L’autonomia della fotografia / Tempo e memoria nelle immagini di Roberto Toja
Cos’è lo scorrere del tempo? Nella Berlino riunificata, a ormai quasi trent’anni dalla caduta del muro, ciò che attrae il visitatore non è la parte occidentale il cui aspetto commerciale la rende omologata alle altre metropoli europee. Ad affascinare è quella parte orientale che per lungo tempo è rimasta immersa in un’atmosfera immobile dalla quale emerge una storia che ha toccato molti e che porta ancora i segni della Guerra fredda e della dominazione sovietica.
Questa parte della città è oggi inequivocabilmente il segno distintivo di Berlino. Rappresenta la rivincita di un luogo a lungo confinato dietro un muro culturale e politico oltre che fisico. Chi oggi visita Berlino rimane affascinato proprio dalla zona est, a dimostrazione di quanto la memoria sia un elemento persistente, tanto da far scattare il desiderio di voler essere testimoni di ciò che è accaduto.
Questo aspetto introduce le motivazioni che hanno spinto Roberto Toja a recarsi a Berlino e che traspaiono molto chiaramente dalle fotografie raccolte nel libro Warum die zeit? (MFD Edizioni, 2017). Non la semplice volontà di documentare con un reportage l’attualità della vita, certamente più complessa dopo quel 9 novembre 1989. Nemmeno quella di ritrarre scene quotidiane in un luogo che allude a uno stato iconico. La motivazione reale che ha spinto l’autore a recarvisi è proprio quella di essere testimone della memoria ivi custodita o, se vogliamo, di quel “tempo che scorre” e che ognuno di noi vuole vivere pienamente. “Ho in mente – scrive l’autore – un modello [ideale?] di città, e voglio ritrovarlo all’interno del tempo in cui posso dire di esserci stato”.
Il tempo, elemento condizionante per eccellenza del nostro guardare. Si dice che lo scatto fotografico lo fermi. Tuttavia il tempo è indipendente e lo possiamo chiaramente vedere in queste immagini dove ci appare metafisico ma anche concreto, fermo eppure in movimento. È come se dettasse un ritmo che si appropria del suo stesso esistere costringendo l’autore a stare al suo passo. La sequenza delle foto che ci viene proposta parte dalla classica inquadratura orizzontale alla quale si alternano trittici che sembrano mostrare mondi paralleli nei quali qualcosa avviene contemporaneamente.
Strette, lunghe, è quasi percepibile lo scorrere della pellicola cinematografica. Passano, una dopo l’altra, creando quel movimento che materializza il tempo. Queste alternanze creano una sorta di intermittenza che destabilizza il senso percepito linearmente del suo scorrere.
Le immagini si formano autonomamente. Mentre lo sguardo si sofferma su qualcosa, attraverso una rete di pensieri, si crea la forma. Questa forma non si rivelerà veramente allo sguardo prima di aver osservato la fotografia una volta stampata. Per questo l’immagine si stacca dall’autore nel momento stesso in cui viene scattata cominciando a vivere di vita propria, cosa che le permetterà di essere interpretata da ciascun osservatore secondo il proprio punto di vista.
In questo lavoro è visibile il “tempo vissuto” di Berlino, rappresentazione difficile da realizzare perché il tempo è materia indefinibile. Verosimilmente abbiamo a che fare con la memoria di un uomo, di una città, di un Paese, un sentimento collettivo che la memoria stessa innesca in chi osserva. Chi ha visto la trilogia di Heimat diretta da Edgard Reitz – una pellicola straordinaria che condensa la Storia grande e quella piccola, l’estetica intesa come dottrina della conoscenza sensibile e l’appartenenza a un luogo non soltanto come luogo di nascita ma come territorio del Sé (penetrato dalla presenza dell’individuo e dalla sua anima), può forse comprendere a cosa alludo. Le fotografie di Roberto Toja sono, a loro modo, un pezzetto di tutto ciò, e questo grazie proprio alla disposizione d’animo con cui l’autore si pone davanti al soggetto che sta ritraendo, che ha a che fare con l’ascolto, del luogo stesso e della memoria.
In una scena del film Smoke, del regista Wayne Wang, Auggie il protagonista gestore di un tabacchi, mostra al suo amico scrittore diversi album in cui sono incollate centinaia di fotografie che lui scatta da anni sempre alla stessa ora, sempre nello stesso punto, sempre con la stessa inquadratura. Eppure in quella inquadratura sempre uguale accadono moltissime cose. “Sono tutte uguali”, dice l’amico scrittore. Gira i fogli degli album velocemente. Auggie osserva: “Non capirai mai, se non vai più piano. Lo sai com’è: […] il tempo mantiene il suo ritmo”. Il miracolo avviene quando lo scrittore si imbatte in una fotografia in cui davanti all’obiettivo di Auggie, alle 8.00 di una mattina qualsiasi, riconosce sua moglie Ellen, morta di recente. Ed ecco che la memoria irrompe nel tempo e quello che sembra essere un luogo qualunque improvvisamente la contiene e diviene “altro”.
Ciò che accade osservando le immagini di Roberto Toja è proprio l’emergere di una memoria che lui per primo intende incontrare in quello che è il suo tempo ma che, nel momento in cui lo osserviamo, diventa anche il nostro, in una sorta di sentimento di comunanza.
Le fotografie si compongono da sole, dunque. Avviene un’interazione tra soggetto e fotografo, un dialogo che conduce a una rappresentazione all’interno della quale ognuno vive la sua parte. Il formarsi delle immagini è frutto di una relazione. Non è infrequente sentire autori che affermano di non essersi resi conto di alcuni particolari se non dopo aver visto le foto stampate, il soggetto interagisce con il ritraente determinando una relazione. Senza questa relazione l’immagine semplicemente non esiste e non può suscitare alcuna emozione in chi la guarda. Un altro esempio cinematografico che ci può aiutare a capire di cosa stiamo parlando è la famosa scena del film Blow-up di Michelangelo Antonioni in cui il fotografo protagonista della storia scatta una fotografia a due amanti in un parco, ma soltanto dopo averla stampata si accorge di aver ripreso qualcosa di strano sul fondo. Ingrandendo l’immagine arriva a vedere ciò che non aveva visto al momento dello scatto: un’ombra che si rivela essere il corpo di un cadavere. La fotografia, dunque, sa di esistere e interagisce.
Ma torniamo all’elemento fondante della ricerca fotografica di Roberto Toja contenuto già nel titolo del lavoro stesso: “Perché il tempo?” La convenzione stabilita dall’uomo vuole che il tempo venga ridotto a una semplice unità di misura: da qui a lì è un certo tempo, passato il quale qualcosa è accaduto. Qui l’autore però intende occuparsi del tempo cercando di capire la sostanza di cui è fatto, il suo senso in relazione all’accadere.
In queste fotografie vediamo figure sospese e al contempo fluide. All’interno di ogni immagine c’è un microcosmo che è parte integrante del macrocosmo. Esso può vivere in maniera indipendente ed essere ugualmente parte di qualcosa di più grande che pulsa e si muove. Se potessimo guardare dall’alto, contemporaneamente, tutte le scene riprese, ci accorgeremmo di guardare una massa in movimento – “un’entità biologica, viva, all’interno di un proprio tempo organico” – come lui stesso scrive. Un corpo.
Vediamo quindi che la fotografia è molto meno governabile di quanto si possa pensare. Forse possiamo scegliere con quale dispositivo scattarla e le relative misurazioni ma sarà sempre lei a scegliere noi. Sarà lei che ci indurrà a osservarla dandoci l’illusione di aver deciso cosa scattare e quando.
IL LIBRO: Warum die zeit? di Roberto Toja, MFD Edizioni, 2017. 97 pp. Formato 35x30, rilegato
L’AUTORE: Roberto Toja, appassionato di pittura del Cinquecento, dopo la laurea in Storia dell’Arte Medievale e Moderna, si avvicina alla fotografia inizialmente come semplice mezzo sussidiario agli studi di arte e architettura rurale subalpina, per poi allargarsi al reportage sociale, fino a giungere alla professione vera e propria. Successivamente comincia a lavorare a una sua ricerca artistica, fin da subito intima e crepuscolare, principalmente legata alla narrazione della memoria e della sua perdita, all’oblio e allo scorrere del tempo.
Le sue immagini esposte in gallerie d’arte, fanno parte di prestigiose collezioni private e museali, quali Fotografia Italiana e Alinari. Per i suoi progetti predilige la forma del libro in quanto oggetto che ridona consistenza alla memoria salvandola dall’oblio.