Ho creato un incubo. Un caso studio di teoria letteraria applicata

9 Novembre 2011

“Ho creato un incubo”, lamentava il dottor Frankenstein sui ghiacciai di Chamonix, osservando la rivolta della sua creatura, “e morirò della sua mano.”

“Ho creato un incubo”, piangeva fra i fumi di crack il Bret Easton Ellis di Lunar Park, perseguitato dal protagonista di un suo romanzo precedente, “e morirò della sua mano.”

Anche io ho creato un incubo, mi sono reso conto l’altro ieri, leggendo Il Buon Inverno, il primo romanzo tradotto in Italia dello scrittore portoghese João Tordo – e della sua mano muoio. Questo testo – che è a metà strada fra l’autobiografia e la teoria letteraria, e si chiude con un sondaggio – è la storia del mio mostro di Frankenstein, che, curiosamente, è una classe narratologica nota come autofiction.

 

Una premessa teorica

 

L’autofiction è una categoria letteraria sviluppata negli anni settanta da Serge Doubrovsky, in polemica con la “morte dell’autore” sbandierata, negli anni precedenti, da una famosa e agguerrita coorte di pensatori capitanati – nella fama e nell’agguerritezza – da Roland Barthes. Poco rimane, in ciò che oggi chiamiamo autofiction, delle teorizzazioni originarie: il termine, genericamente, descrive quelle opere narrative in cui l’autore sfuma deliberatamente il confine fra invenzione e autobiografia, mescolando elementi veri della propria persona (inclusa come personaggio nell’opera) per instillare al lettore il dubbio, o il sospetto, che anche il resto lo sia.

Come rilevato, fra gli altri, da Giulio Ferroni, l’autofiction pare una strada molto promettente per la letteratura contemporanea: romanzi di Easton Ellis, Houellebecq, Moresco, Genna, Saviano, Bolaño e Siti possono tutti essere inclusi, a qualche titolo, nella categoria. Anche il mio ultimo romanzo potrebbe rientrarci. Ed è proprio scrivendolo, negli ultimi tre anni, che mi sono interessato all’argomento: giungendo persino a tenere un seminario a riguardo – a Milano, l’anno passato – e a pianificare un saggio sull’argomento che poi, ovviamente, non ho mai iniziato. La tesi che avrei sostenuto in esso è che proprio dall’ambiguità nello statuto di verità dell’opera derivava la potenza realista dell’autofiction: che invece di dire ai lettori “questo è vero, questo è immaginario”, instillava in loro il dubbio circa cosa fosse reale e cosa no. In un impeto di retorica (e citando una splendida prefazione di Giuseppe Berto), volevo intitolare il mio saggio “Il sospetto terribile”. Non avevo idea, allora, di quanto il termine fosse calzante.

 

Un po’ di autobiografia

 

Ho conosciuto João Tordo nel 2009, a Budapest. Eravamo stati entrambi invitati a rappresentare i nostri paesi a un festival europeo del primo romanzo: l’anno precedente era uscito il mio Ginnastica e rivoluzione. Ero lì con mia sorella Natalia; lui con un amico di lunga data, Diogo. Sin dal primo giorno abbiamo legato molto: e abbiamo passato quella vacanza ungherese sempre insieme, noi quattro, tirando tardi ogni notte, bevendo, parlando dei detective selvaggi, perdendoci per viottoli dai nomi impronunciabili pieni di turisti, di bar, di diacritici.

Al termine del convegno, giunto il momento delle abituali promesse, abitualmente disattese, di rivedersi, Natalia ed io abbiamo invitato João e Diogo a passare una settimana a casa nostra a Sabaudia, il mese successivo; è stata una vacanza molto piacevole. João è anche venuto a trovarmi a Berlino, quell’inverno. Poi abbiamo continuato a scriverci, sempre con affetto, ma senza mai riuscire a rivederci, perché avevamo da fare, perché non c’erano soldi, perché va così.

Comprensibilmente, mi ha un po’ stupito scoprire, il mese scorso, che quel suo secondo romanzo era stato tradotto in Italia. Mi aspettavo che me lo spedisse, o perlomeno che me ne desse notizia; immaginando, però, che gli impegni o la smemoratezza fossero alla base di questo silenzio non me la sono presa, e ne ho richiesta una copia all’editore. L’ho iniziato con molta curiosità.

 

Il buon inverno

 

Il buon inverno è la storia, narrata in prima persona, di uno scrittore portoghese che, in un periodo di depressione, accetta malvolentieri di partecipare a un convegno letterario europeo, a Budapest. Lì incontra un giovane italiano, di nome Vincenzo, autore di un romanzo intitolato L’ultima rivoluzione. È accompagnato dalla sua fidanzata Olivia; e i tre – insieme a un’agente letteraria, Nina - passano quella vacanza ungherese sempre insieme, tirando tardi ogni notte, bevendo, parlando di cinema, perdendosi per viottoli dai nomi impronunciabili pieni di turisti, di bar, di diacritici.

Al termine del convegno, giunto il momento delle abituali promesse, abitualmente disattese, di rivedersi, Vincenzo e Olivia invitano Nina e l’autore portoghese a passare una settimana a casa di un produttore cinematografico, a Sabaudia.

Questo è l’inizio del buon inverno. Il seguito, invece, è un romanzo dell’orrore, al cui centro è la figura – luciferina, ambigua, viziosa, egoista, traditrice, manipolatrice e arrogante – dello scrittore italiano, che si chiama come me, Vincenzo, e la cui descrizione fisica mi corrisponde in ogni dettaglio. Anche l’indirizzo della casa a Sabaudia è lo stesso. Anche il mestiere dei genitori. Anche la trama del mio primo romanzo.

 

La fine dell’inverno

 

Il buon inverno è un romanzo avvincente, retto da una trama psicologica inquieta e ben strutturata, con qualche forzatura ma tutto sommato plausibile. È incentrato sul mistero dell’uccisione del proprietario della casa di Sabaudia, il produttore cinematografico, trovato ucciso la prima sera di permanenza dei protagonisti. In seguito a tale evento, un suo amico e collaboratore, già mercenario e soldato, terrà in scacco tutti gli ospiti della villa sino a che non emergerà il colpevole, in un crescendo di violenze – fisiche e mentali – litigi, trame, ricatti, omicidi.

In parallelo a questa trama, si sviluppa in maniera abbastanza sottile un discorso di metafiction, retto dalle note che l’autore aggiunge al termine di ogni capitolo, ma anche dalle sue digressioni sulle motivazioni che ha per scrivere chi scrive. È, però, una metafiction dolente, problematica, in cui la riflessione sul perché e come si racconta non è accompagnata dal sorriso ironico e sornione di David Foster Wallace, quanto piuttosto dal picchiettare disperato dei passi in corsa del fuggiasco Pessoa.

Alla fine del romanzo, il colpevole (probabile) salta fuori. Si tratta, naturalmente, di Vincenzo; che, nella penultima scena, viene lasciato in balia del vendicatore, che già gli ha rotto naso, braccia e denti, dopo averlo frustato a lungo sulla schiena. Quando il narratore si allontana ode, come è ovvio, degli spari.

 

La finzione di sé

 

Io non so che cosa pensare del fatto che il protagonista negativo del romanzo di João sia così vicino a me – tanto che, nel parlarne, mi viene talvolta di riferirmi ad esso dicendo “io”. Che un’ispirazione ci sia è evidente – ma che conseguenze dovrei trarre da tale ispirazione? Che il romanzo è una parabola su come potrei finire? Che il romanzo sviluppa elementi della mia personalità che João ha intravisto, magari in nuce? Che il romanzo parte da una sovrapposizione di dettagli per poi proseguire su una strada tutta sua, che nulla ha a che fare con il “me” reale? Sì, ma in questo caso, perché dargli il mio nome?

Ne ho scritto a Jõao, che mi ha risposto, piuttosto piccato, che non c’entra niente, e che il romanzo e la realtà sono due cose diverse. Yeah, right – ma allora perché tutti questi dettagli? Mi ha anche scritto che non dovrei prendermela: nel libro che sta scrivendo il protagonista si chiama come lui, João Tordo, ed è un essere meschino e abbietto. Si tratterà, ovviamente, di un romanzo di autofiction.

Al di là del diverso statuto che ha ciò che un autore scrive di sé e ciò che scrive di un altro – questo problema, credo, è più legato all’etichetta che ad altro – sono colto dal dubbio su ciò che significa questa coincidenza romanzo/realtà. Metto da parte, perché non è qui che bisogna discuterne, questioni di opportunità: chiarezza fra amici, “sciacallaggio”, ecc.

La domanda che mi resta è: il fatto che il protagonista de Il buon inverno condivida tanti tratti con una persona reale cambia, in qualche maniera, il significato del libro? Ne fa qualcosa di simile a una “eterofiction”? Se sì, non posso non considerare intenzionale ciò che di “me” diventa nel romanzo: non posso non considerarlo come legato a ciò che sono nella realtà. Se no, le similitudini e sovrapposizioni ne risultano inutili, e quindi ne fanno in qualche modo un romanzo a chiave: ma girata la chiave, che porta si apre?

 

Il commiato

 

Vorrei girare questa domanda ai lettori di doppiozero – questa domanda che, da un certo punto di vista, è un caso studio di teoria letteraria applicata. Io non so bene che cosa pensarne, se offendermi, se ignorare il fatto. In parte mi auguro che questo quesito non porti nessuno a leggere il libro – per non diffondere una cattiva fama, per dir così. In parte, d’altro canto, lo auspico – si tratta pur sempre del romanzo di un mio amico. Chi volesse rispondere, e leggere il libro, vi scoprirà, incidentalmente, come raggiungere casa mia a Sabaudia. In caso ne abbia voglia, sarò felice di accoglierlo lì – dove passo, in genere, tutto il mese di giugno. Se non doveste trovarmi, superato il cancello e il vialetto, sedetevi pure in giardino, accomodatevi, non fatevi un cruccio della mia assenza. Con ogni probabilità sarò a poche decine di metri, nel bosco che cinge il Lago di Paola, con qualche cartuccia di fucile in petto. Lì dove mi hanno lasciato.

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