The Witcher 3. Hic sunt dracones

24 Giugno 2015

Un libro del 2010, La mappa perduta di Toby Lester, rievoca la storia della prima carta geografica in cui compare il nome “America”. La mappa, stampata nel 1507 presso il monastero di Saint-Dié-des-Vosges in Lorena, è opera dei cartografi tedeschi Martin Waldseemüller e Matthias Ringmann ed è considerata il primo atlante dell’era moderna in cui è indicata la presenza di un continente inesplorato al di là dell’Atlantico. Approfittando del resoconto sulla caccia al reperto, ora conservato nella Biblioteca del Congresso a Washington, l’autore abbozza un’accorata storia della cartografia dall’antichità ai tempi moderni, da cui risulta evidente la correlazione tra l’ampliamento della conoscenza geografica e la fioritura di una letteratura esplorativa che prosperava per la ricchezza apparentemente infinita di materiali da cui attingere: le agiografie fantasiose e allegoriche di santi cristiani, i diari dei missionari che si spingevano in Estremo Oriente e le descrizioni succinte di mercanti esploratori, come ne La navigazione di San Brandano e il Milione di Marco Polo.

 

Come insegna Cristoforo Colombo - che varcò l’oceano promettendo l’Eldorado ai Reali di Spagna purché gli finanziassero la spedizione – la storia della cartografia e dell’esplorazione è associata in modo indissolubile a fini strategici, siano essi militari o pecuniari. Molti celebri cartografi facevano parte dell’esercito, come George Wheeler che dal 1872 al 1879 esplorò e stilò la mappa di una vasta porzione del territorio americano a ovest del centesimo meridiano; oppure, in ambito di navigazione, le fondamentali spedizioni dei portoghesi lungo la costa africana a sud dell’Equatore miravano ad ampliare il fiorente commercio di schiavi di Alfonso V e poi di Giovanni II.

 

Sarebbe banale dire che adesso, con Google Maps, grazie ai satelliti dalla nostra scrivania possiamo vedere cosa succede in una strada di Johannesburg o fare il giro del mondo in ottanta secondi, eppure è così. Se è per questo, ora è costume usare come sfondo per il computer paesaggi da sogno in posti dove non andremo mai, ma non ci impressiona nemmeno un tramonto marziano scattato in alta definizione dal Rover della Nasa sulla superficie del pianeta rosso, disponibile a tutti sul sito dell’agenzia spaziale americana. Vedere qualcosa la fa sentire più vicina, a portata di mano anche se distante anni luce, e detto così sembra che la scintilla conoscitiva sia stata soppressa dall’immediatezza dello scambio di informazioni a cui siamo abituati oggi.

 

Tuttavia, basta cambiare quartiere della propria città o mettere piede per la prima volta in un posto sconosciuto per innescare l’indole umana che spinge alla ricognizione dell’ignoto; persino nei dettagli più sciocchi come la scoperta di una panetteria speciale o di un bar dove ci si trova a proprio agio a fare colazione, o nella sensazione che si prova a familiarizzare con un nuovo ambiente e nuove facce, è possibile ritrovare una briciola di ciò che dovette provare Neal Armstrong sbarcando sulla Luna nel 1969.

 

Da sempre, la mappatura del mondo trova un parallelo nella fertilità creativa che ne accompagna i progressi, sebbene la mestizia umanistica del nostro presente ricordi sempre a tutti di non esagerare con la fantasia. Come purtroppo recitava lo slogan di uno spot televisivo, le grandi domande della vita ormai non sono più se ci sia vita nel cosmo, ma quanto spendiamo in commissioni con la nostra carta di credito.

 

Eppure l’indole umana è quella di non fermarsi a girovagare su una mappa già percorsa e nota. Esplorare significa compiere un’indagine con un obiettivo preciso, è una pratica attiva che amplia la conoscenza, ma significa anche determinare la propria posizione, capire dove ci si trova e l’eventuale distanza fino a un traguardo. In senso romantico, l’esplorazione è associata a viaggi avventurosi e incontri pericolosi con creature e popolazioni pittoresche o mostruose, una caratteristica che si ritrova nei poemi epico-allegorici medioevali con i loro bestiari fantastici. La famosa espressione hic sunt leones o dracones, usata dagli antichi e nel Medioevo per indicare i territori inesplorati, suggeriva sinistre conseguenze per chiunque vi mettesse piede.

 

The Witcher 3

 

Nel calderone dei generi d’evasione, non solo in letteratura, cinema e televisione, ma in particolare per quanto riguarda i videogiochi, il fantasy è quello che meglio fonde in sé l’antichità magica dei classici, la vena sentimentale dei poemi cavallereschi e la mistica misteriosa dei racconti d’avventura ed esplorazione. Fin dalle prime avventure testuali come la trilogia di Zork del 1980, ambientata in un gigantesco labirinto sotterraneo da perlustrare, il genere fantasy prevede l’esplorazione di un mondo vasto, con incontri lungo la strada che aprono nuovi scenari e snodi narrativi per arricchire la trama principale di dettagli sul mondo di gioco. I videogiochi di ruolo sono l’evoluzione dei libri-gioco, e offrono la possibilità di prendere decisioni contestuali che comportano conseguenze sullo svolgimento della trama: a seconda di come si affronta una situazione, alcuni personaggi e scenari possono cambiare radicalmente o essere del tutto assenti, così come il protagonista della storia acquista esperienza e “cresce” mentre procede verso la conclusione della vicenda.

 

I titoli “open world” fanno dell’esplorazione la colonna portante del loro impianto narrativo, e lasciare libertà d’azione quasi totale al giocatore è ormai diventata una prassi all’interno del genere: la struttura non lineare con cui è permesso di avanzare nella trama permette al giocatore di esplorare il mondo di gioco creato apposta per lui. È indubbio, considerato il successo e la popolarità di questo genere, che lo stimolo all’esplorazione inneschi un istinto quasi animale in milioni di utenti: l’unico limite alla loro libertà è non uscire dai confini della macro storia composta dall’intreccio, e dai muri invisibili che contengono il mondo di gioco.

 

The Witcher 3

 

La storia, oltre che per immagini, è implementata da una mole di testi complementari: il giocatore legge tonnellate di informazioni sull’universo in cui ha mosso i primi passi, attraverso la consultazione di libri raccolti nel mondo di gioco, lettere o frammenti di comunicazioni. Nella serie Assassin’s Creed, i documenti raccolti forniscono succinte ma precise informazioni storiche e artistiche sui luoghi celebri in cui sono ambientati i giochi: Firenze e il Rinascimento, Istanbul e l’Impero Ottomano, la Rivoluzione Americana e quella Francese fino alla Repubblica dei Pirati. Il recente The Witcher 3 – Wild Hunt, sviluppato dallo studio polacco CD Projekt RED, è un titolo che fonde in sé una notevole qualità narrativa al fascino irresistibile della scoperta e dell’esplorazione. A differenza di molti titoli del genere, che permettono al giocatore di creare il proprio avatar con appositi editor per volti e fisionomia, in The Witcher 3 controlliamo un personaggio ben caratterizzato e con una sua ricca storia personale: Geralt di Rivia, noto anche come il Macellaio di Blaviken.

 

The Witcher 3

 

La serie di videogiochi The Witcher (il primo episodio uscì nel 2007) è tratta dai romanzi e racconti dello scrittore Andrzej Sapkowski - pubblicati in Italia da Edizioni Nord - anch’egli polacco, apparsi all’inizio degli anni Novanta. Il mondo fantasy di Sapkowski ha qualche coincidenza con quello creato da George R.R. Martin nella sua saga Le cronache del ghiaccio e del fuoco, pubblicata circa negli stessi anni delle storie di Geralt, e sviluppata con grande successo per la televisione da HBO con Il trono di spade. Geralt di Rivia si muove in un Medioevo cruento e promiscuo, in cui dominano intrighi di corte e i veri mostri sono i potenti sempre spinti da ambizioni di conquista ed espansione oppure dal rancore personale. In questo genere di fantasy, gli elfi non sono dipinti con l’efebica grazia rinascimentale dei film di Peter Jackson tratti da Il Signore degli anelli, ma sono più simili agli indiani americani ormai corrotti dal contatto con l’Uomo Bianco: quasi estinti, relegati in ghetti cittadini o riuniti in bande di fuorilegge. La mitologia stessa del Continente, com’è chiamato il territorio gigantesco in cui si snoda la vicenda, risale a tempi così antichi che esplorando a cavallo la mappa ci si imbatte in ruderi e rovine da patrimonio UNESCO.

 

Geralt di Rivia è uno “strigo”, una sorta di mutante che si guadagna da vivere uccidendo mostri su commissione, ricevendo incarichi sia da contadini quasi senza quattrini o da amministratori locali e nobili. In questo capitolo finale delle sue avventure, il Lupo Bianco - altro nomignolo di Geralt - ricorda un po’ Clint Eastwood/William Munny ne Gli spietati; con il corpo e lo spirito segnati da anni di battaglie contro uomini e mostri, spesso senza capire quale differenza ci fosse tra gli uni e gli altri, Geralt riceve un’ultima missione: ritrovare Ciri, la figlia dell’imperatore e per lui stesso una specie di figlioccia, dal momento che si è occupato del suo addestramento fin da giovanissima, e da cui è legato da un sentimento molto intenso. Così Geralt si mette alla ricerca della pupilla ormai cresciuta, che il giocatore può controllare durante alcune sezioni, nei flashback mentre Geralt ricostruisce il suo percorso completando le missioni di gioco. L’estensione e la libertà immense offerte al giocatore possono intimidire: attraversare le macro aree che compongono il Continente, in sella al fido Roach e in barca, oppure a piedi, è una vera e propria esplorazione – la superficie di tutte le zone visitabili risulta poco meno di centoquaranta chilometri quadrati. La resa grafica è eccellente, con tinte calde quasi western per trasmettere un tono selvaggio e un’atmosfera fiamminga nei paesaggi e nelle architetture rurali (c’è un sacco di campagna).

 

The Witcher 3

 

Gli snodi narrativi che bisogna completare per terminare le missioni, gli obiettivi di gioco, pescano dalla mitologia classica (la missione “L’oro degli sciocchi” deve tutto a Circe: un intero villaggio di contadini avidi si trasforma in maiali per una maledizione legata a un tesoro scoperto per caso) fino all’allegoria di squallide tragedie quotidiane che potremmo leggere sul giornale. È il caso della parte dell’intreccio in cui Geralt si propone di ritrovare la moglie e la figlia di un barone, scomparse e forse uccise da un mostro. Il barone sembra ricalcato su Don Rodrigo: asserragliato con la sua corte di bravi nella rocca che sovrasta un villaggio di contadini grotteschi. In realtà il barone è sedicente tale, si tratta di un vecchio e violento bandito che si è impossessato del titolo dopo avere conquistato la rocca dove dimora. Potente e temuto, era noto che picchiasse la moglie, vera ragione per cui la donna era fuggita da lui, poi seguita dalla figlia.
 

The Witcher 3, Ciri, La figlia dell'Imperatore Ehmyr che Geralt deve ritrovare

 

Il mostro che deve affrontare Geralt, come si scopre, è un “botchling”: un feto abortito ritornato in forma mostruosa dalla morte, ma sempre dalle sembianze infantili, che si nutre del sangue delle donne incinte. È il figlio mai nato del barone, morto ancora nella pancia della madre dopo gli ennesimi colpi sferrati contro di lei. Per completare una parte della missione, bisogna stabilire la sorte del “botchling”, forse meno mostruoso di ciò che sembra dopo avere scoperto la vera storia del barone, e decidere se “liberarlo” o finirlo come un abominio sputato dall'inferno.

 

Le storie che si dipanano dalla libera esplorazione del Continente sembrano fondersi come il reportage da una terra sconosciuta, è come leggere le antiche leggende di viaggiatori perdute nei secoli, ed è chiaro che The Witcher 3 non sia un titolo per tutti: non è immediato, la difficoltà è alta come la soglia di attenzione richiesta per seguire la vicenda, i contenuti sono forti e richiede una certa predisposizione all’esplorazione fantastica, prima che in senso generale. È come consigliare un buon libro a chi ama leggere, musica per musicisti, e i cinque milioni di copie vendute in tutto il mondo da The Witcher 3 dimostrano che ci sia ancora qualcuno disposto a cavalcare un ippogrifo senza lasciarsi soggiogare dalle commissioni sulla carta di credito.

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