Una mostra a Vienna / Bordi sfocati, crampi mentali: Wittgenstein e la fotografia
Dissimularlo è inutile: quando mi avvicino alla fotografia avverto uno strano fastidio, una resistenza diversa, opposta rispetto a quella che sento montare quando mi dedico alla finzione narrativa. Quest’ultima la riconosco al volo, ho imparato a tollerarla: riguarda la ridondanza, la necessità di ricoprire le cose – i fatti, le tracce documentali, la Storia – con la glassa dell’invenzione, alterandone la verità, cioè la finitezza. La prima mi è invece meno familiare, la evito come posso, se si affaccia mi volto di lato, come se non esistesse: è legata alla trasparenza, all’illusione di afferrare, con un gesto, le cose stesse, al succo, di catturare con uno scatto il cuore dell’immediatezza. L’una mi punge per difetto e l’altra per eccesso, così sembra. Nel mio immaginario – è lì infatti che civettano le resistenze – la prima si associa all’industria della moda, la seconda alla pasticceria.
Allo stesso tempo, è inutile tacerlo, chi si affida alla cieca al ritmo dei propri fastidi corre il rischio di finire, alla lettera, tra le braccia del senso comune – un abbraccio caldo e soffocante. È una lotta, dunque, per tenere lo sguardo vigile, un conflitto aperto, perché proprio tra questi due estremi, tra una civetta e l’altra – non al centro ma ai margini –, qualcos’altro si lascia intravedere: non è un oggetto ma una specifica configurazione dello spazio, un bordo sfocato, una figura che permette, a chi vi posa lo sguardo, di percepire in modo più acuto le differenze e le somiglianze. Ludwig Wittgenstein ha chiamato il lavorio per mettere a fuoco questa figura – il suo costeggiare fastidi, sorprese e civette, il suo sfidare l’ovvio a mostrarsi nudo, cioè vuoto e pieno allo stesso tempo – crampo mentale.
La mostra “Ludwig Wittgenstein. Photographie als Analytische Praxis” (“La fotografia come pratica analitica”, Leopold Museum, Vienna, 12.11.21-27.03.22) è un’occasione propizia, mi dico, per esercitare l’attenzione dello sguardo – oltre a essere, di questi tempi, una scusa per ricordarsi di uscire di casa e prendere aria, per spezzare una routine ossessiva che, dopo due anni di pandemia, nei periodi di restrizioni più severe e di percezione del rischio più acuta, è divenuta automatismo. È la stessa lotta, anche qui, a volte ridicola e microscopica, altre volte traumatica, per sfuggire alle braccia aperte delle resistenze e del senso comune.
Il Leopold Museum, la cui sagoma mi ricorda, per eccesso o per difetto, il Palazzo delle Poste nel centro storico di Napoli, è situato in una struttura imponente, il MuseumsQuartier, che raccoglie al suo interno varie istituzioni museali insieme a bar, ristoranti e librerie. Il complesso dispone di tre corti interne e una rete di gallerie tra un edificio e l’altro. La corte centrale, la più ampia, ospita, tra novembre e dicembre, uno dei mercatini di natale più frequentati di Vienna. A differenza di molti dei luoghi monumentali della città, la traccia del passato imperiale nel MuseumsQuartier è in secondo piano, sfumata, riarticolata – questo particolare alleggerisce il mio passaggio.
È il 15 gennaio del 2022, il cielo è terso, il MuseumsQuartier quasi deserto. Scopro, con qualche stupore, che Ludwig Wittgenstein ha scattato, commissionato e collezionato centinaia di ritratti. Mi avvicino alla teca in cui è custodito un taccuino, al cui interno il filosofo viennese ha metodicamente disposto e incollato gli scatti, mi ricorda un quaderno a cui sono affezionato, la copertina rigida nera e il bordo rosso – mi colpisce l’insieme dei pannelli che circondano la teca, la quantità di testo, voglio dire, che circoscrive l’esposizione dell’oggetto allo sguardo degli astanti. Ricordo di colpo, senza accorgermi del salto temporale, le parole di un professore di Storia dell’Arte, a Bruxelles, circa la necessità, per i dipinti esposti ai Salons, di essere accompagnati da pannelli che ne specifichino il titolo, per differenziarli e distinguerli; siamo a Parigi, nei primi anni del XIX secolo – prima non erano in uso: né i titoli, né i pannelli. Mi chiedo cosa penserebbe Wittgenstein in persona, al mio fianco, della pratica di avvicinare un oggetto allo sguardo dell’osservatore, di renderne manifeste le proprietà attraverso la sua descrizione. Mi pare che proprio in questo punto, per analogia, risiedano l’interesse e la curiosità di Wittgenstein per la fotografia: nell’illusione di vicinanza e trasparenza del segno rispetto all’oggetto rappresentato.
Qual è il luogo, se ce n’è uno, del significato di un segno, nello specifico di un enunciato linguistico? Questa domanda, che riguarda la messa in discussione della relazione fondamentale tra gli oggetti e i segni che li rappresentano, guida le ricerche del filosofo viennese come un’ossessione. In effetti, come nota Aldo Gargani nell’introduzione a Libro blu e Libro marrone, la tradizione logico-filosofica a partire dalla quale Wittgenstein prende la parola, fortemente radicata nella storia del pensiero occidentale, ritiene che “significati e concetti consistono di immagini, rappresentazioni mentali” (Einaudi, 2000, p. XXXV, trad. Amedeo G. Conte).
Una domanda simile costringe chi tenta di rispondere a fare i conti precisamente con l’illusione di trasparenza, con le braccia aperte dell’ovvio: si tratta di non voltare lo sguardo, di affondarci dentro senza riserve. Allo stesso tempo, accogliere l’ovvio vuol dire tematizzarlo, cioè denunciarlo come tale. L’operazione è delicata e sfuggente, ricca di fastidi: è un crampo mentale. Tuttavia bisogna farsene carico, e la risposta di Wittgenstein è radicale: il significato di una proposizione è nell’uso, non altrove.
“Comprendere un enunciato significa afferrare il suo contenuto; e il contenuto di un enunciato è nell’enunciato” (Libro blu e Libro marrone, p. 213).
Il filosofo americano Hilary Putnam utilizza un’immagine vivida per descrivere l’effetto che la tesi di Wittgenstein produce sulla tradizione psicologistica, secondo cui i significati e i contenuti dei segni linguistici risiedono nell’a parte delle rappresentazioni mentali: non si limita a confutarla, indica Putnam, ma ne erode le fondamenta – si tratta, senza mezzi termini, di un “demolition job” (“Language and Philosophy” in Philosophical Papers, vol. II, Cambridge University Press, 1975, p. 13). L’intensità, l’aggressività dell’operazione segnala che siamo finiti, di nuovo, nel novero della lotta al senso comune e agli automatismi, nel dominio delle resistenze: in gioco non c’è solo lo statuto dei segni ma anche quello degli oggetti, dei fatti che i segni intendono o pretendono rappresentare. Cosa cerca dunque Wittgenstein nella fotografia?
Mi aggiro tra le sale del seminterrato del Leopold Museum in preda alla fretta di venire al dunque. L’allestimento della mostra accompagna, in modo sistematico, materiali che riguardano la relazione di Wittgenstein con la fotografia, esposti per lo più in grandi teche a centro sala, ai progetti di fotografi e artisti contemporanei di varie latitudini, affissi alle pareti, in posizione laterale. Mi colpisce, nella teca che raccoglie le foto della baita di Skjolden, in Norvegia, buen retiro del filosofo viennese, l’assenza di indicazioni circa l’identità dell’autore degli scatti. Ritorno sui miei passi: i ritratti (di familiari, di amici, del personale domestico e di avventori), gli scatti di viaggio, le foto della casa della sorella, ai cui lavori di costruzione Wittgenstein fece da supervisore – manca quasi sempre l’attribuzione.
Molte delle foto, informa uno dei pannelli, sono in effetti difficilmente attribuibili: sono qui, esposte, non perché Wittgenstein le abbia scattate (lo ha fatto per certo, in alcuni casi), ma poiché le ha conservate e collezionate. Questo non vuol dire che l’autore della foto è irrilevante – significa, al contrario, che l’attenzione di Wittgenstein si concentra su un aspetto diverso, secondario, del processo: il montaggio, la manipolazione, la disposizione e l’allestimento del materiale fotografico. Questo dettaglio intorno alla posizione dell’autore – questo porre, tacendolo, il problema dell’autorialità –, nell’economia delle mie resistenze, mi parla della glassa ridondante nella finzione narrativa. Mi dice che la traccia documentale primaria di cui è fatto un testo letterario è precisamente la finitezza di chi lo ha scritto – che questa finitezza non è, come vorrebbe la tradizione psicologistica, un criterio per interpretare, dall’esterno, le ragioni di un testo narrativo; al contrario, si tratta prima di tutto di un elemento che informa, dall’interno, l’invenzione letteraria, cioè di materiale per la formazione dell’intreccio. Ma torniamo al dunque.
Nella Conferenza sull’etica del 1929 Wittgenstein menziona per la prima volta i ritratti compositi: si tratta di una tecnica sviluppata dall’antropologo Francis Galton nella seconda metà del XIX secolo, a cui Sigmund Freud fa riferimento in L’interpretazione dei sogni. Il procedimento consiste nella sovrapposizione, in un unico scatto, di due o più fotografie di persone differenti: i ritratti sono proiettati sulla stessa lastra di vetro in negativo; le sezioni congruenti dei diversi volti finiscono in primo piano, ben delineate, mentre quelle divergenti risultano sfocate, in secondo piano. Questa tecnica serve, per Galton, a evidenziare le somiglianze, a individuare i tipi (nel caso di Cesare Lombroso, ad esempio, sostenitore del metodo galtoniano, i tipi criminali), cioè a far emergere il generale a discapito del particolare; Wittgenstein invece si concentra sull’opposto: i bordi sfocati.
Così, per analogia, si passa dall’immagine al concetto – proprio da qui, a partire dal rilievo dei contorni in secondo piano come strumento per assottigliare la percezione delle differenze e sfumare quella delle somiglianze, Wittgenstein introduce un concetto decisivo, i giochi di linguaggio, che a partire dal Libro blu (1933-34) contribuisce a riarticolare le sue ricerche. Dal punto di vista normativo emerge il lavoro, in continua ridefinizione, intorno alle regole e alle costanti che reggono tali giochi; sul piano epistemologico, il segno linguistico perde la capacità di rendere manifeste le proprietà di un oggetto in maniera completa, ostensiva – la definizione lascia il passo alle reti di sinonimi, alle “somiglianze di famiglia”, costituite da elementi vicini all’oggetto che indicano e allo stesso tempo decentrati, irriducibilmente distanti. Così, la ricerca di Wittgenstein si indirizza verso una posizione di radicale immanenza: il significato di un segno, di un enunciato, è nell’enunciato stesso, mentre lo si enuncia.
Ma un concetto sfocato, si chiede Wittgenstein, è ancora un concetto? Sì e no: in questa risposta aperta, non definitiva per statuto, nel suo spazio ambiguo, si installano i giochi linguistici, la sfida alle braccia tese dell’ovvio, il demolition job – cioè le ragioni, gli strumenti e gli effetti della ricerca.
Mi trovo nell’ultima sala, ho fatto il giro intero della cosa, voglio andare via – è la spinta del tempo di concludere. Il mio sguardo si posa su un ultimo scatto, un ritratto affisso alla parete, richiesto dallo stesso Wittgenstein all’amico Ben Richards, in punto di morte, “Wittgenstein on his deathbed” (1951); mi dico, assecondando l’anticipazione, che devo assolutamente cominciare questo testo con le mie resistenze per la fotografia come disciplina – se è così, e sarà così, non posso evitare di affrontare, allo stesso tempo, i miei fastidi per il racconto, per i mezzi della finzione narrativa che mi permetteranno di scriverlo. Prova a tematizzare le civette dell’ovvio, mi dico, mettile a nudo, forse proprio questo lavorio dello sguardo, questo crampo mentale, lascerà emergere ciò che ha senso provare a mettere per iscritto.
Ludwig Wittgenstein. Photographie als Analytische Praxis (“La fotografia come pratica analitica”, presso il Leopold Museum, Vienna, 12.11.21-27.03.22).