Periferica e Cinema Mattotti / Lorenzo Mattotti Underground
Curiosa la doppietta editoriale che Lorenzo Mattotti ci riserva in prossimità di Natale: Periferica e Cinema Mattotti, come dire: il Mattotti marginale e quello che ha sfondato, il Mattotti underground e il mainstream. Procediamo per gradi.
«Senza queste storie non avrei mai imparato cosa significa disegnare». Edito da Rizzoli Lizard, Periferica. Storie ai margini è un romanzo visuale di formazione dove la formazione è l’autoformazione artistica di Mattotti. Va da sé che si tratta di un’occasione ghiotta, anche considerato che le storie sono introdotte da testi scritti dall’autore ad hoc, tanto eloquenti dal punto di vista biografico quanto illuminanti sul piano dell’evoluzione stilistica, dai quali non mancherò di estrapolare sfiziose citazioni. Gli ancora non contagiati dalla magia mattottiana hanno così la chance di capire per filo e soprattutto per segno da dove viene colui che nel 1984, con Fuochi, avrebbe incendiato – figurativamente, cromaticamente – il mondo del fumetto. Gli aficionados possono invece tuffarsi in un voyage à rebours – cronologico e convulsivo come la bellezza spacciata dai Surrealisti – che li condurrà alla rivelazione o alla conferma di quanto Mattotti, fin dagli esordi, fosse avanti, cioè completamente se stesso.
E qui ci sta un flashback. È il 1977, il 24 gennaio per la precisione, Mattotti ha 23 anni e sbaglia città. Dopo 5 anni a Venezia dove studia Architettura, muove da Udine verso dove qualcosa sta accadendo. Flashback nel flashback, come in Fratelli di Abel Ferrara: Lorenzo nasce nel 1954 a Brescia, dov’è stanziale fino ai 5 anni, quindi fluttua di città in città (Ancona Parma Como) al seguito del papà ufficiale della Guardia di Finanza, prima che la famiglia (di origini mantovane) si stabilizzi a Udine. Torniamo al ’77: i bookmakers danno Milano vincente. È lì che stanno gli operai e gli editori. È quella la pentola che bolle. In ballottaggio c’è pure Bologna – la Bologna narcisa modaiola benestante – ma vince infine la Milano grigia concreta spietata, con due terne di aggettivi mattottiani.
Ed è così che il nostro Italy Trotter fa una cappella, di quelle grosse: mentre Bologna esplode, Milano implode. A Bologna anche la rivoluzione è un gioco. A Milano, senza nemmeno accorgersene, si finisce nella droga, nella depressione, nella lotta armata. A Bologna si mangiano le tagliatelle al ragù e si fa l’amore ascoltando i cantautori. A Milano ci si tappa nel loculo di uno dei tanti casermoni fuori mano e ci si sfama divorandosi il cuore. Se Bologna è femmina, e pure lasciva, Milano è maschia e castigatrice, non c’è dubbio. Eppure, sbagliando città, Lorenzo fa la cosa giusta: giusta col senno della sua arte a venire. Milano è la postazione migliore per raccontare quel che vuole raccontare e Mattotti vuole che nella filigrana delle sue immagini rimbombi il metallo delle industrie pesanti e del rock incazzato. Mattotti vuole la vita tosta, la vita vera. Mattotti vuole la periferia.
Sono anni di entusiasmi e delusioni, di circoli Arci e camminate notturne, di discussioni fino all’alba e «martellate in testa». Sono anni intensi senza tema d’intensità. Il Mattotti di Periferica è un giovane artista marginale per non dire emarginato, emarginato innanzitutto dall’industria editoriale. Troppo poetico per «Cannibale» e «Frigidaire». Troppo inquietante per «Linus» e «Alter Alter», che lo ospiteranno solo quando sarà impossibile ignorarlo, quando la sua esclusione dalla Nazionale del Fumetto (per così dire) diverrà un caso presso intenditori e tifosi. Significativa al riguardo – oltre che da sbellicarsi – è l’appendice a La realtà è strabica. Mattotti e il suo compare testuale Fabrizio Ostani alias Jerry Kramsky si prendono quattro colonne per raccontarci come nel ’77, dopo l’ennesimo rifiuto, accalappiano Rocco Centorrino, condirettore delle Edizioni Ottaviano, disposto a pubblicare La realtà è strabica a condizione che il «duo maledetto» inserisca qualche strizzata d’occhio al movimento (giovanile), accresca il racconto (richiesta inedita per loro, un altro problema con «Linus» è che sono troppo lunghi) e lo ribattezzi Alice Brum Brum (gli “Ottaviani” dicono: «Bello, però ci sa che non si venderà» e «si venderà ancora meno» col titolo La realtà è strabica perché «non rende l’idea»). Il colpaccio ha luogo al Salone Internazionale dei Comics di Lucca dove il duo-desolato-e-semisballato va a smuovere le acque stagnanti in cui annaspa. «Cristo, Lorenzo, speriamo di fare affari!». «Cristo, Fabrizio, speriamo nell’audiovisivo!».
E qui un flashforward ci sta tutto. 34 anni dopo, l’ottobre scorso, la stessa mostra mercato che ora si chiama Lucca Comics & Games – in collaborazione col Ministero della Cultura e le Gallerie degli Uffizi – ha insignito Mattotti del prestigioso titolo di Gran Maestro del Fumetto – un Oscar alla carriera per intendersi – e contestualmente il museo dove sono di casa Michelangelo e Raffaello ha acquisito un autoritratto di Lorenzo del 2021. Flashforward nel flashforward, come in un film di Christopher Nolan: in questi giorni a Manhattan, presso la Philippe Labaune Gallery, visitabile fino al 15 gennaio, furoreggia la prima personale newyorkese dell’artista bresciano: Stanze intime.
A proposito di stanze intime: la stanza che in Incidenti vediamo tappezzata di poster e cover (tra cui quella dell’album del ‘77 Before and after Science che torna in ben tre vignette, se ci fossero dubbi sull’infatuazione del disegnatore per Brian Eno) corrisponde all’abitazione del giovin Lorenzo in via Bramante, una cuccia che misura 15 metri quadri inclusa la mobilia d’accatto, dalla quale si trasferisce alla volta di un sottotetto di 20 metri nel quartiere Bovisa affacciato sul Ponte della Ghisolfa (di testoriana e viscontiana memoria), dove inizia a lavorare al Signor Spartaco, edito da «Alter Alter» a puntate soltanto nell’82. Quanto al «principesco due-locali-con-macerie e cesso fuori […] a sole 50mila [lire] al mese» di Tram Tram Rock, anch’esso prende spunto la una location reale ch’è la casa di Antonio Tettamanti – bassista e romanziere oltre che paroliere mattottiano – e ch’è ubicata sui Navigli, nel cui sottobosco i due compagni di ventura sono soliti sguazzare. Non si pensi però che quei Navigli siano gli odierni Navigli da bere, ben altra è la movida. Illi Navigli sono piuttosto un kebab gloriosamente farcito con la carnaccia di miriadi di diversamente desesperados.
Eccoli qui i veri eroi di Mattotti Settanta: inermi progetti di animali sociali brutalmente deviati manomessi interrotti, sabotatori di loro stessi rotolati in un buco di culo italiota, sfaccendati indecisi se «fare la rivoluzione o seghe tutto il giorno» come dice di sé Lucio, alter ego di Lorenzo Emme. In questi termini ne parla il suo paparino: «Lucio mi ha accompagnato in un momento delicato della mia vita e per certi versi rappresenta chi ero all’epoca: un giovane emarginato, introverso, incapace di comprendere i sentimenti di chi lo circonda, ma desideroso di aprirsi al mondo». E ancora: «Attraverso Lucio ho voluto raccontare il clima di violenza e disillusione in cui è cresciuta una generazione perduta della quale ho fatto parte anch’io». Più chiaro di così. La cosiddetta Trilogia di Lucio comprende i già menzionati La realtà è strabica (1974-77, insieme a Kramsky, uscito nel 1978 con l’editore Ottaviano e il titolo Alice Brum Brum, come anticipato), Tram Tram Rock (1978, insieme a Tettamanti, edito a puntate sul giornale di annunci economici «Secondamano») e Incidenti (1979, dove Mattotti fa tutto da solo, le cui puntate appaiono su «Alter Alter» due anni dopo).
Zoomiamo. Possiamo guardare a La realtà è strabica come a un atto fondativo: è qui che l’artista getta le fondamenta del suo multiverso fumettistico. In compagnia del proprio avatar e di quello kramskyano – Sergio, «pidocchioso drogato con tendenza alla delinquenza feroce» – la Matto-matita ci fa strada in una Waste Land a dir poco strampalata. Alice – la protagonista nominale – è una sanbabilina o proto-paninara fissata con le «motorone sette e cinquanta» e le sciccherie modaiole (tra le marche allora di grido c’è Fiorucci che Mattotti storpia in Fioracci), quattrocchi svampita la cui ricetta del giusto contempla «una compagnia di ragazzi-bene, di moto-bene, tanta luce e niente sporciziaaa!!». Ma pure il perfido duo ha la propria idea di giusto e, fedele a essa, infligge ad Alice la nemesi che si merita: la fionda in una Terrorland dove le tocca persino un faccia a faccia con la Somma Trinità Comunista: Lenin, Rosa Luxemburg e naturalmente Marx, che la sprovveduta Alice scambia di spalle per una «persona perbene».
Queste rapide notazioni sono sufficienti per intuire il piglio urticante di un approccio polemico sintonizzato con le staffilate de «Il Male», il neonato quattordicinale politico di satira al vetriolo, ovvero con l’indomito spirito del tempo. È un Mattotti scanzonatamente ideologico il Mattotti esordiente, che non lesina colpi all’indirizzo di un presente forgiato a impronta del consumismo e del conformismo più ottundenti, del mito della produzione, della trappola della pubblicità e di un’altra trinità, una trinità tetramente bestiale, la Ferale Trinità Capitalista: Sanguisuga Avvoltoio Sciacallo, bestiacce fameliche che negli anni Ottanta celebreranno il proprio trionfo finendo di spolpare le inquietudini e le alternative ancora semoventi solo qualche annetto prima. Se l’immaginario elettivo del proto-Mattotti è quell’Underground statunitense che ha i suoi paladini in fumettisti quali Robert (Fritz the Cat) Crumb e Gilbert (Freak Brothers) Shelton, non mancano legami con le posizioni critiche dell’intransigente filosofo Theodor W. Adorno, Teddy per gli amici californiani, tanto da farci venire voglia di collocare un’opera come La realtà è strabica su un ideale vascello sensoriale che fa la spola tra la controcultura di San Francisco e la Scuola di Francoforte. Francofortese, per esempio, è l’esplicitazione del colore morale del fumetto – grigiorabbioso – nonché del collimante messaggio finale: «Il pessimismo diventa realtà e lo si può toccare… quindi anche cambiare».
Anche nel capitolo successivo della saga, Tram Tram Rock, Mattotti e Tettamanti mettono il dito nella piaga del contemporaneo al fine di tramutare la negatività diagnostica in felicità segnica. Qui ad affiancare Lucio c’è Guido, il doppio del paroliere, una barbuta mosca da bar che gioca a fare «Ernesto Hemingway». Stavolta il nostro eroe squattrinato cerca di sbarcare il lunario, senza troppa convinzione, come attacchino, aggirandosi in una radura dove, se non pesti una cacca (sua specialità), sotto la suola ti trovi una siringa. Il circostante frullìo di vite segue le mollichine di una dispettosa eredità che implica una caccia al tesoro condominiale e – su questa falsa riga – la lente dell’artista si avvicina allo scalcinato shangai-proletario-e-sotto, il cui equilibrio pericolante è sbalestrato dal miraggio del facile arricchimento. Ancora, il mondo degli ultimi è trattato con calore e spessore empatico, senz’ombra di cinismo. Nell’incedere di Periferica, Tram Tram Rock è seguito da quei pezzi di talento che sono le accurate illustrazioni realizzate per «Secondamano» – (S)oggetti di seconda mano (1978-79) – davanti alle quali possiamo goderci il Mattotti sociologo swingare col Mattotti miniaturista.
E poi arriva Incidenti, che è un one man show. Piccolo inciso biografico: scassato, a disagio con la propria persona, nel ’78 l’artista negletto lascia Milano e si rintana a Castelbelforte, paesello nella campagna mantovana, a casa dei nonni paterni, dove trascorre un anno sabbatico all’insegna del disegno sfrenato, prima di tornarsene a Udine per il servizio civile che adempie al Catasto. Qui – a Castelbelforte – nasce Incidenti, il cui fuoco è ancora su una realtà urbana prettamente italiana: «Depressa e marginale, ma anche ironica, poetica e con il coraggio della dolcezza, perché non ho mai creduto alle parole d’ordine che andavano tanto di voga in quel periodo: Colt .45, eroina e cinismo». Il filo che attraversa e cuce questa storia di confusione generazionale è un traffico d’armi le cui dinamiche criminali non sono specificate, as usual con l’ellittico Mattotti e coerentemente col fatto che il cuore della storia è altrove. Il cuore è un microcosmo nevralgico composto da creature contuse nell’angolo dell’esistenza, adulti spezzati e ragazzi spiazzati che giorno dopo giorno perdono, insieme al futuro, il senso del presente. Il cuore è un microcosmo infartuato trattato con una umanità priva di retorica, con una tenerezza che diviene – di schizzo in cancellatura – un marchio di fabbrica. Nel frattempo, non solo Lucio è diventato più adulto, s’è tagliato i capelli e inforca occhiali da sole che gli danno un’aria cool, pure il suo inventore s’è dato una regolata. Il segno è maturato nella direzione di un’originale dialettica tra solidità e fragilità, come vedremo più avanti. Sorprendente è poi l’alternanza tra pagine dure e dense – pensiamo alla masturbazione lacrimosa della Signora inchiodata su una sedia a rotelle – e pagine atmosferiche, paesaggi sonori (se mi si passa la formula) come lo scorcio di Pianura Padana attraversato da una striscia testuale di Mille miglia di Lucio Dalla e Roberto Roversi. Indimenticabili, infine, sono gli autoritratti di Lucio 25enne, tanto più che oggi quel giovanotto senza parte ma con l’arte è ancora domiciliato – e integro – presso il volto del Mattotti superstar inoltrato negli anta.
Acceleriamo. Assieme alle variazioni intorno a Lucio, Periferica contiene il Mattotti che comincia ad aprirsi una breccia nell’editoria italiana: Reazione chimica (1980, reportage a fumetti sul caso SIR) e Alè Tran Tran! (1979-80, serie in sei episodi incentrata sul calcio), ambedue realizzati col fido Tettamanti e pubblicati rispettivamente su «Panorama» e a puntate sulla prestigiosa (per un fumettista emergente) «Linus». C’è inoltre Remo (1979, edito dieci anni dopo sull’antologia mondadoriana Eurovisioni), il cui omonimo protagonista è un altro toccante rappresentante dell’umanità di seconda mano cui Mattotti tiene tanto, uno struggente vecchio che solca le vie di Milano a bordo del suo motocarro bancarella e finisce dentro un sacco dell’immondizia in una discarica abusiva. E c’è Agata Blues (1979), pubblicata in tre puntate (soltanto tre purtroppo) su «Canecaldo», rivista dalla breve vita fondata (tra gli altri) da Riccardo Mannelli, un fuoriuscito del citato periodico «Il Male».
Agata è una ragazza con la sindrome di Down attraverso i cui occhi la realtà si manifesta in tonalità crude, impietose. Mattotti usa il corpo di Agata come una spugna, una spugna che non serve a pulire bensì a impregnarsi delle situazioni limite che attraversa, un corpo spugna che cola sulle pagine imbrattandole di patetiche gesta e gesti grotteschi. Basti dire che già nella prima pagina Agata viene derisa da un gruppetto di abbrutiti decerebrati e indotta a spiaccicarsi un würstel nella fica. Così parla di Agata Blues il suo creatore, col quale condivido un debole per questo abbrivio di fumetto, forse il suo picco di scorrettezza politica: «Una folle fuga in vespa, un’esperienza on the road in una Pianura Padana marginale e visionaria». E ancora: «Un viaggio pasoliniano tra derelitti e personaggi simbolici». E non dimentichiamo C’è del maggio anche nella pioggia (1975, senza lettering) e O qualcosa del genere (1977-78, con Kramsky), due incantevoli storie finora inedite nella loro integralità, dove sono contenuti alcuni dei vertici espressivi della raccolta. Tutti i racconti di Periferica sono in bianco e nero, eccetto O qualcosa del genere che apre il volume e Agata Blues che lo chiude, entrambi a colori. Il meno che si possa dire riguardo all’uso del colore da parte del futuro autore di Jekyll & Hyde è che esso tutto fa fuorché riempire i vuoti del disegno: il colore – fin da subito – è sostanza creativa autonoma, materia poetica.
Stringiamo sullo stile. Chi si fosse chiesto in che direzione si precisi la ricerca di Mattotti pre-Valvoline, in Periferica troverà le risposte che cerca. Il segno – in principio – è urgente. Urgente: «vissuto, respirato e sputato sulla carta senza molti filtri» né ansie di realismo, vitalmente sporco, scatenato. Urgente e al servizio di una narrazione spontanea descrittiva emotiva, con una parola: caotica. Tutto ciò ch’è scolastico o manierato: via! Due i modelli dell’epoca: il duo argentino Muñoz & Sampayo («con le loro storie nere e drammatiche, filtrate dalla loro cultura cinematografica e dalla loro anima sudamericana») e Altan («che con il suo segno all’acido nitrico raccontava le nefandezze del popolo italiano»). Presi costoro come punti di riferimento, Periferica ci dà modo di vedere nel dettaglio come, di storia in storia, Mattotti si emancipi da tale ascendente per inventarsi una propria personalissima rotta. A proposito, man mano che il disegnatore carbura, il tratto tende a raffreddarsi, a divenire «più tagliente», «più cattivo», «più razionale», con comparativi suoi. Da Tram Tram Rock in avanti l’immagine smette di porsi al servizio della storia e la storia diviene il pretesto per l’approfondirsi della concezione formale. Né si pensi che – una volta ingranata la marcia compositiva – la costruzione vada a detrimento dell’espressione: la costruzione governa sì l’espressione ma al fine di potenziarne la fiamma evitando dissipazioni termiche e luminose.
Più meditata, più strutturata, la linea rivendica con sistematicità parentesi di equilibristica vibratilità, aree di convulsione dove il parossismo della situazione sfocia in una brillante stilizzazione, se non nell’astrazione. Incidenti – da questa angolazione – rappresenta un passaggio chiave per mettere a fuoco il fertilissimo dialogo tra l’oramai fermo polso architettonico e la fragilità, una fragilità esperita come «rifugio» e «spazio di libertà». Mattotti rievoca in questi termini l’approdo segnico frutto della «parentesi di ricostruzione personale» a Castelbelforte: «disegnavo senza sosta, riempiendo taccuini con disegni che più avanti avrei definito “linea fragile”». Buffi esponenti della Linea fragile (ch’è pure una splendida raccolta di disegni edita da Nuages nel 1999) sono i SIDRA (Squadre Interne Di Rieducazione Attiva, dove attiva vuol dire armata), tutori della repressione nel sembiante di nanerottoli macrocefali che versificano invece di parlare – come dire: assecondando una peculiare logica contrappassistica, l’artista si concede una perdita di controllo della linea proprio quand’è alle prese coi garanti mitramuniti del controllo sociale.
Vado verso la coda. Il Mattotti ventenne è uno che si ammazza di musica e cinema e di musica e cinema Periferica trabocca. Partiamo dalla musica, lasciando da parte le citazioni musicali all’interno dei fumetti sennò non la finiamo più. Mattotti possiede un orecchio magnificamente sincronizzato con l’occhio. Egli lavora consapevolmente sulla musicalità delle sue immagini, trattando forme e colori, segni e vuoti quasi fossero accordi e silenzi, generando sonorità visuali consonanti con gli ascolti di quegli anni: Brian Eno e Nick Drake, Robert Wyatt e Soft Machine, Jerry Garcia e Grateful Dead, Pink Floyd e King Crimson, De André e Dalla. Non ci discostiamo dal vero se immaginiamo Lorenzo fluttuare per le viuzze della capitale della Lombardia e dei suoi dolori e dei suoi furori, sospeso tra il dentro e il fuori, affatturato con palpebre a mezz’asta, magnetizzato da occhi calamita, uncinato da scene di vita offesa sull’autobus, incendiato da epifanie in farmacia… se ce lo immaginiamo tornarsene a casuccia in stato di trance – pago della città, bisogno di dare sfogo alla sua fantasia – per mettersi a disegnare disegnare disegnare, senza nemmeno soffiarsi il naso che cola, senza nemmeno accendere la luce pure se intanto si sono fatte le nove di sera, mentre nei cunicoli della sua mente e nelle tubature progressive della sua anima la voce di Nick Drake in Parasite si transustanzia – senza soluzione di continuità – nella chitarra di Jerry Garcia nella Love Scene improvvisata per Zabriskie Point che a sua volta…
Lucio Dalla – mi viene in mente – era solito chiamare le fotografie dell’amico Luigi Ghirri «musicate», intendendo «che hanno un loro suono interno, che hanno un inciso, un ritornello, si sente che sono costruite, che hanno un mixaggio», come leggiamo in una conversazione dell’89 tra il musicista e il fotografo. «Musicate» è un aggettivo che, così inteso, rivendico nondimeno per le immagini di Mattotti, artista che – per dirne una – nel 2013 Lou Reed in persona ha scelto per dare corpo visionario alla sua poesca scatola nera: The Raven. Di una musicalità estrema sono, in particolare, le tavole senza testo di C’è del maggio anche nella pioggia, dove la dimensione concertistica è anche materia narrativa di tre episodi: Musica e gente nostra, Hai mai bevuto aria fresca? e Pianista – episodio, quest’ultimo, che mi ha fatto sovvenire le embrionali tavole inedite di uno strepitoso progetto che ho avuto il privilegio di sbirciare in anteprima e che, da appassionato, mi auguro non resti a lungo ad aspettare. Lorenzo sa di cosa sto parlando…
Veniamo al cinema. «Mio padre era un militare e aveva una tessera per andare al cinema gratis con tutta la famiglia. Io e i miei due fratelli usavamo la sua tessera per vedere più film possibile. Cambiavamo spesso città, era anche un modo per fare nuove amicizie, visto che con la tessera potevamo invitare gli amici. Allora si poteva entrare in sala in qualsiasi momento, anche quando il film era già cominciato. A volte partivamo dalla fine per poi rivederlo dall’inizio subito dopo. La nostra relazione con il cinema era completamente libera». È quanto l’artista racconta – definendosi un bulimico di cinema – nella succosa conversazione con Charlotte Serrand contenuta in Cinema Mattotti. Lorenzo Mattotti e la settima arte, volume smagliante, per non dire sexy, curato Melania Gazzotti con la collaborazione della Serrand e pubblicato dalla Lazy Dog Press in occasione della mostra omonima svoltasi tra l’ottobre e il novembre 2021 presso l’Espace Contemporain du Cyel, nell’ambito della dodicesima edizione del Festival International du Film de La Roche-sur-Yon.
Dopo l’iniziale scorpacciata acritica (i peplum italiani con Maciste Ercole Ursus, i film di guerra americani contro tedeschi giapponesi coreani, i Totò i Funès i Fantomas…), Mattotti è via via diventato un cinefilo vorace, un pelo idiosincratico, esigente e raffinato. Tra i cineasti presso cui ha arrotato lo sguardo, in pole position troviamo i crucchi Wenders Herzog Fassbinder e i conterranei Pasolini Fellini Antonioni. Ma non si possono tralasciare il Buñuel della Via Lattea né le spaghettate western di Leone né «le immagini visionarie come dipinti» del faro armeno Paradžanov. Idem con patate per l’amato Truffaut (il regista di Jules et Jim e I 400 colpi, certo, ma anche il cava-perle delle interviste con Hitchcock e lo scrittore di testi passionali di cui Lorenzo è lettore capillare) e il Tarkovskij di Nostalghia (il cui uso del buio e delle immagini sottoesposte riverbera nel bianco e nero dell’esordio mattottiano nell’animazione, il cortometraggio La Bête, contenuto nel film collettivo Peur(s) du noir). Per non parlare dei mostri emergenti della New Hollywood – ossia di ragazzacci come Altman Cimino Coppola Friedkin Scorsese – e soprattutto di una vecchia gloria che fa la parte del leone in mezzo a talenti che hanno la metà dei suoi anni: John Huston, in particolare lo Huston di Città amara (1972), opera disperatamente lirica e sanguinante che parla di pugili pesti e sogni infranti. Nutro per questa pellicola una predilezione che fa il paio con quella di Lorenzo e immagino che Lorenzo si sia identificato non poco col ventenne di belle speranze crudelmente disilluse che nel film si chiama Ernie Munger e di battesimo fa Jeffrey Leon Bridges. A tal proposito, ho una confidenza da fare a voi e pure a Mattotti: rivedendo Città amara alla luce delle storie finalmente raccolte in Periferica, m’è stato impossibile non sovrapporre alla fisionomia suonata di Jeff Bridges la facciaccia non meno squadrata di Lucio alias Lorenzo – e ora che ve l’ho detto il sortilegio percettivo cadrà su di voi…
Periferica gronda di rimandi filmici espliciti – come le locandine di Totò a Parigi e Nel corso del tempo in camera di Cicilia (Incidenti) – e di omaggi criptati – come il volto di Maria Schneider, versione Ultimo tango a Parigi, che fa capolino in incognito in una vignetta (La realtà è strabica). Ma c’è un piano d’incidenza cinematografica più profondo nei fumetti in questione: c’è che Mattotti ragiona già da filmmaker. Dichiara con riferimento a Incidenti: «Per documentarmi, ispirato dal Wim Wenders di Alice nelle città e Nel corso del tempo, mi sono accostato alla storia come avrebbe fatto un cineasta: andavo in giro alla ricerca di luoghi abbandonati, dall’atmosfera straniante. Fotografavo tutto e da quelle foto ricavavo le ambientazioni per la storia». Nel fumettista, di fatto, già convivono il location manager e lo scenografo, lo sceneggiatore e il metteur en scène che concepisce le vignette – né più né meno – «come fotogrammi di un film».
Alla luce di questa sventagliata, appare inevitabile che il magistero di Lorenzo fosse destinato a estendersi al cinema tout court e a molteplici livelli. Sono diversi i Mattotti applicati al cinematografo di nostra conoscenza. C’è l’autore di manifesti: manifesti per festival (Cannes Venezia Annecy Clermont-Ferrand Courmayeur…) e pellicole (Cheb di Rachid Bouchareb, Asja e la gallina dalle uova d’oro di Andrej Končalovskij, A cavallo della tigre di Carlo Mazzacurati, I vestiti nuovi dell’imperatore di Alan Taylor…). C’è l’illustratore editoriale, sfruttatissimo (non solo) dal «New Yorker», interprete di film quali Addio mia concubina di Chen Keige, Il profumo della papaya verde di Anh Tran Hung, L’Humanité di Bruno Dumont, nonché ritrattista di dive come Lana Turner e Gong Li. E non siamo nemmeno vicini all’aver finito. Ci sono l’autore di storyboard (Barbe Bleue di Francis Nielsen), libri adattati (il corto animato Eugenio di Jean-Jacques Prunès e il lungo con attori in carne e ossa Estigmas di Adàn Aliaga), sfondi e personaggi (Pinocchio di Enzo D’Alò), sequenze animande (Il était une fois… peut-être pas di Charles Nemes), interludi animati (Eros di Antonioni Kar-way Soderbergh). Ci sono il Mattotti attore protagonista (L’homme qui marche di Philippe de Pierpont) e il soggetto di un documentario che porta il suo nome (Mattotti di Renato Chiocca). C’è – dulcis in fundo – il cineasta d’animazione che all’attivo ha il corto menzionato La Bête e il lungo pluripremiato La famosa invasione degli orsi in Sicilia.
Di tutto ciò ci sono corpose tracce in Cinema Mattotti. Titolo decisamente azzeccato tanto più se si considera che – prima di essere una mostra e un libro – Cinema Mattotti è stato un cinematografo vero e proprio, il cinema del «paesino di campagna» dove Lorenzino trascorreva le vacanze estive con la famiglia, dove ha visto Ben Hur quadrigare e gli adulti ballare, dove ha imparato – senza possedere ancora le parole per dirlo – che vedere è danzare. E no, non si tratta di un caso di pura omonimia, il legame c’è ed è di sangue, il proprietario del cinema era un prozio dell’artista. «Il fratello di mio nonno era il sindaco del paese e c’era un cinema che si chiamava Cinema Mattotti. Era anche una sala da ballo». Il paesello lombardo di circa tremila anime dove tutto è cominciato è sempre quel Castelbelforte dove una ventina d’anni dopo sarebbe venuto alla luce – come abbiamo visto, intriso di Nouvelle Vague e Nuovo Cinema Tedesco – Incidenti.
Mi si conceda una chiosa autobiografica, giacché il mio ingresso nel reame del Magnifico è avvenuto proprio mediante il pertugio del cinema. Devo infatti la scoperta nientemeno che a Bruno Dumont, maestro contemporaneo della settima arte che nel 2004 mi fece dono del pressbook dell’Humanité, anticipandomi con soddisfazione che le illustrazioni erano opera del «grande artista italiano» di cui vado, da qualche decina di migliaia di battute, blaterando. Potete quindi immaginare il mio giubilo nell’avere tre lustri dopo Lorenzo Mattotti, body and soul, davanti alla camera (in verità un iPad) nei panni casual dell’intervistatore d’eccezione (o sparring partner di lusso) in Enzo Borgini, nel cuore della creazione, documentario cotto e mangiato tra il maggio e il giugno 2019. Borgini è stato uno dei maestri fondamentali di Mattotti: il suo maestro di oscurità e intensità, il suo maestro di fragilità. Nato da un impulso di Lorenzo, il quale conoscendo i suoi pollastri ha intuito la sintonia che si sarebbe creata, il doc è stato girato nel corso di un weekend conviviale in quel di Lastra a Signa, in provincia di Firenze, dove Enzo viveva con i suoi affetti. L’artista, all’epoca 85enne, sarebbe morto nemmeno due anni dopo, nell’aprile 2021. Perso quel momento magico, non ne avremmo avuti altri e non si sarebbe fatto un bel niente, poco ma sicuro, visti l’imminente propagarsi della pandemia e i ripetuti lockdown. Lorenzo e io – e con noi le persone che amano Enzo e la sua arte – siamo grati che questo piccolo ritratto esista, con commozione ce lo siamo detto e ripetuto.
Quanto alla prova davanti all’obiettivo del Gran Maestro del Fumetto, geniaccio corteggiato da gente come Michelangelo Antonioni e Lou Reed, c’è una cosa che non mi posso tenere: non immaginate quale film nel film sia stato vedere Lorenzo accanto al misconosciuto e all’occorrenza rimbrottante Enzo, vederlo posizionarsi – maieuticamente, amorevolmente – un gradino sotto per ritornare ciò che in fondo non ha mai smesso di essere: il giovinastro sognatore di Periferica, quel Lorenzo-smarrito-e-contrastivo-che-spera-nell’audiovisivo.