Recuperare la follia allegra del giocatore / Città come spazi di gioco
“The only game in town” è un film del 1970 con Warren Beatty ed Elizabeth Taylor. Parla di due giocatori, di due “gambler”, che in modo diverso si “giocano” la vita sul tavolo da gioco lui e nella vita sentimentale lei e che si ritrovano insieme. Un film sull’azzardo senza alcuna connotazione moralistica che per altro ha anche un happy end (lui vince al gioco e loro rimangono insieme). Un film molto bello che poi è diventato un modo di dire. Recentemente qualcuno ha fatto negli Stati Uniti con lo stesso titolo un documentario sulle banche e sul peso della finanza nella nostra vita.
Ed è un buon modo per avvicinarsi al nostro tema. Da un certo punto di vista, dal Giocatore di Dostoevskij in poi, il gioco inteso come un gioco di adulti è diventato tout-court il gioco d’azzardo e le città del gioco sono state delle località dove la grande aristocrazia della fine del secolo diciannove si è giocate intere fortune: Baden Baden, Marienbad, Montecarlo, Venezia. E in anni più vicini a noi nel dopoguerra in un’atmosfera da Tenera è la notte di Scott Fitzgerald si sono bruciati i destini della nuova borghesia. Eppure sia nel racconto di Dostoevskij che nel film il gioco ha ancora un carattere magico, di follia positiva e anti-borghese. Il protagonista del racconto è un uomo che non si identifica con i suoi contemporanei e con i valori degli expat russi e tenta il destino sul tavolo da gioco e nella vita. Nel film c’è una situazione analoga. Tentare il destino è ciò a cui serve il gioco, l’azzardo.
Questa bellissima parola, azzardo, viene dall’arabo, da “el zahr”, che significa “fiore” e dal composto “az-zahr” cioè il dado sulle cui facce anticamente venivano effigiati dei fiori. Azzardo significa sfidare la fortuna, ma ancor meglio significa incitare il destino a rivelarsi, qui ed ora, al lancio dei dadi. Se vinco vuol dire che il destino mi è favorevole, se perdo devo accettare che non lo è. Questo mettere alla prova il destino è la componente “allegra”, “positiva” del gioco, è il fermare l’attimo per interrogarlo. Nell’urgenza del giocatore c’è la capacità di sospendere il tempo che è presente in ogni gioco. Il gioco sospende il tempo perché sostituisce a esso delle regole che sono le regole chiuse del gioco. Fa dello scorrere del tempo un destino circoscritto e che ha i tempi del gioco. I bambini che giocano sospendono il tempo “normale” della città, il suo scorrimento, la sua mobilità per alterarne il senso e uso.
Giocano alla “settimana” saltando su un marciapiede o giocano coi sassetti sul bordo di un muro o al lancio di monete contro una parete di una bidonville e alterano la funzionalità dello spazio urbano. Oppure giocano a calcio tra le auto, si rincorrono nei vicoli, giocano a mosca cieca e facendo così negano che lo spazio abbia una definizione unica. Se ne appropriano, lo occupano e ne trasformano i tempi e i modi. Mi ha sempre impressionato, girando per le shanty-town e per gli slums vedere come il gioco dei bambini e dei ragazzi costituisca una normalità nell’ambiente più drammatico e difficile. Mi è successo a Dharavi a Bombay e sono rimasto stupito di come il gioco imponga le sue regole all’ambiente più difficile. Mi è successo lo stesso in Vietnam con lo spazio del biliardo fuori dai villaggi o nella stessa Bombay vedendo giocare i grandi a Kholam, una specie di biliardo portatile su cui si fanno scivolare delle fiches spinte da un colpo di dita.
La relazione tra gioco e città è un anacronismo, un fuori tempo e un fuori luogo. I giochi di cui parlo, quei giochi di bambini, di ragazzi o di adulti – il cricket onnipresente in ogni cortile e strada dell’India e del Pakistan, il gioco del calcio in tutta Europa e in America Latina – sono un dispositivo che attua in uno spazio urbano un tipo speciale di corto-circuito. Le città apparentemente sono fatte per funzionare, sono luoghi dove le pratiche urbane tendono allo svolgimento di una funzione e al compimento di un fine. Produzione, consumo, vendita, circolazione, riposo, comunicazione, gestione dei conflitti. Quello che non vi viene previsto è un tipo di pratica fine a se stessa, una pratica che fa girare il tempo a vuoto, che non è produttiva e che non consuma, ma che costituisce uno spazio e un tempo a parte.
Qualcosa che non va confusa con l’attività sportiva o con la fitness. La caratteristica del gioco è di non servire a nulla, se non a “ammazzare il tempo”. In realtà il gioco occupa il tempo in una relazione che è di circolarità. Alla fine del gioco il tempo riprende, ma nel frattempo il gioco ha fatto passare del tempo che è di tipo diverso, concluso in sé. Per questo motivo il gioco rappresenta il paradigma assoluto della quotidianità, quel trascorrere del tempo che circolarmente si compie nelle routines, nelle attese, nei sogni ad occhi aperti. Il tempo quotidiano è un anacronismo rispetto alla freccia del tempo, è l’ammazzare il tempo che sospende la percezione del tempo come qualcosa di inesorabile. Con il gioco il tempo viene “giocato”, usato, ucciso e fatto risorgere. C’è un’allegria del tempo nell’uso che ne fa il gioco. Esso si trasforma da una freccia esterna a noi in qualcosa che sembra in nostro potere, almeno fin quando dura il gioco.
Questa valenza del gioco ci induce a ribaltare la visione che abbiamo della vita di una città. Una città vive anzitutto di quotidianità, di abitudini, di circolarità quotidiana e stagionale. Le emergenze uccidono la quotidianità o la mettono in crisi ed essa ha bisogno di ricostituirsi appena possibile, una volta l’emergenza superata. È quello che accade dopo le catastrofi e le guerre. Quando qualcuno ricomincia a giocare sulle macerie la vita riprende.
Probabilmente lo spazio che sostiene la quotidianità urbana nasce da una esigenza di gioco. Le piazze, le strade, i marciapiedi, i boulevards sono la potenzialità di una reciprocità che si gioca nelle feste, nelle allegrie insieme, nelle ricorrenze. Scrivo queste cose e mi rendo conto che non sono più così ovvie. Non lo è l’idea che la matrice dello spazio è una reciprocità che si esprime, un balletto dove i corpi dei cittadini si dispongono a comporre i luoghi dettando a essi delle regole che seguono le regole dei giochi e che costituiscono spazi che ne consentono lo svolgimento. Si può ricominciare a pensare che la forma di una strada è legata al tipo di giochi che in essa sono possibili? Intendendo per giochi le reciprocità che si basano su regole, e quindi l’altra fortissima componente dello spazio che sono i riti. I riti sono giochi che vanno svolti obbedendo a delle regole, stabilendo dei ruoli e sottraendoli al funzionamento normale del villaggio o della città. I riti sospendono il tempo e riconfigurano lo spazio, si tratti di una processione, di una danza, di un sacrificio, di un’alleanza.
Il nostro problema è di avere dimenticato la componente ludica dello spazio, di avere privato questo di una matrice essenziale. Nessuna meraviglia che ci manchi fin troppo spesso la forma che sostanzi gli spazi urbani. È possibile cominciare a ri-concepire la città come luogo del gioco, dei giochi? Possibile che abbiamo affidato lo spazio ludico a un ghetto circoscritto, la scuola, la palestra, i luoghi dell’entertainment? La città nel suo insieme nasce per consentire il gioco dei cittadini, il loro mettere in scena in episodi precisi il teatro della propria reciprocità.
Quell’unico gioco in città oggi suona come la deprivazione del gioco che subiamo nella nostra vita quotidiana. Non ci si meravigli che alle città manchi la vita, che esse siano devitalizzate come un dente cariato. Il primo passo per capire cosa ci è stato tolto è di ricominciare a pensare come sarebbe una città dei giochi, che tipo di nuovi spazi presupporrebbe. Bisogna “azzardarsi” a farlo, rischiare il nostro destino collettivo dentro la città, recuperare la follia allegra del “giocatore” e di Warren Beatty e Liz Taylor.