Conversazione con Francesca Mannocchi / Bianco è il colore del danno

2 Marzo 2021

Bianco è il colore del danno (Einaudi Stile libero) della giornalista Francesca Mannocchi è la storia di una famiglia, la storia di una bambina all’interno di una certa famiglia, di un’adolescente che nei gesti e nel dolore delle persone che le vivono affianco impara a vedere il mondo, a chiamarlo. È una storia che parte da lontano, dal racconto della vita dei nonni materni dell’autrice. Del loro portato di esperienza, della fatica del loro lavoro. È una scrittura che indaga il silenzio di chi l’ha preceduta, in una ricerca ostinata di un segno, che divenga premonizione del sé. La bambina cresciuta nella periferia nord di Roma, che impara a conoscere presto il potere dello sguardo altrui, che vive la frattura della disuguaglianza sociale e dell’affondo, impara a lottare con la parola per non soccombere. Quando la malattia, il tipo più diffuso di sclerosi multipla, entra nella sua vita, Francesca ha 36 anni, è una giornalista che si occupa da tempo a livello internazionale di scenari di conflitto e violazione di diritti umani ed è madre di Pietro, un bambino di cinque mesi. Il giorno in cui la malattia si manifesta, Francesca è a Palermo, in una stanza anonima di un hotel che per lei non ha nulla di familiare. Avverte una perdita di sensibilità nella parte destra del corpo. In Sicilia ci era andata per intervistare insieme a una collega delle Nazioni Unite minorenni non accompagnati arrivati dalla Libia e ragazzi vittime di tratta sessuale. È lì per fare il suo lavoro.

 

La malattia irrompe nella sua vita con il suo portato di ignoto, squarcia un universo privato e familiare, un paesaggio interiore e un disegno di futuro. Da qui, bisogna imparare a rinominare i giorni, la materia della quotidianità, la qualità del dolore, il voler sapere, il desiderio. È una lingua scarna e violenta, che chiama a parlare l’indicibile e la gabbia di ogni vulnerabilità. Da qui bisogna imparare a rinominare la paura e il corpo. È l’attraversamento di una giovane donna in un paesaggio straniero, quello raccontato in Bianco è il colore del danno. Un attraversamento lacerante che richiede e pretende esattezza.

 

Ci vuole una devozione laica nel potere taumaturgico della parola per compierlo. E sono lo sguardo, il suo potere demiurgico e insieme la sua gabbia, ad essere indagati in questo testo. È la parola con cui chiamiamo a essere spinta fino al luogo in cui esiste quella e nessun’altra parola. Perché l’esperienza di una persona che vive il percorso di una malattia non è solo un luogo privato ma è anche il luogo in cui si manifesta un’urgenza sociale, è una pertinenza che dovrebbe farsi linguaggio condiviso, perché investe, coinvolge, interroga e indaga una comunità nella sua interezza e complessità. È il racconto di una cesura che dice di un prima e di un dopo, il racconto di un bisogno a tratti feroce di proteggere quel prima perché non venga inghiottito dal dopo, perché esista ancora un tempo in cui tutte le istanze del sé nel mondo si possano tenere, perché quel dopo non diventi unica immagine e verità. La storia di una persona malata non può coincidere solo con quella della sua malattia. 

E poi, Pietro, un giorno sul taccuino ho scritto: «Voglio tutto». Sarà questo l’egoismo, la vanità di cui sono accusata? Vorrei tenere insieme i pezzi, l’odore del mondo, il deserto invaso da immagini di Dio infrante, un amore tenace e te, figlio, che sigilli la paura della morte. 

 

Ne abbiamo parlato insieme all’autrice

 

È una storia che parte da lontano, quella che racconti in Bianco è il colore del danno, come alla ricerca di un segno, di una ferita, dalla quale tutto ha avuto inizio. È così?

Quando ho iniziato a scrivere Bianco è il colore del danno non ho messo a fuoco né mi sono posta la domanda: come faccio? Non avevo un metodo. Mi sono resa conto con il tempo che era il metodo ad arrivare a me attraverso quella che, con il tempo, ho capito essere un’archeologia familiare. Scrivevo e man mano realizzavo di procedere per temi che si agganciavano ad eventi. Aprivo il taccuino, leggevo: vergogna, sguardo, maternità. Lentamente mi sono resa conto che attraversare quei temi significava collegarli a episodi significativi del mio vissuto o di quello della mia famiglia che hanno assunto, per mezzo della scrittura, un nuovo valore. Questi eventi hanno accompagnato me, e di conseguenza il lettore, in un percorso che è stato insieme archeologico e antropologico. Archeologico perché è stato un percorso verticale su di me, nelle ere geologiche che compongono la mia persona e che compongono la mia famiglia. Poi antropologico e sociale insieme perché nel descrivere l’epica di una famiglia normale, mi sono interrogata su quanto dovremmo concentrarci molto di più sul racconto dell’ordinario che dice il nostro Paese e non solo sul racconto dello straordinario. Nello scavo che ho fatto nelle fratture della mia famiglia, che non sono fratture eccezionali ma che sono comuni a quelle di moltissime altre famiglie, mi sono resa conto che siamo determinati dai dolori che ci hanno segnato e che forse il solo modo di affrontare, e in qualche modo neutralizzare, questi dolori, fosse dare loro un nome. In questo senso dico che il metodo è arrivato a me, dall’individuale al collettivo.  

 

 

In che modo la storia della tua famiglia il loro portato di verità, il loro incedere nel mondo ha formato la tua sensibilità di persona e poi di autrice e ha plasmato il tuo sguardo?

La mia è una famiglia ordinaria. Ho provato ad allargare lo sguardo dalla mia famiglia agli anni della mia infanzia e ciò che li circondava, raccogliendo le fotografie e i ricordi degli anni Ottanta, anni in cui la nostra generazione ha maturato lo sguardo su di sé e sugli altri. Sono cresciuta in periferia, a Roma, mio padre era un commerciante, le famiglie dei miei erano entrambe famiglie di emigranti arrivati negli anni Quaranta e Cinquanta dalle Marche e dall’Abruzzo. Ho osservato la storia della mia famiglia, il consumismo, il benessere, la crisi economica del 92-93, domandandomi quando vizi e virtù ordinari avessero modellato il mio sguardo sul mondo. Mi sono risposta che lo sguardo che ho è cresciuto sulle contraddizioni di quegli anni, per opposizione o prossimità. Per conflitto. Sicuramente l’esperienza della maternità e della malattia hanno deflagrato in me un processo in atto da tempo di riflessione sulle relazioni familiari e soprattutto su quanto le relazioni familiari influenzano inevitabilmente la nostra postura nel mondo. Ho guardato mio padre, ho guardato il nostro passato, ho analizzato gli effetti di quell’essere vista o non vista sul mio presente. E ho osservato tutto questo con gli anni Ottanta sullo sfondo, gli anni dell’apparenza e apparire, in una periferia, significava per tantissimi emanciparsi dalla povertà e soprattutto mostrare agli altri di averlo fatto. 

Il particolare e il politico si sono legati così, nel Bianco. Come cause e effetti, individuali e collettivi, dello sguardo. 

 

Proprio la riflessione sullo sguardo, sullo sguardo con cui creiamo il mondo ma anche sul potere dello sguardo altrui di dirci, di categorizzarci sul suo potere catartico quindi ma anche sulla sua gabbia, sul suo bisogno di identificare, giudicare e ridurre per potere comprendere mi sembra sia uno dei pilastri tematici di Bianco è il colore del danno. A maggior ragione quando in un percorso personale entra un accadimento come quello della malattia. È così?

La riflessione sulla corrispondenza tra le parole e gli eventi che raccontiamo per me è un tema cruciale nel lavoro che faccio. Quando guardo un ragazzo dentro un carcere a Kirkuk, accusato di sostenere Daesh, mi chiedo cosa lo abbia esposto alla radicalizzazione. Perché un ventenne iracheno sia diventato, attraverso le parole che usiamo per descriverlo, solo uno ‘jihadista’. Mi sono addestrata a scorgere il ragazzo che indossa una tuta acetata in una prigione per presunti fondamentalisti, prima dello jihadista in manette. Non è sempre facile, tendo a dire che non lo sia affatto. Perché anche quando riteniamo di aver depurato il nostro sguardo dai cliché, loro sono lì, che resistono come scorie. Da quando ho ricevuto la diagnosi della malattia, la riflessione sulla corrispondenza tra parola e realtà si è allargata sotto forma di interrogativi. Quanto una definizione ci racconta davvero? Quanto ci influenza e, influenzandoci, ci determina? Quanto, dunque, determinandoci ci ingabbia? Se ci pensi, tendiamo ad associare la parola malato all’ausiliare essere. Sei malato, non hai una malattia. La patologia non è più qualcosa che incidentalmente ha colpito la nostra vita, ma qualcosa che la sostanzia, talvolta irreversibilmente. Al punto che la persona cui è stata diagnosticata una malattia finisce per diventare il suo male. ‘Sei malato’ o ‘hai una malattia’ sono due frasi solo apparentemente sovrapponibili, in verità raccontano due storie diverse. La prima racconta chi sono. La seconda cosa mi accade. Una è identitaria. L’altra racconta un episodio che attraversa il corso della vita. La riflessione sul “cosa diventi nel momento in cui hai una diagnosi?”, per me ha avuto lo stesso valore del "cosa diventi nel momento in cui hai un figlio?”, “cosa sei nel momento in cui vuoi essere contestualmente una giornalista e una scrittrice?” nel provare a dare risposta a queste domande, ho visto stringersi il labirinto in cui viviamo. Cerchi l’uscita e sei accerchiato da ansia da definizione, ansia da identità. E le definizioni, ahimè, lavorano per esclusione. Vuoi essere madre allora rinunci alle zone di conflitto. Sei malata allora ti sposti dalla griglia della forza a quella della vulnerabilità, della minore autonomia. La lingua è una forma dello sguardo, è la forma agita dello sguardo. 

 

© Chiara Pasqualini-MIP


Per chi lavora con il linguaggio, il modo in cui si chiama il mondo è un aspetto cruciale che può divenire riflessione politica. Tu, con la scoperta della malattia, sei dovuta entrare in un campo linguistico e semantico che immagino non conoscessi, quello della lingua medico-specialistica che definisce, per una comunità, le patologie. Nel libro riporti interi brani di referti medici. Come è stato questo attraversamento e in che modo ripensare questo linguaggio può diventare una riflessione sociale, politica?

Permettimi di fare una premessa. Ho incontrato medici straordinari in questi anni. So che, se hanno usato parole che mi sono sembrate distanti, l’hanno fatto in buona fede. Non c’è malafede in una lingua, quella scientifica, che talvolta nasconde, talvolta mistifica, l’esperienza vissuta dal corpo. C’è uno scarto, questo sì, tra quelle parole e il corpo vivo di chi ha una patologia, e quello scarto va colmato. In questi anni ho capito che resiste in noi ancora la tendenza a vivere il rapporto con la medicina come un atto di fede. Riceviamo una diagnosi e ci sediamo nella posizione che spetta alle persone vulnerabili che hanno bisogno di essere accudite e riportate allo stato-di-prima da un guaritore. La relazione medico-paziente finisce, così, per diventare una relazione tra un soggetto attivo, il medico, e uno passivo, il paziente, colui che è (diventa) malato. Pertanto cominciamo a vivere lo spazio medico e la relazione con gli specialisti come se la medicina fosse soltanto un rapporto individuale, il nostro. Il solo fatto di affidarci da passivi a un guaritore attivo non ci pone in uno spazio negoziale, ci pone al contrario in uno spazio di attesa, l’attesa di un balsamo che ci allevi dalle nostre ferite fisiche, cliniche o psicologiche. La malattia invece è la malattia del corpo sociale e per corpo sociale intendo non solo la comunità di malati ma la comunità familiare – amicale o lavorativa – che subisce le conseguenze di un dato clinico. Che cosa comporta questo a livello politico? Che rallentiamo il dibattito sulle soluzioni collettive. A parlare dovrebbe essere la comunità di persone malate, non il singolo. Le soluzioni collettive vengono chieste e vengono agite attraverso la lingua. Se ci pensi, è lo stesso principio che regola il racconto delle migrazioni. Un conto è chiamare le migrazioni “crisi”, e chiedere di conseguenza soluzioni emergenziali, un conto è chiamarla “fenomeno” e provare a gestirla sul medio e lungo periodo. In questo senso credo che le nostre migliaia di malattie individuali dovrebbero essere raccontate, pensate, strutturate, arginate, come dei fenomeni collettivi. Perché è collettivamente che noi contribuiamo alla sanità in questo Paese ed è collettivamente che dovremmo discuterne.

 

C’è un altro tema molto delicato e molto presente in Bianco, un tema che hai già affrontato apertamente anche in altri tuoi interventi precedenti a questo libro, quello della maternità. Un ruolo materno che viene vissuto con complessità, parlando apertamente anche dei suoi aspetti più critici. In quale misura, una cultura profondamente tradizionalista come quella italiana, è disposta ad accettare una giovane donna che prova a ripensare a un ruolo materno che non sia solo quello accuditivo? In che modo, questo tipo di apertura sulle proprie ferite su un tema così privato e personale, viene accolto?

Su di me si sono incrociate due fortune. La prima è la possibilità di questo cantiere archeologico che ho fatto sulla mia famiglia e sul mio corpo. La seconda è la fortuna di vivere in una famiglia in cui c’è, ed è quotidianamente sperimentata, un’effettiva parità genitoriale, anzi talvolta le funzioni accuditive sono più spostate su Alessio, sul papà di Pietro, che non su di me. Nonostante questo rispetto possibile e sperimentato, rimangono dei cliché difficilissimi da debellare. 

Scrivendo il Bianco ho osservato a ritroso il sacrificio che ho visto da quando sono nata. Aveva sempre nome di donna. Sacrificio di parole, emozioni, tempo libero, aspettative, lavoro, carriera. Non era un sacrificio imposto, era semplicemente un dato naturale. Come è naturale che durante il pranzo domenicale la donna non metta nel piatto il boccone prelibato dell’arrosto, la patata meglio arrostita, il pezzo di lasagna che pare più appetitoso. Perché la donna, dunque la madre, naturalmente si sacrifica. Naturalmente non le spetta il boccone migliore. Ecco, io credo che ognuna di noi, e così ogni uomo cresciuto di fronte a madri sacrificate, debba chiedersi intimamente quali siano sul proprio vissuto le conseguenze del sacrificio femminile che abbiamo osservato da che siamo nati. 

Dobbiamo, credo, fare un privato viaggio a ritroso e poi un pubblico, collettivo, cammino in avanti, superando la matrice culturale che, per restare sull’oggi, produce i dati della disoccupazione prodotta dall’anno epidemico. Su centomila posti di lavoro persi, 99 mila erano ricoperti da donne. Perché? Perché è naturale che sia così. 

 

Leggendo Bianco, mi è parso che se tu fossi in dialogo costante con la Francesca prima della malattia, prima di questa cesura. Come a proteggerla, a fare in modo che non svanisse intrappolata appunto nello sguardo dell’altro, che per comprendere la portata di evento come quello di una patologia cronica, sente il bisogno di catalogare e definire il malato. Come a impedire che tutta la tua storia fosse ridotta a quella della tua malattia. “Io ho una malattia, non sono la mia malattia” scrivi e poi ancora “io voglio tutto”.

Dopo l’uscita del Bianco mi sono messa in ascolto. Sento che ora è il libro ad avere qualcosa da dirmi. Il mio rapporto con lui si è capovolto. Nel libro descrivo il congedo dalla Francesca di prima. Ma credo sia più esatto dire che dovessi congedarmi dall’idea che avevo della Francesca di prima. Le ho detto: accetto che te ne sei andata. Ma devo dirti che ogni tanto torna, si siede in disparte, credo che non voglia disturbare quella di adesso. Allora sorrido e mi dico che forse il segreto non sia il congedo, ma trovare la chiave della continuità. Credo di avere scritto il Bianco anche per questo, e per risolvere (si può risolvere?) l’audacia di volere tutto. Scambiano l’aspirazione a tenere insieme tutto per temerarietà? E allora capovolgiamo tutto. E rivendichiamo oltre al coraggio l’indulgenza. Quando impariamo l’indulgenza, quando impariamo a perdere e cadere, facciamo la vera e più onesta esperienza di tenacia. Dovremmo imparare a dire “non ce la faccio”, imparare a dire “non ho voglia”, “voglio stare da sola” e non per questo sentirci vulnerabili ma, al contrario, rafforzate dal nominare qualcosa nominandolo l’abbiamo contestualmente fatto nostro e neutralizzato. In questo senso per me la malattia è stata uno strumento. Uno strumento che ora è nella mia cassetta degli attrezzi. 

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