Slavoj Žižek, Srécko Horvat e Alexsis Tsipras / Europa: speculazione a tempo
Con Cosa vuole l’Europa? (2014) Ombre corte prosegue la pubblicazione di testi di Slavoj Žižek: se in Chiedere l’impossibile (a cura di Yong-june Park) uscito a fine 2013, era la riflessione di Žižek nel suo complesso l’oggetto esplorato, in Cosa vuole l’Europa?, scritto assieme al filosofo croato Srécko Horvat, il tema è più direttamente politico.
Sedici brevi interventi, otto a testa: un ping pong fra Žižek e Horvat nel quale gli autori tentano di mettere a nudo le contraddizioni economico-politiche che lacerano l’Europa odierna. Ciò che hanno in comune la bancarotta di Cipro, la necessità della Croazia per l’Europa, l’enigma (lo si insegna tuttora nelle scuole europee) dei Balcani, il caso dell’Islanda, oppure la «marcia turca» (pp. 73-77) è di essere focolai di contraddizione apparentemente marginali, ma in realtà profondamente intra-europei. Nell’impostazione mista tipicamente žižekiana, ossia materialistico-dialettica e psicoanalitica, tutti questi casi sono sia sintomi che reali centri-periferici di sofferenza europea. Ma, contemporaneamente, essi sono anche snodi virtualmente generatori di pensiero antagonista.
Per capire che cos’è l’Europa, l’altro (geografico o simbolico, poco importa) va sempre posto in rapporto dialettico con l’identità, come argomenta Horvat commentando Žižek: «lungi dall’essere l’Altro dell’Europa, la ex-Jugoslavia era piuttosto l’Europa stessa nella sua alterità, lo schermo su cui l’Europa ha proiettato il proprio rovescio rimosso» (p. 28). Di qui, lo sguardo degli autori si solleva a temi di portata teorica più ampia, quali il razzismo, le simmetrie fra gulag e campi di sterminio nazisti, le ambiguità del modello democratico, sino alla questione della cancellazione del debito, sulla quale Žižek si confronta criticamente con le idee di Lazzarato, Sloterdijk, Marx e il Nietzsche della Genealogia della morale (p. 114 e ss.).
Ma la ritmica del libro non è data solo dal ping pong Žižek-Horvat: fra i coautori va aggiunto Alexis Tsipras, leader della sinistra radicale greca e candidato alla presidenza della Commissione europea. Nei suoi contributi al volume, in particolare nella prefazione La distruzione della Grecia: un modello europeo (pp. 7-12), Tsipras chiarisce i temi che poi vengono sviluppati in termini teorici da Žižek e da Horvat, in primo luogo l’idea che la lontananza con cui vengono percepiti i casi scomodi quali Cipro, o la stessa Grecia, permette il loro costituirsi, sul piano simbolico, come rimosso collettivo.
Ciò vale a fortiori per lo spettro della bancarotta statale: un concetto in sé tragico e ironico, che trasporta però già il vulnus della questione, vale a dire l’applicazione automatica di un codice linguistico finanziario allo stato. In questo senso la retorica imperante dell’austerity, da un lato, e dei piani di salvataggio dall’altro, vengono immediatamente smascherate come forme egemoniche: «la crisi dell’economia greca non è ciò che interessa all’Europa, né al FMI. Il loro obiettivo principale è di fare del programma imposto alla Grecia il modello da seguire per tutte le economie europee in crisi […] non importa se la Grecia alla fine fallisce e sprofonda nella miseria. Ciò che conta è che, in un paese della zona euro, ora si discuta apertamente di salari alla cinese, di abolizione del diritto di lavoro, di dissoluzione della sicurezza sociale e dello stato sociale e di completa privatizzazione dei beni pubblici» (p. 9 e ss.).
Questa è dunque la tesi centrale del libro: Cipro, Grecia e altre situazioni borderline (Portogallo, Spagna, Italia…) vanno necessariamente lette come pre-testi del metadiscorso capitalista. Sotto i nostri occhi passivi, sostengono gli autori, sta già prendendo forma un laboratorio (degli orrori) europeo, dove la finanza globalizzata elabora i traumi anticipatamente (giocando sul tempo) e li sperimenta sul tavolo chirurgico della vecchia Europa (madre anche del capitalismo). Tuttavia, proprio la restituzione alla madre-Europa di un ruolo cardinale, sia pure negativo (cioè come cavia), funge da condizione propedeutica a una presa di coscienza: è quindi alla tradizione culturale europea che, pur riconoscendo con cinismo le enormi difficoltà che essa veicola inconsapevolmente, gli autori ancora, e nonostante tutto, invitano a rivolgere lo sguardo. A un esame complessivo, Cosa vuole l’Europa? si presenta come un classico (troppo classico?) j’accuse contro il sistema di dominio capitalistico neoliberista. Ma vi è un altro motivo che attraversa l’intero libro, pur senza esser posto in modo diretto: il tempo.
C’è qualcosa, nell’essenza stessa del capitalismo (inteso come sistema di accumulazione e rischio in vista di una capitalizzazione) che riflette – oscenamente, direbbe Žižek – la struttura del tempo vissuto. L’uomo è un animale che specula, che investe in tempo. Prima ancora di chiedersi se la speculazione esistenziale-umana accada nel campo simbolico o nel campo storico-materiale, occorrerebbe tornare a riflettere sul senso di questo strano isomorfismo fra struttura del tempo (individuale, e poi sociale) e struttura dell’auto-accrescimento del Capitale. Chronos divorava i propri figli per restare se stesso, così incorporando la circolazione del tempo (fine a se stesso in quanto fine di se stesso).
Stessa morfologia tautologica ha il Capitale, come scrive Žižek in uno dei passi più celebri de Il soggetto scabroso (p. 346): «quando Marx descrive la folle circolazione del Capitale che accresce se stesso in un percorso solipsistico di autofecondazione (che raggiunge il suo apice nelle speculazioni metariflessive contemporanee sulle operazioni a termine), è troppo semplicistico sostenere che lo spettro di questo mostro autogenerantesi, il quale procede indifferente a ogni rapporto umano o ambientale, rappresenti un’astrazione ideologica.
Il problema filosofico che emerge dal libro, è quello di un tempo sottratto che è, insieme, un tempo su cui il Capitale specula in vista di nessun fine (se non quello della propria assurda e razionale auto-conservazione). Non è un caso che Tsipras utilizzi sia il concetto di scommessa che quello di speculazione, se non di scommessa speculativa (p. 7). Così come non è un caso il riferimento, da parte di Horvat, alla lezione di Jacques Le Goff. In La borsa o la vita. Dall’usuraio al banchiere, citando da un manoscritto del XIII secolo Le Goff scrive: «gli usurai sono ladri perché vendono il tempo che non appartiene loro, e vendere un bene di proprietà altrui, nonostante se ne sia in possesso, è furto. Inoltre, poiché essi non vendono altro che l’attesa del denaro, vale a dire il tempo, vendono i giorni e le notti» (p. 23).
L’ipotesi che scorte e accumulazione preventiva delle merci siano lo stadio dell’annodamento reciproco fra la struttura del capitale e la struttura del tempo, troverebbe la propria legittimazione nelle falde storiche pre-capitaliste, ma forse già nelle morfologie dell’umano in generale. L’uomo ha bisogno di un proprietario del tempo? Se, conclude Horvat, nelle epoche pre-usura, come il Medio Evo, «il tempo apparteneva ancora a Dio (o alla Chiesa) […] oggi [il tempo] è il primo obbiettivo dell’espropriazione/appropriazione capitalista» (ibid.).
Da tutto ciò deriva una conseguenza determinante: la razzia che la mano invisibile, teleguidata dai poteri forti, opera sui popoli europei non è direttamente indirizzata verso i beni materiali, bensì verso il tempo in quanto tale. Ma che cos’è il tempo? Che ne è del tempo, se è vero che tempo e Capitale condividono la stessa struttura formale, legata a doppio filo alla speculazione? La struttura della speculazione (in tutti i significati del termine) è sempre associata all’idea di un rischio, come anticipazione insensata del futuro, o forse anche come prefigurazione conoscitiva (pro-gnosi). Essa, in altri termini, è incardinata nell’esitazione fra il prima e il dopo di ogni azione, la quale (grande o piccola, che riguardi il singolo o le scelte comuni) è sempre aleatoriamente sospesa non fuori, ma nel tempo. Come nel lancio di un dado (alea).
Ma, si noti bene, l’orizzonte del problema del tempo che questo libro lascia forse intravedere, giunge silenziosamente sino a Marx, alla questione del tempo/lavoro e a tutte le sue conseguenze nel campo della modernità, sino al tema dell’alienazione e al fatto che, in questi processi, il tempo – più ancora della storia – è l’orizzonte indiscutibile, a tal punto che ce ne dimentichiamo. Oggi è il tempo a essere divenuto oggetto di scambio o di speculazione, come nelle tesi di “Bifo” Berardi, riprese da Horvat, sul sistema bancario quale dispositivo organizzato strumentalmente intorno all’immagazzinamento del tempo: «in un certo senso in banca noi immagazziniamo il nostro passato, ma anche il nostro futuro» (p. 26).
Fra passato e futuro, il presente (che non esiste) è il luogo della speculazione (riflessione; attesa; scommessa), così come delle mie azioni in vista di fini, intese come un fare fruttare il passato nel futuro. Questo tempo è un tempo della vita, dove vita va intesa sia come vita civile di uno stato o di un popolo (termine che ricorre molto spesso nel libro) sia come bìos. Pensare il tempo e la sua struttura prima del bìos, rappresenta, detto en passant, anche la risposta di Žižek ad altre proposte teoriche di critica dello stato di cose esistente, come la prospettiva biopolitica oggi tanto in voga.
Cosa vuole l’Europa? è un libro di analisi e di domanda. Quanto alla pars construens, va detto che la ricetta per evadere dall’impasse può suonare, a una prima lettura, un po’ ingenua: «spetta ai popoli, ai lavoratori europei, ai movimenti degli “indignati” imprimere il loro marchio al corso della storia, e impedire il saccheggio e la distruzione su larga scala» (p. 11). Come? Risposta: «ripristinando l’egemonia dei principi etici politici e sociali, contro la logica del profitto. Come ci arriveremo? Grazie alla dinamica delle lotte sociali» (ibid.). Il concetto di lotta etico-sociale vorrebbe essere, mi pare, una rimodulazione di quello marxista di lotta di classe (che, come noto, non gode di buona salute in epoca postfordista). A tal fine, si deve far leva sull’ipotesi di una riattivazione del cittadino europeo, ottenibile rompendo «le catene della passività sociale sulle quali si è fondata la costruzione europea dopo il 1989» (p. 11).
Ci si crede attivi, e, al contrario, ci si scopre agiti da una passivizzazione latente ma inesorabile, che riguarda, per quanto detto, il livello materiale dei corpi (individuali e politico-sociali), il tempo e il senso. D’altra parte, tutti noi viviamo – sostiene Žižek, glossando Alain Badiou – in uno spazio sociale cui corrisponde un’esperienza che è senza mondo e in cui il senso è sempre più rarefatto e i significati simbolici eternamente differiti, spostati, de-localizzati (come lo sono anche, del resto, gli apparati materiali produttivi). Ma «in un simile spazio, la sola forma di protesta che può aver luogo è una violenza priva di senso» (p. 102).
Il maggiore pericolo con cui il pensiero critico radicale deve misurarsi resta, cioè, la forma stessa del capitalismo. Esso è dotato di una capacità di adattamento plastico a qualsiasi spazio storico e sociale: «anche se in virtù del suo essere globale abbraccia il mondo intero, [il capitalismo] sostiene una costellazione ideologica “senza mondo” al cui interno le persone sono private della possibilità di localizzare il significato» (ibid.). In questo senso, quanto sostenuto su temi quali Cipro, Grecia, bancarotta, speculazione, assume una portata globale, e, in ogni caso, riguarda molto da vicino anche altre realtà regionali.
Fra cui, forse, l’Italia: «ricordiamo la classica scena da cartone animato – scrive Žižek – in cui un gatto continua a camminare sul bordo del precipizio, ignorando di non avere più la terra sotto i piedi: precipita solo quando guarda giù e si accorge di essere sospeso nel baratro. Non è lo stesso modo in cui possono sentirsi oggi i ciprioti? Sono consapevoli che Cipro non sarà più la stessa, che c’è una caduta catastrofica degli standard di vita, ma il pieno impatto di questa caduta non è ancora interamente sentito, così per un breve periodo possono permettersi di andare avanti con la loro normale quotidianità come il gatto che cammina tranquillamente nel vuoto» (pp. 16-17).
Siamo forse anche noi come il gatto dei cartoni animati, cioè come qualcuno che cammina sospeso nel vuoto di una speculazione a termine?