraddizioni di una narrativa pubblica emergono illuminandone tre elementi: chi da essa resta escluso; quali conflitti politico-sociali (e quali situazioni di marginalità) essa è in grado di oscurare; quali meccanismi istituzionali sovverte.
Partiamo dal primo elemento.
Escluso dalla retorica di #iorestoacasa è, primo tra tutti, chi una casa non ce l’ha. L’idea, sdoganata dalla lotta al virus, della casa come luogo sicuro, accogliente, nel quale ripararsi e riparare gli altri dal contagio, oblitera il dato per cui l’Italia consta di un tasso di emergenza abitativa tra i più alti del mondo occidentale. Le persone senza fissa dimora sono del tutto escluse da una politica di contenimento del virus il cui presupposto principale e indefettibile risiede nella possibilità di restare nella propria abitazione e che non concepisce giuridicamente che tale possibilità, per taluni, semplicemente non esiste. Va da sé che molte persone senza fissa dimora sono state sanzionate e multate poiché si trovavano per strada senza un giustificato motivo (come se il fatto di non avere altro posto in cui andare non costituisse una ragione giuridicamente rilevante…) e che le politiche attuate dal Governo si sono tradotte nella sostanziale chiusura o nel dimensionamento della maggior parte dei servizi per i senza-tetto (mense e dormitori in primo luogo).
I secondi grandi esclusi dalla narrativa in esame sono coloro che in casa non ci possono stare poiché sottoposti a misure di restrizione della libertà personale. La situazione delle nostre carceri è, sotto questo profilo, al contempo drammatica e paradossale. Da un lato, l’ordinamento giuridico spiega tutte le sue forze per combattere ogni possibilità di assembramento. Dall’altro, esso costringe più di 60.000 persone a vivere in uno stato di assembramento permanente e, per di più, a farlo in condizioni igieniche del tutto precarie. Si deve desumere che il “diritto del contagio” concepisce carcerati e operatori penitenziari alla stregua di cittadini di serie B, non meritevoli di vedersi applicate le tutele sanitarie garantite e imposte a tutti gli altri. La situazione, come ovvio, richiederebbe l’approvazione di provvedimenti ben più radicali di quelli recentemente adottati dal Governo e dunque un coraggio politico che sembra del tutto incompatibile con la statura dell’attuale Ministro della Giustizia, tra i più inadeguati e incompetenti dell’intera storia repubblicana.
Per non parlare, a proposito di privazione della libertà personale, delle centinaia di persone attualmente recluse, in condizioni del tutto incompatibili non solo con il contenimento del virus ma pure con i più basilari requisiti della dignità umana, nei cosiddetti centri per i rimpatri (CPR), lager a cielo aperto in cui vengono relegati cittadini stranieri colpevoli del solo fatto di esser tali (ma una luce andrebbe accesa anche sulla situazione dei richiedenti asilo nei centri d’accoglienza, strutture spesso inidonee ad affrontare l’attuale emergenza; emergenza che, per costoro, risulta ulteriormente aggravata dalle numerose difficoltà di accesso al sistema sanitario).
Dalla narrativa di #iorestoacasa sono altresì esclusi tutti coloro per i quali la casa non costituisce quella tana felice degli affetti che la proiezione in salsa Covid del binomio (tipicamente italico) casa-famigliafelice tende a rappresentare. Si pensi alle donne vittime di violenza domestica, ai minori vittime di abusi familiari, a quelle persone LGBTQ+ costrette sotto lo stesso tetto con familiari transfobici, omofobi e intolleranti… ecc.
Se gli esclusi da #iorestoacasa sono facili da individuare (sul punto mi permetto ancora di rammentare il dramma che in questi giorni sta vivendo quella parte di popolazione rom e sinti che abita nei campi) più complesso è il discorso sugli elementi sociali che la retorica in esame tende a sommergere. Tale maggiore complessità deriva, soprattutto, dal fatto che, per porli in luce, occorre indagare quegli ulteriori discorsi che a #iorestoacasa accedono in modo collaterale (ma che da esso sono al contempo prodotti).
Proviamo a fare alcuni esempi.
Una delle conseguenze del coronavirus è stata, come noto, la sospensione delle lezioni nelle scuole e nelle università e la loro sostituzione con forme di didattica online a distanza. Il discorso pubblico ha sostanzialmente asseverato tutto ciò e osservato il fenomeno soprattutto dalla prospettiva di chi, la didattica online, la eroga. Si sono così susseguiti elogi a insegnanti costretti ad apprendere tecnologie innovative in pochi giorni, sberleffi nei confronti di anziani baroni universitari obbligati a cimentarsi con nuove piattaforme informatiche, il tutto condito da un atteggiamento di sostanziale entusiasmo nei confronti dei nuovi metodi dell’insegnamento via web. In altre parole, per scuola e università il discorso sul coronavirus si è ridotto all’esaltazione delle nuove tecnologie e all’idea per cui l’epidemia ha fatto emergere un altro modo di fare didattica, le cui virtù potranno tornare utili anche quando l’emergenza sarà finita. Ora, se è vero che gli strumenti informatici stanno senz’altro aiutando a non sospendere del tutto le attività formative di scuole e università, è piuttosto ovvio che il loro impatto vada valutato non tanto (o comunque non solo) dalla prospettiva degli insegnanti ma, soprattutto, da quella degli studenti. Chiunque, come me, si sia trovato in questi giorni a erogare didattica a distanza in uno dei nostri atenei (ma il discorso vale, forse ancor di più, per la scuola dell’obbligo) può testimoniare come la più grande difficoltà non stia nell’utilizzo delle piattaforme, ma nel fatto che tantissimi studenti non hanno i mezzi per potervi accedere. Molte famiglie, semplicemente, non dispongono degli strumenti economici per attrezzare ciascuno dei propri figli con un pc.
Non tutte le case sono dotate di una connessione internet sufficientemente potente (e spesso di una connessione internet tout-court). Spesso, inoltre, in una casa c’è un solo computer e più ragazzi in età formativa, con la conseguenza che occorre scegliere chi, quel giorno, potrà seguire le lezioni. Il discorso sull’uso delle nuove tecnologie nella scuola, in altre parole, non può prescindere dalla banale osservazione per cui sospendere la didattica in presenza vuol dire in primo luogo riallocare una buona parte dei costi di infrastruttura dal sistema pubblico alle famiglie.
Un’altra sub-retorica di #iorestoacasa è quella della guerra (che è stata interpretata nella sua forma eminente da Macron!). Questa retorica, che si declina nell’uso di espressioni quali “il fronte del virus”, “la trincea”, “i caduti”, “la battaglia” ecc., oltre a emanare un lezzo vagamente reazionario, è pericolosissima, perché reca con sé un notevole potenziale di disciplinamento e censura.
Se il personale sanitario è in guerra, allora lo status dei nostri medici e infermieri non è più quello del lavoratore, ma quello del soldato.
Il lavoratore costretto a prestare il proprio servizio in condizioni inadeguate può protestare, può denunciare, può criticare. Queste prerogative sono precluse al soldato. Il soldato in guerra opera per definizione in condizioni precarie, pericolose e all’interno di una struttura gerarchica che richiede obbedienza. Nella narrativa del soldato non c’è la protesta, se non nell’accezione assolutamente negativa della diserzione. Il soldato compie il suo percorso narrativo affrontando ogni condizione pur di adempiere al suo dovere, poiché deve divenire eroe (altro termine, non a caso, ultimamente assai abusato).
Nell’immaginario descritto, le condizioni precarie nelle quali i nostri operatori sanitari sono costretti a lavorare (spesso privi di protezioni idonee) e la totale inadeguatezza delle nostre strutture sanitarie, non possono allora suscitare alcun discorso critico. Esse hanno il solo scopo di apparecchiare il contorno narrativo del medico-eroe, niente più.
Non stupisce, allora, che il dibattito sul coronavirus abbia del tutto marginalizzato aspetti che sono invece centrali in questa emergenza: i pesanti tagli alla sanità pubblica operati negli ultimi anni e la criminale politica di privatizzazione del servizio sanitario nazionale attuata dalla maggior parte delle regioni, anche del nord, Lombardia in primo luogo.
Ma non solo. La retorica della guerra, è fin banale ricordarlo, ha quale effetto primario quello di compattare una comunità contro un nemico esterno. Questo nemico è stato individuato nel virus. Il sottotitolo che solitamente accompagna l’hashtag #iorestoacasa è, non a caso, “uniti contro il virus”, slogan che proietta sul piano collettivo ciò che #iorestoacasa mantiene nella dimensione individuale. Se ci fermiamo un attimo a riflettere, prendersela con una microscopica pallina proteica contenente un filamento di RNA (come fosse l’esercito di un paese straniero) è non solo ridicolo, ma anche assai fuorviante, perché produce un’insostenibile reticenza pubblica sull’effettiva portata del problema. Come la virologa Ilaria Capua sta provando a spiegare ormai da settimane, il vero responsabile di questa situazione non è il virus, ma l’uomo: “l’unica cosa che dovrebbe risultare chiarissima (in un contesto – quello del Covid19 – in cui molte domande sono ancora orfane di risposte ndr.) è che la responsabilità di quanto sta accadendo è interamente ascrivibile all’uomo.
Siamo noi ad aver alterato il sistema, invadendo spazi di altre specie animali e portando queste specie all’interno dei nostri, per lo più in megalopoli densamente abitate e in condizioni di scarsa igiene, forti diseguaglianze e povertà. Fatto ciò, abbiamo preso dei bei siringoni bianchi (aerei ndr.), ci abbiamo caricato sopra migliaia di persone e abbiamo consentito che il virus si spargesse rapidamente ovunque. Senza l’intervento umano il virus sarebbe rimasto dentro al pipistrello: è colpa nostra se è poi finito dentro al pangolino e se dal pangolino ha quindi infettato l’uomo. Abbiamo costretto il virus a infettare centinaia di migliaia di persone, cosa che non era in alcun modo programmato per fare, e certamente non in un lasso di tempo così ristretto. La cosa che dobbiamo capire è che, attraverso la tecnologia, abbiamo raggiunto una velocità – ed è questo il vero punto della questione – che non è in alcun modo compatibile con l’ecosistema che la ospita. La biologia ha i suoi tempi: non segue i tempi della borsa e nemmeno la velocità degli aerei”.
Se a ciò aggiungiamo che molti dati iniziano a individuare una correlazione tra inquinamento ed epidemia (correlation is not causation, lo si sa, ma l’ipotesi è inquietante, oltre che razionale), appare evidente come la retorica della guerra contro il virus non sia solo concettualmente sbagliata, ma sortisca quale unico effetto quello di traslare su un impalpabile nemico esterno elementi che dovrebbero invece condurre a una profonda riflessione sui nostri stili di vita e sul loro potenziale (auto)distruttivo.
Ultimo esempio paradigmatico di “offuscamento” che la narrativa corrente sta producendo (ma se ne possono trovare altri) è efficacemente incarnato dall’ormai noto dibattito sul jogger/passeggiatore e, più in generale, dall’odio sociale indirizzato contro chiunque si permetta di uscire di casa, anche solo per fare il giro dell’isolato, da solo, nel rispetto di ogni distanza e misura di sicurezza. Sul punto molto si è detto e scritto, e non è il caso di dilungarsi. È abbastanza chiaro come la questione rientri nel ben noto schema di costruzione sociale di un capro espiatorio tutto sommato innocuo, contro cui scagliare le frustrazioni collettive. Si tratta di una modalità piuttosto infame (e anche vecchiotta… ma a quanto pare sempre efficace) che consente all’ego di molti di essere gratificato, alla rabbia collettiva di essere incanalata e di generare conflitto verso il basso e obbedienza verso l’alto. Mi permetto solo di segnalare come il clima di sospetto e denuncia reciproca che si respira in questi giorni strida con la narrativa solidaristica e un po’ sdolcinata che passano i media, e come esso stia degenerando in atteggiamenti arbitrari e assolutamente intollerabili da parte delle forze dell’ordine (su quest’ultimo punto consiglio di leggere questo articolo di Pietro De Vivo).
Ciò detto, è abbastanza incredibile notare come nei giorni in cui ci si scagliava contro gli untori passeggiatori, ai quali veniva attribuita ogni responsabilità del costante aumento dei contagi, più della metà della popolazione italiana era costretta (ma in gran parte lo è ancora) a spostarsi quotidianamente per andare a lavorare in fabbriche e altri centri di produzione, spesso senza protezioni adeguate, e ciò anche e soprattutto nelle zone più colpite dall’epidemia.
Non voglio qui banalizzare un problema estremamente complesso. È evidente che bloccare la produzione di tutti i beni non essenziali costituisca una scelta complicatissima, che implica ponderazioni assai difficili e conseguenze economiche enormi. Ma, proprio per questo, lascia piuttosto attoniti notare come la collettività, in luogo di partecipare a un dibattito pubblico sul tema, nel quale discutere su come contemperare i vari interessi in gioco, sia stata chiamata – per giorni – a scagliarsi contro il jogger untore (le immagini dei vari sindaci che girano come sceriffi nelle proprie città o di governatori che minacciano lanciafiamme durante dirette facebook assumono, da questa prospettiva, un sapore un po’ meno ilare e un po’ più grottesco). Il risultato è che i termini della discussione intorno a una tra le più rilevanti scelte di politica economica assunte dal dopo guerra a oggi restano sconosciuti ai più, poiché si sono sviluppati all’interno di tavoli tecnici non pubblici, e che tale scelta (nelle ultime ore soggetta ad aggiustamenti) è stata adottata attraverso un atto (il noto d.p.c.m) formalmente concepito più per contenere clausole secondarie sulla riorganizzazione di un qualche ufficio governativo che per determinare le sorti economiche dell’intero Paese.
Per inciso, e a proposito di beni essenziali, vorrei ricordare a tutti noi che mentre perdiamo tempo a spiare il nostro vicino ammonendolo per la quarta pipì fatta fare al cane, in Italia la filiera dell’agroalimentare, la più necessaria di tutte, si apre con centinaia di persone ammassate su furgoni (persone che, la sera, vengono riportate, sempre ammassate, in baraccopoli senza acqua corrente) e si conclude con le consegne dei rider delle compagnie di food delivery, le cui condizioni di lavoro, indegne e del tutto incompatibili con i principi base di prevenzione del contagio, sono tristemente note.
Non esattamente in linea con il #flattenthecurve…
(Sulle condizioni dei lavoratori agricoli ai tempi del Covid-19 suggerisco di leggere questa intervista rilasciata a open.it da Aboubakar Soumaoro).
Veniamo, ora, all’ultimo punto: quali meccanismi istituzionali questa crisi sta sovvertendo?
Sui dubbi circa la costituzionalità delle procedure formali attraverso cui il Governo sta affrontando l’emergenza molto si è detto, e non è mia intenzione dilungarmi in complesse analisi giuridiche (che pure sarebbero necessarie) né, tantomeno, sciorinare l’intero repertorio sullo “stato d’eccezione” (perché, diciamocelo, anche le contro-narrative, quando abusate, rischiano di diventare stucchevoli).
Tuttavia, adottare provvedimenti fortemente limitativi dei diritti delle persone attraverso atti regolamentari (i famosi d.p.c.m.) è cosa giuridicamente e politicamente inaccettabile. E questo non perché il contenuto di questi atti sia inaccettabile di per sé, ma poiché tale valutazione, in una democrazia, è rimessa a precisi meccanismi di controllo politico e di legittimità, dai quali i d.p.c.m sfuggono del tutto, dal momento che non sono sottoposti all’esame né del Parlamento né a quello (eventuale) della Corte Costituzionale (mi sia consentito rilevare come l’argomento, sollevato da alcuni colleghi, per cui questi atti sarebbero legittimi poiché fondati su un precedente decreto-legge sia a tal punto formalistico da apparire quantomeno ingenuo).
In altre parole, e per farla breve, proprio poiché il momento è eccezionale ed eccezionali sono le misure che occorre prendere, i meccanismi di controllo politico e di legittimità sull’operato dell’esecutivo dovrebbero essere rispettati con ancora maggior rigore di quanto avviene durante i periodi ordinari. L’eccezionalità, in altre parole, può giustificare la deroga (proporzionata e temporanea) ad alcuni diritti fondamentali (ad esempio la libertà di spostamento o di riunione), ma non può mai legittimare la deroga ai meccanismi di controllo democratico sull’operato dei poteri pubblici. Questo vale in particolar modo in un momento come questo, ove l’unica forma di controllo sull’operato del Governo non può che essere esercitata attraverso meccanismi istituzionali, dato che l’altro grande circuito di controllo politico, quello diffuso dell’opinione pubblica, è di fatto sospeso, posta la chiusura dei luoghi ove il pensiero critico viene collettivamente prodotto (scuole, università, circoli ricreativi, culturali e politici ecc.) e agito (il divieto di assembramento implica, come ovvio, anche quello di manifestare, organizzare sit-in, eventi, comizi, ecc.).
Stupisce allora come il Parlamento, invece di essere chiamato a una sorta di seduta permanente (eventualmente attraverso modalità di discussione a distanza), abbia invece sostanzialmente sospeso le proprie attività.
Sollevare la questione sarebbe compito delle opposizioni. Sì, lo so, la cosa fa già sufficientemente ridere così, non c’è bisogno di andare oltre…
I risultati di questi vuoti stanno arrivando in fretta, e si declinano soprattutto nell’uso dell’emergenza per legittimare il ricorso alle nuove tecnologie e ai big data per esercitare un controllo sociale capillare e autoritario, secondo le modalità più perverse e ignobili di quel “capitalismo della sorveglianza” recentemente descritto da Shoshana Zuboff. Si tratta di modalità (si veda, a tal proposito, la questione dell’uso dei droni per controllare chi esce di casa, o delle app per segnalare le persone contagiate) che, già inaccettabili in questo momento, sarebbe bene evitare di portarsi dietro anche quando tutto ciò sarà finito.
#iorestoacasa, dunque, perché è giusto così. Ma resto anche vigile, perché vorrei evitare che, a forza di prendercela col vicino di casa, di non vedere i più deboli, di non difendere i lavoratori e di fregarcene dei più basilari principi democratici, finita la crisi sanitaria ci si svegli all’interno di una specie di puntata di black mirror, e neppure tra le più godibili. Una puntata, diciamo, della quarta serie: di quelle che non ci è neanche piaciuto tanto vedere, ma che lasciano comunque in bocca un persistente retrogusto di ansia e paura.