Purtroppo ti amo. La fotografia si dichiara al suo territorio
L’intima convivenza che porta spesso la fotografia e il territorio a incontrarsi è un concetto tutt’altro che banale, come potrebbe invece apparire d’acchito. La rappresentazione del luogo che ci circonda, che con lo sguardo circondiamo, è una dichiarazione affettiva che ha riempito tele pittoriche fin dagli albori dell’arte del pennello e della tavolozza e può sembrare – perché di fatto è – naturale che la fotografia abbia calcato le stesse strade. E, pure, ri-calcandole, guardandole nuovamente, riscrivendone le tracce.
La fotografia di paesaggio è infatti, spesso e facendo di ciò la propria peculiarità, fotografia di passaggio. La dimensione temporale che essa abita è quella dello sguardo/occhiata e non tanto quella dello sguardo/contemplazione (decisiva la differenza tra i termini inglesi glance e gaze, proposta dal filosofo americano Edward S. Casey in The world at a glance, differenza che le traduzioni rispettivamente di “occhiata” e “sguardo” non rendono così efficacemente). E non per questo, la fotografia diventa meno capace di contemplare o, tantomeno, di assorbire e mostrare. È forse più efficace, per spiegare quale temporalità sfuggevole e nondimeno gravida di senso, dire che la fotografia di paesaggio appare sempre pronta a farsi stupire. È una prontezza che richiede discrezione, che racconta dell’attraversamento dello spazio rimanendo in silenzio.
«Le fotografie di Pacini sono calibrate e discrete nel loro messaggio, non chiassoso né retorico, quasi silenzioso anzi, di un silenzio che sa farsi strada nelle menti»
Le parole di Elio Grazioli sono dedicate a Federico Pacini, sul libro che il fotografo senese dedica proprio alla sua città: Purtroppo ti amo (Editrice Quinlan, Castel Maggiore 2013) è qualcosa che spesso sentiamo di potere – o magari di dovere – confessare, qualcosa che appartiene al dominio dell’appartenenza, e in particolare all’appartenenza a una comunità, a un luogo. Quell'intimità che avvertiamo intessersi, naturale, tra le nostre membra e il nostro habitat è una trama che il ventre riconosce con calore prima che la testa abbia avuto il tempo di dirsene diversa, altra, distante: percepiamo l’appartenenza prima ancora di riuscire, come capita di frequente, a rifiutarla. Questo legame è un continuo ritorno, un ripetitivo scattare, all’indietro, e ci tace; ma ci spalanca gli occhi. Ecco cosa mostra e cosa è l’operazione di Pacini, la permanenza di quel purtroppo che pure non offusca la potenza della presa di coscienza, del ti amo.
La fotografia del territorio è un fenomeno che sa cogliere straordinariamente questa sottile e acre maniera di stare al (proprio) mondo. Quello di Pacini è notevole esempio di un’analisi estetica che non può che terminare per essere politica; l’occhio fotografico un profondo scandaglio; la convivenza studiata scientificamente dalla prospettiva del suo spazio, vale a dire, del suo tempo.
Federico Pacini, Purtroppo ti amo, 2013
Ennesima conferma che non vi sia estetica che non sia anche politica o, per meglio stabilire la direzione che sembra seguire il pensiero, che non possa esistere riflessione politica che ignori il senso estetico, Purtroppo ti amo induce ad allargare lo spettro analitico sul momento che la fotografia sta vivendo in Italia. Esistono diverse realtà che a questo intento si stanno dedicando, tra le quali segnaliamo almeno Documentary Platform, LAB – Laboratorio di Fotografia di Architettura e Paesaggio e Osservatorio Fotografico.
Quest’ultimo è un laboratorio permanente di ricerca sulla fotografia, che nasce dall’incontro di due esperienze, quella di Silvia Loddo, storica dell’arte che si è concentrata sulla fotografia, e quella di Cesare Fabbri, che ha scelto la fotografia dopo studi di urbanistica. L’Osservatorio non vuole essere un collettivo o un’agenzia, ma un sostegno ai progetti di ricerca sulla fotografia e un interlocutore con istituzioni del Comune di Ravenna (la cui risposta è sia economica che di dialettica culturale) e con il corso di laurea i Beni Culturali dell’Università di Bologna-Ravenna. Le due linee di lavoro che il laboratorio persegue sono quella pratica, che coinvolge, sia ravennati che di altre regioni e nazioni, e quella teorica, con un corso universitario di Storia della Fotografia, tenuto da Luigi Tomassini. È proprio Silvia Loddo che afferma:
Per noi, che abbiamo scelto di lavorare in un contesto locale, con tutti i pregi e i difetti della provincia, il vero obiettivo è l'attenzione del territorio per la fotografia, per noi molto più urgente dell'attenzione della fotografia per il territorio. Lavorare sul territorio non significa quindi necessariamente descriverlo con la fotografia, ma viverci e abitarlo, partire dal fatto che siamo qui, e creare attraverso le nostre esperienze relazioni con la città.
Alessandro Imbriaco, Tommaso Bonaventura, Via Salieri, Buccinasco, da Corpi di reato, 2012
Non si tratta di esprimere il contesto affettivo dell’identità attraverso la narrazione del luogo ma, piuttosto, di rimettere in movimento la relazione in uno spazio dove, in effetti, l’identità con il paesaggio è smarrita, prezzo di una perdita originaria che la fotografia italiana vedeva e sentiva già dagli anni Settanta. Nel saggio introduttivo del libro da lei curato a proposito di quella che chiama “Fotografia dei luoghi”,[1] Roberta Valtorta afferma, a proposito delle produzioni dei decenni Sessanta-Settanta e in parte Ottanta, che «la fotografia italiana percorre dunque ancora una volta il tema della bellezza, applicato però alla precarietà di un paesaggio perduto, irrimediabilmente fuori controllo, fatto di rimasugli di storia […] e di frammenti di contemporaneità, un paesaggio che appare “debole”».
In questo solco si colloca, con proiezione odierna, la produzione realizzata da Giorgio Falco e Sabrina Ragucci.[2] Il racconto della riviera romagnola, tra seconde case disabitate laddove – di nuovo – il silenzio ha istituito il proprio reame, riavvolge il presente sul passato dei ricordi e, insieme, trascina questi sull’oggi e il domani; il tempo di questo luogo, il Condominio Oltremare, che un tempo sembra non averlo affatto – e che forse, in definitiva, non è più un luogo, non lo è mai stato, è stato solo l’idea di un’eterotopia, di una fuga – è il tempo che da ogni direzione e dimensione si riavvolge, su un nucleo dove si ricostruisce, su una fotografia che lo ri-mostra. Le immagini di Sabrina Ragucci sono tutt’altro che una semplice raffigurazione della narrazione, innalzando invece il coro senza cui la tragedia a tutti gli effetti non esisterebbe; nelle fotografie e con le fotografie il racconto testuale trova il proprio intessersi, un montaggio che nel replicarsi esalta la differenza, proprio perché il tempo della ripetizione è l’opposto dell’identità sterile ma è, piuttosto, qualcosa di simile al remontage du temps subi che Didi-Huberman associa all’Occhio della Storia.[3]
Una sofferenza, forse una rabbia sorda e muta, avvolge e sommerge il contesto della denuncia, semmai ce ne sia uno. Nel ricordo, siamo al confessionale insieme agli autori, radicalmente esposti e, per questo, sia desiderosi che timorosi di essere guardati, di essere toccati, in una parola: compassionevoli. Questa intimità politica sembra sia il veicolo che il messaggio della fotografia di paesaggio di questi anni: c’è un’urgenza feroce di raccontare la propria terra, la propria provenienza e la propria destinazione, ma anche l’istinto della discrezione, del silenzio, quasi di un cordoglio da comunicare con lo sguardo, perché le parole sarebbero solo di circostanza.
Il luogo è scomparso senza eliminarsi, forse si è svuotato, e allora la definizione di “fotografia dei luoghi” di Valtorta si tramuta in quella di fotografia dei non-luoghi, nell’accezione che ne dà Marc Augé. L’occhio del fotografo va in cerca di un particolare che sia di riconoscimento, di una peculiare appartenenza che, nell’anonimato del territorio, pure lo distingua all’occhio di chi lo abita e lo dica suo. Questo desiderio, che orientava il lavoro di Luigi Ghirri, è il nucleo vibrante della mostra esposta nell’autunno 2014 alla Triennale di Milano, dal titolo eloquente dell’omonimo libro del suo ideatore, Franco Guerzoni: Nessun luogo, da nessuna parte – Viaggi randagi con Luigi Ghirri è il racconto fotografico dell’amicizia dei due protagonisti e, inevitabilmente, del territorio che ne era teatro e, insieme, controcanto. Molti degli scatti raccolti sono dedicati a muri scrostati, a rovine, impalcature abbandonate e hanno il sapore dell’archetipo di una corrente che, oggi, comunica ancora con forza il suo messaggio e porta molti fotografi a cercare e invadere (spesso anche abusivamente) vecchie fabbriche smantellate, terreni disastrati, cadaveri di luoghi che esercitano un magnetismo a suo modo unico sull’occhio fotografico.
Sabrina Ragucci, Condominio Oltremare, 2013
In un genere a proposito del quale diventa impossibile non citare, prima o dopo, le tracce pionieristiche segnate dai lavori di maestri quali (oltre a Ghirri) Gabriele Basilico, Mimmo Jodice, Guido Guidi (solo per nominarne un esiguo numero), la produzione continua a svilupparsi, i crinali e i versanti a moltiplicarsi e il panorama che ne viene tratteggiato è oggi quantomai vitale e prezioso. Alcuni lavori mi colpiscono in particolare:
Before Expo 2015 di Sergio Chiaramonte ritrae i cantieri preparatori dell’evento dell’anno durante i mesi precedenti, scegliendo la notte quale soglia temporale e scenografia, poiché la tenebra «libera il significato di “cantiere” dall’orizzonte pratico» e lascia spazio allo spazio stesso, al vagare dell’occhio, allo stupore dello sguardo/occhiata.
Karim El Maktafi, autore dell’Istituto Italiano di Fotografia, ha esposto, tra febbraio e marzo 2015, il suo Italian holidays, mostrando come si popolano i paesaggi estivi durante le ferie, il modo in cui “una quiete soffocante isola lo sguardo”, il territorio si anima di eccessivo animarsi, o dell’intenzione già disattesa di animarlo.
Federico Covre nel 2010 ha realizzato qualcosa che, fin dal titolo, ci riporta a chiudere il cerchio che avevamo aperto con la dichiarazione d’amore di Pacini: Dovresti esserci. La vita qui è come l’abbiamo sempre sognata è la destinazione della confessione di appartenenza, il Purtroppo qui è nascosto, taciuto, apparentemente scomparso ma destinato a tornare sulla superficie delle immagini. Nelle parole dell’autore stesso, «il paesaggio è la rappresentazione di noi stessi, la traccia dei nostri ricordi, il riconoscimento delle nostre attenzioni e immaginazioni. Descrive il nostro mondo interiore ed è parte integrante della nostra identità. È lo spazio sociale in cui esercitiamo l’esperienza» ed è fondamentale esercitarne lo studio fotografico non per una forma moralista di condanna o, tantomeno, per un’estetica apologetica quanto, piuttosto, «per attivare una forma di lettura in grado di assimilare i cambiamenti della città a noi contemporanea».
Vorrei chiudere segnalando un’ulteriore iniziativa che testimonia l’attenzione vivida e attiva che lega la fotografia al paesaggio e al territorio, oltre che dimostrare una volta di più il tessuto in questo senso straordinariamente prolifico di cui si sono vestite la regione dell’Emilia Romagna e la città di Reggio Emilia, nello specifico. In collaborazione con la decima edizione di Fotografia Europea, il festival che trasforma annualmente Reggio Emilia in una vera e propria esposizione multiforme e in un laboratorio creativo, la Fondazione Fratelli Alinari presenta un workshop dal titolo Terra! La lettura fotografica del territorio. La tradizione documentaria Alinari, sotto la cura di Andrea Samaritani, si approccia quindi ai concetti chiave di cui questo genere, abbiamo visto, si alimenta da molti anni e con rinnovata spinta, portando la pratica fotografica in diverse località, all’incontro con i (non) luoghi.
Si moltiplicano, appare evidente a questa osservazione iniziale, le occasioni per la fotografia di stupirsi dei luoghi che i suoi occhi abitano, e occorre cogliere l’opportunità di seguire questo fenomeno negli infiniti e frammentari sentieri che se ne stanno sprigionando: questa produzione fotografica sta (continuando a) portare alla luce una certa Italia, sconosciuta alla parola, silente, ma anche per questo matrice di un’appartenenza più impossibile da ignorare, più piena di esistenza, più nostra.