Alessandra Acocella. Avanguardia diffusa / Se l’avanguardia incontra il popolo
È il 1968. Ketty La Rocca realizza l’opera Segnaletiche, una composizione di segnali stradali con su scritto: “Il senso di responsabilità”, “Io tu e le rose”, “Amava molto gli animali”. Di queste la prima ha la freccia verso sinistra ed è in cima, le seguenti con la freccia nella direzione opposta e cioè verso destra. Anche senza soffermarsi sulle citazioni o sui contenuti veicolati, in quest’opera sono presenti i temi dell’estetica del tempo: la coincidenza di testo e immagine, l’impiego di oggetti d’uso comune decontestualizzati, ma soprattutto il riferimento a una dimensione esterna all’arte e ai suoi luoghi. In primo luogo, l’immagine fonda il suo impianto visivo su una grafica verbale (o verbo-visiva per usare un tecnicismo). Quindi, la segnaletica stradale diventa supporto materiale e semantico, ed è al tempo stesso supporto, immagine e concetto. La scelta della stessa come supporto implica il rimando a un immaginario condiviso, tanto comune, che inevitabilmente dirotta lo sguardo di chi osserva e legge al di fuori dei luoghi dell’arte. È su questa linea che si muove la ricerca di Alessandra Acocella nel saggio Avanguardia diffusa. Luoghi di sperimentazione artistica in Italia. 1967-1970, pubblicato per Quodlibet (collana Biblioteca Passaré, diretta da Pietro Nicoletti e patrocinata dalla Fondazione Passaré). E cioè il tentativo di ricomporre le fila di un panorama artistico che ha avuto il suo svolgersi all’aperto. Non solo. Ma che ha scelto luoghi comunemente periferici alla centralità delle metropoli.
Il libro ripercorre quanto accaduto in Italia tra il 1967 e il 1970 quando, già forte di una disinvolta fusione dei linguaggi, la sperimentazione artistica ricercava un dialogo stretto e privo di mediazioni con il territorio, inteso sia in termini geografici che sociali. Sono questi gli anni in cui le istanze di autonomia dell’arte trovavano una loro forma nelle pratiche e ponevano le basi per gli ulteriori sviluppi del decennio a venire. Dalla poesia sonora a quella visiva, fino all’avanguardia musicale o architettonica, Acocella si muove nel proliferare di tendenze e diversità concettuali e formali, ragionando soprattutto sulla trasformazione del rapporto tra opera e spazio. In particolare sul progressivo superamento dell’opera plastica, espressione di una relazione spaziale fondata sull’equilibrio dei volumi, a favore di un’opera semantica, fondata sulla relazione dialettica con l’ambiente.
Più precisamente, invece che di arte ambientale, Acocella preferisce parlare di “una storia delle manifestazioni all’aperto” e del modo in cui queste hanno attraversato i luoghi dove sono state “ideate, vissute, recepite”. È infatti esattamente questo l’ordine in cui ogni episodio viene rigorosamente ricostruito e raccontato, dalle corrispondenze che hanno generato l’idea del singolo progetto tra artisti e istituzioni, alla sua realizzazione, fino alle reazioni di pubblico, istituzioni e stampa, e quindi agli epiloghi artistici, sociali e politici.
Insieme al distanziamento dalla categoria di arte pubblica, un secondo aspetto significativo, e innovativo di cui si pregia questa ricostruzione risiede nell’estensione dello sguardo oltre le esperienze poveriste o quelle dislocate nei territori più centrali. Negli ultimi anni si iniziano a incontrare altri studi e occasioni di confronto che rileggono il periodo e le tensioni dell’arte verso lo spazio pubblico. Tra questi, Alessandra Pioselli ad esempio, con L’arte nello spazio Urbano. L’esperienza italiana dal 1968 a oggi (Johan&Levi 2015), contribuisce a una rilettura sulla convergenza tra esperienze autonome e strutturate, e l’inquadramento artistico nei contesti pubblici. O ancora il convegno Arte fuori dall’arte. Incontri e scambi fra arti visive e società negli anni Settanta (Università Cattolica, Milano 12-13 ott. 2016) a cura di Cristina Casero, Elena di Raddo, Francesca Gallo, ha riunito i contributi di storici, critici e protagonisti di diverse generazioni. Quello che sembra accadere non è solo il recupero di una memoria sfilacciata. È anche la ricerca di un diverso approccio di studio e di una diversa definizione. Un dettaglio interessante che vorrei sottolineare, è come le spinte di una rilettura provengano in primo luogo dalle realtà accademiche. Quelle su cui si sta posando la lente d’ingrandimento sono per lo più esperienze considerate ai margini dal mercato come dalla storiografia generalista. A volte neanche riportate dagli stessi artisti nei propri curricula. Esperienze che sono state emblema di un’effervescenza le cui tracce sono ancora tutte da raccogliere e che, sebbene non sia ancora entrata a regime nella letteratura storico artistica, ha costituito il tessuto nel quale si sono mossi artisti, critici e testimoni più o meno riconosciuti, potendo anche sperimentare senza nulla a perdere.
Il viaggio di ricognizione di Acocella inizia a Fiumalbo nel 1967. Provincia di Modena. Quasi mille metri sul livello del mare. L’occasione è Parole sui muri. Di questa Acocella ricostruisce la fitta corrispondenza tra Claudio Parmiggiani, artista, e Mario Molinari, sindaco del centro che ne costituirebbe la genesi e l’ideazione. Parmiggianni ne divenne il curatore unico, con il supporto del “comitato organizzativo”: Henry Chopin (musicista), Corrado Costa (Gruppo 63), Adriano Spatola (Geiger). In questo caso, solo artisti; tutti altalenanti tra il mondo della poesia, dell’immagine, della musica. Ogni dato è stato ricomposto grazie alla dettagliata ricchezza dei contenuti filologici del testo, testimoni diretti di un panorama dove gli artisti stessi potevano essere i promotori principali della divulgazione dei nuovi linguaggi. Qui, l’esclusione di qualsiasi contributo critico fu confermata nella scelta editoriale con un catalogo privo di testi critici, ma contenente tutte le recensioni dell’evento pubblicate sui giornali. Parole sui muri si ripeté l’anno successivo, nel 1968, con la stessa partecipazione numerica degli artisti, ma – riporta Acocella – senza la stessa vivacità. L’esperimento era riuscito la prima volta per la sua vena inedita. Nei due anni, la rassegna riunì la scena italiana d’avanguardia, dalla poesia visiva ad altre forme di sperimentazione. Ketty La Rocca presentava la sua segnaletica comune, ispirandosi tra le altre cose alla canzone di Orietta Berti. Dal balcone del Municipio, Henry Chopin, recitava poemi sonori. Anche la sperimentazione filmica ebbe il suo spazio con il film ad esempio di Alberto Grifi, Transfer per camera verso Virulentia. Dalla ricostruzione così dettagliata emerge anche il dato reale della risposta pubblica. Il girovagare per il piccolo centro del paese da parte di artisti venuti da tutta Italia con atteggiamenti che sfuggivano a quelli canonici non passò inosservato. Al termine dell’iniziativa la DC ne approfittò per un bilancio contro lo spreco del denaro pubblico dell’amministrazione di governo a sostegno di eventi, dal loro punto di vista, non adeguati alla morale, attraverso un manifesto di protesta affisso per la città di cui si riporta qui l’apertura:
“ Raccolti qui in tendopoli / da Voi sovvenzionati / quei capelloni luridi […]”
Oltre alla naturale circostanza espositiva, una delle necessità più urgenti era quella di dialogare con il territorio e di contribuire a definire delle soggettività capaci di riconoscersi nei nuovi linguaggi, senza esserne respinte. Inoltre, si è detto sopra, il valore dell’opera come volume nello spazio perdeva progressivamente importanza a favore di un riscontro emotivo o partecipativo sul tessuto sociale e culturale del luogo. Scrive Luciano Caramel nel 1969 a proposito di campo Urbano:
«l’inserimento effettivo del coefficiente estetico nella vita della comunità e quindi l’apertura sociologica, il coinvolgimento popolare, il superamento di una dimensione gustativa o esilmente “decorativa”».
La citazione è riportata da Acocella e viene da domandarsi se non sia proprio questo che intenda parlando di “Avanguardia diffusa”. Le dinamiche dell’organizzazione corale (o “dal basso”, per usare un’espressione più familiare a molti) e l’esclusione di una direzione programmatica si ritrovano in altri episodi raccolti da Acocella. Uno di questi è Un paese + l’avanguardia artistica. Località: Anfo, comune della provincia di Brescia. All’epoca poco più di 500 abitanti. Il deus ex machina dell’iniziativa anche in questo caso è un artista; anche in questo caso protagonista della poesia visiva. Parliamo di Sarenco (Isaia Mabellini). Appena ventenne e di origini bresciane. Artista, giovane, legato a quegli stessi territori. Ulteriore aspetto d’interesse che emerge dalla lettura della corrispondenza è che, nonostante i contenuti a tratti provocatori e anticonvenzionali delle opere, le istituzioni locali erano ben disposte a sostenere e promuovere queste iniziative artistiche, non ultimo per il loro potenziale attrattivo. Qualunque essa fosse, si trattava di costituire un’occasione di interesse per un luogo e trasformarlo in catalizzatore turistico. Il caso di Anfo si presta bene a giustificare quanto appena detto anche per le possibilità ludiche che hanno generato alcune opere, come ad esempio i gonfiabili di Jorrit Tornquist, artista austriaco residente in Italia dagli anni Sessanta, o quello di Hidetoshi Nagasawa, sul modello del Grande oggetto pneumatico (1960) del Gruppo T, messi nelle acque del lago, o ancora il Biscione da divertimento del gruppo Ti.Zero di Torino.
Cito il gonfiabile per introdurre la reazione dei rappresentati locali della DC, perfettamente sovrapponibile a quella dell’episodio di Fiumalbo. Il segretario della sezione locale scrisse:
“Da questa manifestazione, ho rilevato, a mio modesto giudizio […] delle opere di manifestazione sessuale, maoiste, antireligiose, e anarchiche […]”.
La carrellata prosegue con lo stesso rigore considerando la genesi, gli episodi significativi, i protagonisti, le opere e le reazioni. Soprattutto queste costituiscono la cartina tornasole del valore delle manifestazioni: la loro capacità di riferirsi a una creatività diffusa presente sul territorio italiano negli anni Sessanta. Quindi in ordine: VI Premio Masaccio (San Giovanni Valdarno, 1968). Nuovo Paesaggio (Milano, 1968), mostra cancellata e ricordata da F.M. [Fabio Mauri suppone Acocella] nell’articolo Una mostra da Salvare (Almanacco letterario Bompiani, 1969). Al di là della pittura (VIII Biennale d’arte contemporanea, San Benedetto del Tronto, 1969), curata questa da critici come Gillo Dorfles, Luciano Marcucci, Filiberto Menna. Come sottolinea Acocella, la mostra riprendeva il saggio di Dorfles su Artificio e natura (Einaudi 1968) e creava un terreno di confronto con la parallela esperienza poverista, che pubblicava il celebre catalogo Arte povera + azioni povere a pochi mesi di distanza (maggio 1969), dove lo stesso Dorfles si dichiarava a sostegno di iniziative di scambio con il territorio, che non fossero calate a piombo dall’alto delle istituzioni.
A seguire ancora: Nuovi materiali, nuove tecniche (Caorle, 1969) che recuperava e rinnovava nelle intenzioni la manifestazione che dalla fine degli anni Cinquanta si svolgeva nel comune veneto. L’innovazione dell’episodio passava attraverso l’allestimento diffuso della rassegna, distribuito per le calli cittadine sotto la direzione di Giuseppe Fronzoni (architetto). Quindi Meno 31. Rapporto estetico per il Duemila (Varese, 1969) e Campo Urbano (Como, 1969).
Come si legge, in linea con quanto affermato sopra, l’intento di Meno 31 era quello di “sensibilizzare l’opinione pubblica ai problemi di vitalizzazione e tutela del centro storico”.
Di fatto il valore di sperimentazione trovava conferma nelle polemiche a volte aspre che ne uscivano sulla definizione di arte pubblica piuttosto che sul rinnovamento delle istituzioni. Campo Urbano, il cui catalogo fu curato da Luciano Caramel, Bruno Munari e Ugo Mulas, fece esplodere il dibattito critico sull’arte in Piazza. Caramel, critico d’arte, in opposizione a Francesco Vincitorio – sostenitore del rinnovamento delle istituzioni permanenti, promuoveva invece una “prospettiva operativa extramuseale, contingente, effimera […] capace di rispondere alla dinamicità delle proposte estetiche e alle loro istanze democratizzanti” (Acocella, p. 179). Protagonista di Campo Urbano sembra essere per Acocella il tempo libero (p. 181) e in particolare la sua fruizione. Anche questa era uno degli argomenti di sviluppo di un decennio che, per la prima volta in Italia, aveva portato alle masse e ai vari livelli sociali la possibilità di avere e immaginare un tempo libero. La vitalità e la vasta partecipazione si comprimono per Acocella, con un evento cui si rimanda normalmente l’esordio della strategia della tensione e del conseguente timore per gli spazi pubblici: la strage di piazza fontana del 12 dicembre del 1969. Questo clima di “riesame critico” è riassunto da Interventi sulla città e sul paesaggio (Zafferana Etnea 1970), evento di chiusura del saggio, che vide la partecipazione dei critici Francesco Vincitorio, Lara Vinca Masini e degli artisti Franco Vaccari e Ugo La Pietra e che, si svolse in contemporanea alla quarta edizione del premio letterario Brancati Zafferana, diretto quell’anno da Pier Paolo Pasolini. Acocella raccoglie e ricostruisce le tappe di una tensione tra arti visive e critica letteraria per l’utilizzo degli spazi pubblici, che sfociò in gesti di estrema provocazione come l’incendio di cumuli di copertoni in strada.
Tra gli aspetti più evidenti di questa ricostruzione sono la presenza radicata e capillare di una volontà auto organizzata di artisti sul territorio e uno scenario caratterizzato da almeno due polarità contrapposte. Due Italie che premono l’una sull’altra per la rispettiva affermazione. Da un lato residui di perbenismo conservatore atterrito dallo spettro malefico del comunismo e della rivoluzione dei costumi. Dall’altro liberi artisti che si divertono a sparigliare le carte e a intervenire nelle periferie non urbane con pratiche dirette di presenza, portando nella dimensione reale e più periferica i dibattiti che le élite intellettuali masticano già da alcuni anni attraverso, ricorda ad esempio Acocella, testi come Opera Aperta (1962) di Umberto Eco.
È in questo senso forse che va intesa allora l’avanguardia diffusa del titolo, cioè un’avanguardia capillare, un sottobosco che ha contribuito a mantenere vivi i dibattiti in superficie e a generare identità fondate su nuove estetiche di base.