Raccontare ai tempi del 2.0. Curation services e nuove forme del giornalismo in Rete
Nell’era dei social network il giornalismo ha subito alcune rilevanti variazioni, destinate ad avere sempre più largo corso nel nostro futuro. Sarà questo il tema del mio intervento, in cui cercherò in particolare di tracciare il percorso che ha portato all’emergere dei curation services: piattaforme che permettono di selezionare, aggregare e presentare in forme narrative articolate le notizie che provengono dalla Rete e dai social network.
Su Wikipedia c’è una pagina, dedicata a Andy Carvin, in cui si ricorda come questo senior product manager for online communities della NPR (prima nota come National Public Radio, una sorta di “servizio pubblico” radiofonico americano) sia diventato un’agenzia stampa 2.0 su Twitter (ed ora che “2.0” l’ho scritto possiamo passare alle cose serie). Carvin ha seguito sin dalla fine del 2010 su Twitterle rivolte nordafricane, sviluppando un largo seguito e usando al meglio i suoi precedenti contatti per fornire un importante servizio in tempo reale di informazione e verifica delle numerosissime notizie, prima di tutto in forma di tweet, che provenivano da quei paesi.
Illustri testate, tra i media tradizionali e quelli on line, hanno dedicato interviste e profili a Carvin, che, insieme ad altri e forse meglio di tutti, ha contribuito a creare un nuovo “genere letterario” o, quantomeno, ha posto le basi per l’ennesimo ordine professionale: il giornalismo partecipativo su e attraverso Twitter (e, al momento in misura molto minore, Facebook).
Non esiste un vero nome per la professione di Carvin - curatore di Tweet? Aggregatore di news da social-media? Giornalista interattivo digitale? - forse perché questa forma di reportage è appena stata inventata. Da Carvin, tra gli altri. “Lo vedo come un’altra forma di giornalismo” dice Carvin, “e quindi io sono un’altra forma di giornalista” (Washington Post). “Alcune persone hanno chiamato questo tipo di reportage curation, come se fosse qualcosa di completamente nuovo” scrive Carvin in una e-mail, “beh, Twitter può essere relativamente nuovo, ma la nozione di collezionare, analizzare e disseminare informazioni rilevanti non è affatto nuova” (New York Times).
C’è o non c’è una definizione precisa per questa cosa che fa il giornalista della NPR? Ed è una pratica radicalmente “altra” o solo un aggiornamento tecnologico?
Per dirla molto rozzamente, Petruccelli della Gattina scriveva i suoi articoli a mano, Montanelli con la Lettera 22, Gian Antonio Stella usa (probabilmente) Word, Luca Sofri blogga, Carvin twitta, e sempre giornalismo è... Buono o cattivo, non dipende dal “mezzo”. E, se proprio vogliamo trovare un nuovo nome, curation risulta più gentile e pure più espressivo di social-media news aggregator e simili. Curation significa “prendere la notizia da dove viene, verificarla e propagarla”, e sempre giornalismo è...
Non ritengo molto produttivo discutere in principio quanto vi sia di “progressivo aggiornamento” e quanto di “salto qualitativo”. So però che anche in Italia si fa questo nuovo vecchio giornalismo, con più o meno convinzione, e con risultati più o meno felici. Ad esempio, su Twitter @00doppiozeroe altri hanno dato il loro contributo per diffondere informazioni e materiali sui referendum. @Wu_Ming_Foundt e altri hanno sudato a gennaio con la vicenda Speranzon Donazzan Preganziol (per gli amici #rogodilibri), anche con iniziative che si sarebbero chiamate (e si chiamano ancora) di controinformazione. @tigellaè una piccola Carvin italiana, e quando non è impegnata con le rivolte arabe, si mette in moto per Milano e tira su il trending topic(mitologica figura twitteriana della “risonanza”) #sucate, con conseguenze non piccole.
La cosa più divertente, da noi, è vedere come nelle giornate seguenti, sui quotidiani (di carta e anche on line) e alla televisione, queste “notizie” vengano riprese in servizi irresistibilmente comici, che parlano del misteriosissimo “popolo di Facebook” come se fossero i Cimmeri e, più gravemente, come se tutti fossimo a giocare a FarmVille, raccogliendo notizie al posto di carote.
Ma a dire il vero una connotazione (usando il termine proprio in senso tecnico) italiana sempre più chiara della curation e del giornalismo partecipativo sui social media c’è, ed è il gioco, declinato in beffa, irrisione, sberleffo.
Ironia e parodia. Umberto Eco a metà anni Settanta spiegava (vado a memoria e mi si perdonino le inesattezze) come per la prima volta nella storia si potessero fare dei cortei studenteschi dove si gridava “gli studenti sono delinquenti” e usare il rovesciamento come modalità addirittura principale di comunicazione. Guardate ora il movimento dei referendum, con tutta la passione impegno e creatività profusi per informare e incitare al voto. È un rovesciamento scatenato: i video su YouTube contengono quasi sempre il messaggio letterale Non andate a votare, da Caterina a Corrado Guzzanti, dai tanti altri nomi famosi ai mille bravi videoattivisti dal basso. E l’ironia non è neppure dichiarata in coda, la strizzata d'occhio non c’è o è molto nascosta.
Un’interpretazione degna di discussione, se non direttamente plausibile, di questa situazione pare articolabile in tre punti: primo, sui social network l’informazione circola in forma così pervasiva che si può persino comunicare normalmente al livello non letterale dell’ironia; secondo, questo uso dell’ironia è una denuncia o meglio una rivolta contro l’ormai intollerabile opera di disinformazione attiva condotta da quasi tutti i TG Rai e Mediaset, e non solo per i referendum; infine, questo movimento è, più largamente, niente meno che una rivolta contro una “cultura della menzogna” sentita da molti italiani come predominante nel nostro Paese, oggi.
Non a caso l’operazione che in inglese si chiama debunking, “svelare l'inganno”, considerata terreno preferenziale dell’intelligenza collettiva sui social media (vedremo dopo Andy Carvin sulla “blogger Amina”), da noi è un poco meno favorita, in quanto si dà per scontato che il pubblico su Twitter sappia che “Tg1e compagnia” non offrono né un servizio pubblico ne quell’informazione imparziale a cui sarebbero tenuti e che, nonostante ogni falsità smontata, continueranno a farlo.
Si preferisce quindi pigiare il piede sull’acceleratore parodico, perché, purtroppo, non ci si aspetta più nulla da alcuni canali tradizionali molto influenti di informazione. Si veda invece, a conferma per contrasto, l’importanza che dà al social web una voce tradizionale ma “nuova e diversa” come Il Fatto Quotidiano, non solo per necessario marketing ma anche per “legittimazione morale”.
Ritorniamo alla situazione generale della curation, cercando ora un ponte tra il flusso ininterrotto di notizie su Twitter e una storia giornalistica tradizionale. È naturalmente possibile riutilizzare forme di comunicazione già esistenti, ad esempio gli articoli-riassunti su Repubblica per le burle di #sucate del giorno prima.
Più felicemente, Wu Ming riporta sul suo blog Giapil “movimento” che si genera da Twitter e compie pure il percorso inverso, dalla comunità del blog a Twitter, creando quello che, a mia conoscenza, è un unicum nella nostra Internet (sulla qualità dei contributi sono ovviamente possibili le opinioni più diverse, qui si documenta una modalità inedita di informazione).
Tigella, gentile fanciulla e furibonda eco-social-tecno-curiosa, pubblica quotidianamente da fonti aggregate su Twitter, con l’applicazione web paper.li, dei giornali automatici dedicati a Libiae Tunisia. Ha creato una rassegna stampa “di nuova generazione” per il referendum (#chinonvota) con scoop.it, e raccontato una storia milanese(il “caso Red Ronnie”) con Storify.
Anche questa è opera di curation, ma al livello di “consolidamento” dello stream informativo, o in forma di storia sequenziale tradizionale, seppur per tanti aspetti innovativa, con Storify, o in forma di catalogo delle fonti ipervitaminizzato con scoop.it, o in giornale “robotico” con paper.li (per chi è interessato a una disamina più approfondita e a una guida al facile uso di queste applicazioni mi permetto di segnalare alcuni post dal mio blog).
Sarà opportuno, in altra occasione, indagare più a fondo questo rapporto tra flusso ininterrotto e storia consolidata, con tutte le tensioni e le sovrapposizioni, e soprattutto vedere come la scelta antologica e il montaggio siano attività giornalistiche venerande che acquistano ancora più importanza con i nuovi strumenti.
Simbolicamente, possiamo descrivere la situazione con Andy Carvin, protagonista del debunking del caso Aminasu Twitter, che prima scrive di non avere “the stamina” per uno storify della vicenda, poi si decide all’opera e subito disperato confessa
“Creating a storify for #Amina is going to take a long, long time. :-( ” , (Carvin intende qui i numerossimi contributi al caso, “categorizzati” e ricercabili appunto tramite l’hashtag #Amina). Con grande fatica, ovviamente documentata su Twitter, produce infine l’importante storify monstre The Gay Girl In Damascus That Wasn’t, ovvero una narrazione sequenziale per una vicenda collettivamente discussa e vissuta su Twitter. Vicenda che ha ormai un inizio e una fine molto “ben fatti"” (proprio nel senso del romanzo ben fatto) e richiede il racconto giornalistico compiuto, attraverso una particolare variazione del “testo fatto di sole citazioni”.
Ora lasciamo stare, per carità, la possibile mise en abyme di uno storify sullo storify di Carvin su Amina, che sarebbe comunque più interessante dei servizi giornalistici e televisivi su Feltri che torna a Il Giornale, e concludiamo solo con un’indicazione di dimensioni per chi (anche nella prospettiva vituperata del futuro ordine professionale) si volesse dare a questo “secondo livello” del nuovo modo di raccontare, fare giornalismo e “vivere le notizie”. Carvin ha quasi 50mila follower su Twitter e solo 77 seguaci su Storify.
In Italia queste nuove applicazioni e pratiche sono ancora quasi sconosciute e comunque pochissimo utilizzate; gli spazi sono disponibili e la sperimentazione è al momento libera. Tra qualche mese arriveranno probabilmente il Corriere e Repubblica (che, a onor del vero, ha dedicato un pezzo ben documentato a Storify, ma con lo stesso taglio di un articolo scientifico sulla possibilità di universi alternativi) e tra un anno e 9 mesi un servizio del Tg1, con un inviato cotonato ripreso di sghembo che parla tutto entusiasta e ovviamente senza cognizione di causa del misterioso “popolo della curation”, i nuovi Iperborei. E i “curatori” italiani dovranno spiegare, proprio come Carvin a inizio 2011, che il loro lavoro sempre giornalismo è, e che l’innovazione tecnologica e la pratica “social” modificano, ma non cancellano, i legami con la tradizione ed il mestiere.