Pipilotti Rist. Sip my Ocean

15 Dicembre 2011

Prima delle immagini è l’audio malinconico e sensuale di Wicked Game di Chris Issak a raggiungere i nostri sensi nel buio dello spazio di proiezione. Pipilotti Rist ha imprigionato la sottolineata ondulazione sonora del suo refrain al percorso chiuso di un vinile inceppato nell’eterno ritorno di un’unica frase: I don’t want to fall in love, una formula magica che incatena a ciò che nega, capace di restituire al verbo inglese to fall la forza originaria dell’immagine che contiene, quel cadere, quello scivolare inesorabilmente all’interno di una diversa dimensione. La musica di Wicked Game aveva già accompagnato nel 1990 le immagini di David Lynch, del suo allucinato Wild at Heart, omaggio per iniziati alla fiaba del Mago di Oz. Nel ’96 l’artista svizzera identificatasi con Pippi Calzelunghe, un altro personaggio di racconti per l’infanzia, la sceglie come ossessiva colonna sonora del suo personale acquario Sip My Ocean, una doppia proiezione ad angolo, con cui amplifica la naturale capacità del video di divenire spazio, di espandersi oltre la parete, per forza di suono e di luce, nell’intera stanza.

 

 

A quella data la storia del video d’artista aveva già ampiamente raccontato l’affinità elettiva tra le immagini d’acqua e la natura liquida del flusso elettronico che regolava le registrazioni e le trasmissioni dell’epoca analogica. Bill Viola in questo aveva fatto scuola e molti altri della seconda generazione del video, come Bill Seaman, non erano stati da meno.

L’oceano di Pipilotti Rist, con i suoi colori saturi, i suoi giochi di chroma key e gli oggetti di consumo che si adagiano sul fondo di un mare da barriera corallina, si presentava come la versione pop dell’abat-jour acceso tuffato al rallentatore nel mare oscuro di Deserts che Viola aveva realizzato nel ’94 sulle più sofisticate musiche di Edgard Vàrese.

Viola però era già da tempo il paladino della formalizzazione chiusa dell’opera video. Fu il primo a consegnare le opere con un rigorosissimo manuale d’istruzioni capace di annullare l’arbitrarietà della presentazione: non solo le caratteristiche tecniche del proiettore, ma la regolazione dell’audio e della scala cromatica, la grandezza della proiezione e quella della stanza, con precise indicazioni sul colore di pareti e pavimento e molto altro.

 

 

Ciò che rende oggi interessante il lavoro di Pipilotti Rist è la sua scelta di andare nella direzione opposta, vero una continua rilettura dell’opera ad ogni sua nuova presentazione. Ne saggia la resistenza. Sollecita la sua natura onirica, irriducibile ai centimetri, indifferente alla moquette nera e agli schermi bianchi. La vuole volatile e onnipresente come un sogno che si proietta sul mondo, come un pensiero nato dalla memoria o dall’immaginario di un unico soggetto espanso. Sip My Ocean, riacceso in questi giorni nell’atrio al primo piano dello storico cinema Manzoni di Milano, è un’opera più forte oggi di allora, perché la Rist ha avuto il coraggio di proiettare il suo angolo di oceano non su due asettici schermi bianchi, ma sulle venature del marmo che arreda l’atrio. Ha sospinto la passata affinità del video con l’elemento liquido verso una nuova sensibilità che torna oggi a immaginare nel disegno naturale delle pietre figure fantastiche e poteri taumaturgici. Sovrappone il gioco di scomposte linee luminose che la superficie del mare proietta sul fondo con quello delle linee più scure del minerale. Non solo: rompe la perfetta simmetria alla Rorschach delle immagini che costituiva l’elemento formale primo dell’opera; sceglie di rendere illeggibile gran parte della proiezione di destra; usa un angolo non formato da due pareti, ma da una parete, una scala che si perde nel buio del piano superiore e un altro breve pezzo di parete, più in là nello spazio, sufficiente a far intuire che quanto avviene sullo schermo di sinistra, accade rovesciato su quello di destra. Un osservatore disposto a farsi incantare fino in fondo dalla languida formula magica di Chris Isaak potrebbe salire i gradini di quella scala verso il buio come un’attrice hollywoodiana si sarebbe immersa nell’oceano, verso il tramonto, negli ultimi fotogrammi di una pellicola degli anni ’60.

 

 

Con quest’opera così rivisitata, Rist in qualche modo chiude un cerchio: dopo le innumerevoli immagini cinematografiche nelle quali attori giocavano a offrire il proprio corpo come schermo per immagini proiettate, il video si appropria qui degli spazi del cinema, dei suoi arredi, dei suoi riti, della loro atmosfera per proiettare su di essa il proprio sogno, il suo immaginario personale e domestico. Così facendo mostra di riuscire a fare buchi, ad aprire bruciature verso dimensioni fantastiche nella solida realtà della casa del cinema quanto il calore della lampada dei vecchi proiettori apriva talvolta distruttivi squarci di realtà nelle pellicole di un tempo.

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