Un grande film di Hu Bo / L'infelicità regna in Cina
Qualcuno cita su facebook un film di Hu Bo, pseudonimo di Hu Qiao, me l’ero perso. An elephant sitting still è di quattro anni fa, bello, ci trovo una Cina allo sbando. Un ragazzo e l’impossibilità di vivere in famiglia con un padre pessimo, al capo opposto un anziano che il genero vuole portare in una residenza assistita: vendendo la sua casa ne compreranno una più piccola in un quartiere emergente, la nipotina andrà a una scuola prestigiosa. Sullo sfondo una Cina in costruzione e decostruzione, o in manutenzione endemica, tra calcinacci, grattacieli e ascensori pericolosamente in degrado. Quando il ragazzo se ne va di casa viene attaccato da un bullo a scuola, e si viene a sapere che la scuola chiuderà: finirete a vendere frutta e verdura per strada, profetizza il direttore. Avanza glaciale, disperato più degli altri, il devastato capo banda, la tragedia di un amico è causa sua, e siamo solo agli inizi di un film straordinario di tre ore e quarantaquattro che dalle nostre parti sarebbe stato una miniserie, tanti personaggi che si alternano e quelli che vengono abbandonati già ci mancano, e sappiamo che finiranno per incrociarsi, dal trentesimo piano si butta l’uomo che trova la moglie a letto con un amico, predomina il grigio del calcestruzzo, un inverno sporco, uno scenario edilizio, è chiaro che si lotta per emergere, per passare da una condizione proletaria a quella di ceto medio, ma soprattutto è chiaro che tutti sono sommamente infelici: una merda, il mondo in Cina.
Chi lavora al computer a pochi metri da me occhieggia, e dice la parola giusta: che mestizia. Aggiunge: molto cinema dell’est è così, per est intende quello europeo e penso subito che anche lì al comunismo ha fatto seguito un capitalismo sregolato: perché se è vero che lo Stato e il Partito hanno lo scettro del comando in Cina, è altrettanto chiaro che le persone sono abbandonate a se stesse: cavoli vostri, dice il sistema, facendo eco alla massima di Deng Tsiao Ping che diede il via al turbocapitalismo cinese: “Arricchirsi è glorioso”. Non riuscirci, o non farlo compiutamente, fa proprio schifo, parola ripetuta dai nostri eroi: “Voglio che tu sappia che la quotidianità è sempre rimasta la stessa, in qualunque periodo della vita.” E: “La mia vita è orribile,” dice la figlia alla madre, la cui risposta non lascia scampo: “È sempre stato così.” Allo spettatore può dar fastidio l’ennesima riproposizione del dolore di vivere, senza speranza, l’abbiamo vista in tutte le salse l’orgogliosa affermazione di una capacità di sopportare la sofferenza, di masticare amaro. Vedo fastidio in un paio di recensioni dopo il successo del film alla Berlinale, premio FIPRESCI e Menzione Speciale per l’opera prima. Accolto, si dice, bene dal pubblico, e ora riproposto in modo entusiastico dai cinefili italiani di FilmTV.
Il film rimette in movimento il mio interesse per la Cina, mi ricorda dove situarlo. Certo, anche ipertecnologia, sviluppo, riduzione della povertà, metropoli scintillanti. Ma la vita nelle città industriali è dura, il ceto medio che viene a galla è una fascia ristretta della popolazione, e del resto la cifra del ceto medio è proprio l’instabilità, la spinta verso l’alto, la frustrazione, e il terrore di farsi risucchiare in basso. Agli amici ho ripetuto allo sfinimento come la Cina mi ricordi l’Italia degli anni sessanta, lo smog, le cinture industriali, il boom economico. Anni di libertà, che si appaiava a nuove forme di comunicazione, musica nuova, cinema indipendente, un costume ribelle e tanto movimento operaio a percorrere le strade delle nostre città, tutta roba che alla Cina è se non negata quantomeno depotenziata dalla dittatura e dalla censura: anche da qui parte la frustrazione, lo scoramento, la disperazione dei personaggi di Hu Bo? La sensazione dell’inutilità di ogni movimento, del tentativo di cambiare il corso della propria esistenza, la noia, la mestizia appunto: fu esperienza comune a ogni paese a economia di stato, lo è qui dove vanno a braccetto lo stato e il mercato, dove il sogno di autorealizzazione degli anni ottanta e novanta ha lasciato spazio all’euforia di alcuni e alla delusione di tanti, proprio quando ai nostri occhi occidentali si apparecchia la novità della Cina in crescita: a me interessa sia la scintillante e alta che la popolare, in difficoltà e in lotta.
Ci siamo abituati a registrare la frattura nelle società di ogni dove, i ricchi e i poveri: a quel che vedo e leggo in Cina si sta formando un universo dove in alto, o in mezzo, ci sono i consumatori di tecnologie e gadget vari e in basso i disperati, gli infelici anche per eredità famigliare, seppur dentro a un miglioramento della condizione materiale: non sono questi ultimi che attirano l’attenzione del nostro show informativo, che preferisce il nuovo, l’ardito, la vittoriosa lotta contro la pandemia, i grattacieli e l’onnipresenza della rete, la Cina sulla luna. Certo è fascino la grande trasformazione, per noi che osserviamo venuti da fuori e per loro che si vedono modificare l’esistenza da forze potenti e il mondo attorno a loro pure si trasforma. Fatto è che la faccia nascosta della luna cinese contraddice tutta la retorica della società confuciana armoniosa, le persone che rispettano l’autorità, e il potere illuminato, regolatore buono, retorica che a mio parere è una balla colossale: serve il regime, giustifica la dittatura. Contraddice anche la retorica della Cina spinta verso il futuro, ne ho appena visto una fotografia scattata da un’amica, le luci nel cielo con i droni che disegnano un QR nella notte di Shanghai, nello scenario dei grattacieli colorati: il destino luminoso della Cina. Balle di fra’ Giulio, assai.
La prima cosa che faccio dopo aver visto An elephant è riprendere i contatti su wechat, il social olistico, totale, privato ma regolato dall’alto, dove i cinesi oltre che comunicare comprano, pagano, trovano servizi e cittadinanza. Io mi limito a far domande su Hu Bo, e il più pronto a rispondere è il mio amico A Yi, grande scrittore di racconti e novelle, di cui con Metropoli d’Asia pubblicai E adesso? Lui partiva da un fatto di cronaca, un ragazzo che uccide una coetanea senza motivo alcuno, e ne raccontava la fuga come fosse l’obbiettivo dell’assassino: farsi cercare. E farsi trovare, al punto che la stupidità dei poliziotti lo indispettisce, è costretto ad aiutarli per farsi prendere. A Yi ha scritto un bel mazzo di grandi racconti, alcuni tradotti in italiano da riviste, e meriterebbe un editore di prima fascia: siamo sulla lunghezza d’onda del film di Hu Bo, senza però la mestizia, solo noia e ferocia massima in A Yi. Ferocia è parola chiave di un bel po’ di narrativa cinese degli ultimi vent’anni, la si ritrova anche nei grandi nomi, Mo Yan su tutti. Nel mio immaginario di una Cina che non so conoscere e frequentare – una Cina di strati sociali bassi che vedo sfocata perché non parlo la lingua – c’è lo sfrangiamento, la lotta di tutti contro tutti, insomma questa narrativa la cerco e l’apprezzo. Sono le atmosfere dei racconti di un altro grande amico, Zhu Wen, che però se la ride assai, virando su un teatro dell’assurdo: e lì sembran tutti felici, solo perché beoti. Lo stesso Hu Bo – Hu Qiao – ha pubblicato solo un altro romanzo oltre a The big crack da cui nasce il film, e invece una sfilza di novelle e racconti brevi, come accade a tanti autori asiatici.
Il racconto breve consente, direi, di evitare una trama complessa: mi ci trovo a mio agio, e del film di Hu Bo mi piace tutto prima della sua oretta finale, quando le vicende varie dei molti protagonisti devono, ahimè, trovare una chiusura: deve Hu Bo comporre una trama, e quindi uno svolgimento della trama, a me delle trame non mi frega niente, le ho studiate a scuola le trame, ce le hanno regalate gli antichi e i meno antichi, e non ditemi che adesso possiamo noi inventare trame differenti, possiamo solo scopiazzare e farne mercato, prodotti vendibili: io voglio i personaggi, santa pazienza, e amo di An elephant sitting still i loro volti così vicini le loro spalle, le loro azioni, i loro dialoghi, come amai l’Elephant di Gus Van Sant, anche lui a pedinare di spalle i personaggi di una vicenda brutta, film che a sua volta prese il titolo da un lavoro di Alan Clarke che alcuni affermano si riferisse, guarda un po’, a un proverbio cinese, cinque uomini ciechi e ciascuno tocca una parte dello stesso elefante. Ma ‘l’elefante nella stanza’ è evidente in tutti e tre i film: in quello di Hu Bo è la Cina di oggi. Hu Bo mi ricorda le geometrie relazionali di Don Winslow, l’ineluttabilità delle scelte successive a un primo atto di violenza, la ferocia inevitabile, che si riproduce a catena. Cito un autore americano e me ne viene in mente un altro, Elmore Leonard, per la forza e essenzialità dei dialoghi. Mica male parlar di Cina e tornare all’America: un bel pezzo di Cina, mi rendo conto, non si discosta poi tanto dagli Stati Uniti delle periferie e dei disastri sociali. (La messa in scena del dolore è universale, certo. A me serve, mi incolla al video non per qualche strana forma di perversione: mi affascina perché è verità, e la verità è terreno solido su cui poggiare i piedi, è alla fin fine per me serenità: porta quiete).
Chiuderei l’articolo qui, ma una freccia improvvisa mi attraversa il cervello: non ho ancora detto una cosa. Ineludibile. Devo scrivere che Hu Bo si è suicidato a ventinove anni, prima che il film fosse premiato a Berlino. Mi hanno suggerito di contattare un paio di persone che ‘ne sanno di più’. Non è questo che mi interessa, non lo faccio.
Poi con gli amici è partita una piccola sarabanda su wechat, ho letto recensioni interessanti dei romanzi e racconti di Hu Qiao / Hu Bo, e naturalmente mi han dato gran retta gli editori: non pubblicherò Hu Qiao, non ce la faccio, il piccolo editore italiano vende poche centinaia di copie e molla il colpo. Ma i grandi come fanno? Loro stessi mi danno cifre di vendita risibili, anche approfittando dei soldini cinesi per pagarsi le traduzioni poi vendono poco e male. Non sarebbe meglio farne meno, di cinesi, e tradurre Hu Qiao? Almeno parlarne, farne parlare. L’altra faccia della Cina.