L’arabo e il grande Paese di Oh

14 Settembre 2013

In occasione dell’edizione dedicata alla francofonia africana (Bellinzona, 12-15 settembre 2013), il Babel Festival e le Edizioni Casagrande pubblicano il volume di racconti di Kamel Daoud La prefazione del negro, con traduzioni di Yasmina Melaouah, Elisabetta Di Stefano, Elisa Orlandi, Diana Pasina e Gioia Sartori.

 

 

Il brano qui proposto, tradotto da Di Stefano e Orlandi, è tratto dal racconto intitolato L’arabo e il grande Paese di Oh e parla di un uomo che invece di far esplodere l’aereo di linea con il quale sorvola l’Atlantico, preferisce lanciarsi nel vuoto e raccontare la sua storia per tutto il tempo della caduta.

 

 





La mia caduta fu una meraviglia: sentivo il turbante srotolarsi sempre più veloce, allungarsi dietro di me come la coda di una cometa di cotone, fare il giro della terra e stendersi in lunghezza per scomparire nel cosmo come una corda infinita, tesa verso un dio annegato dentro la sua opera. Sentivo anche il vestito sbattere con violenza nel vento, incollarsi alle gambe magre poi strapparsi come la vela di una nave e lasciarmi nudo come dopo un parto celeste. Facevo qualche movimento, giocavo persino a fare la cicogna e stendevo le braccia come ali, cercando di dare la parvenza di un volo a una brutta caduta. Nel pieno della gioia il mio primo pensiero fu questo: «Chi mi crederà?». Una volta tanto avevo una bella storia da raccontare, ma a nessun altro all’infuori di me come un profeta senza popolo.

 

La verità è che l’isola era già lì, ancor prima che mi ci schiantassi, emersa da anni millimetro per millimetro. Vista dall’alto, si stendeva intorno a me come un’onda morente e io non avevo alcuno strumento, alcuna lingua né alcun mezzo per indicarne agli altri la posizione. Sapevo che avevo appena oltrepassato il muro che divide il mondo in apparenze e nudità. Sapete, quella linea che vi fa vedere il mondo su uno schermo e che, una volta oltrepassata, vi immerge nello strano circuito dei pellegrinaggi e degli svenimenti. Cadevo, volteggiando come una foglia, quasi ridendo nel vedere sparire le babbucce dietro di me e disperdersi l’unico libro che accompagna l’arabo dalla nascita fino alla morte. Foglio dopo foglio, le scapole di cammelli, le vecchie pelli di animali e i papiri – su cui all’inizio era stato ritrascritto con pazienza prima della morte di coloro che lo salmodiavano – si sparpagliavano e si confondevano. Vedevo il libro della mia vita e della mia morte smembrarsi a gran velocità, e le sue pagine girare vorticosamente, in cerca della formula per fermare il tempo.
Nella caduta perdevo anche la mia lingua e cadevo verso un mondo nuovo. Mi denudavo, mi sfasciavo sibilando come una pietra celeste venuta a sfregare il suo ghiaccio contro l’atmosfera degli uomini. Dio com’ero felice! La mia antica paura dell’altitudine aveva lasciato il posto alla risata di un pazzo, che dopo aver tenuto testa alle vertigini ne superava il confine per giungere a una straordinaria chiarezza.

 

Così giocai a lungo all’aquilone durante quel volo Parigi–New York, che durò dieci ore e mezza, ma la mia caduta dall’alto dell’aereo era durata per un tempo che poche persone conoscono nella loro vita se non a scatti, o con incidenti, orgasmi, casualità o con il sacrificio di molte cose: il tempo selvaggio degli inizi. Alla fine sono caduto nel punto esatto dov’ero nato, ma questa volta senza nessuno intorno a me. Avevo perso la fede rimuginando su quest’unica frase: «Se Dio esiste, perché deve gettare nel fuoco i tre quarti dell’umanità che lo cercano in altro modo che non seguendo un cammello?». Fu il carattere infantile della punizione tramite il fuoco, paragonata allo sforzo degli uomini per costruire grattacieli e inventare aeroplani, a farmi perdere la fiducia, a farmi fermare sul ciglio della strada dei miei e dubitare d’un tratto di tutta la storia.

 

È cominciato tutto molto prima del mio viaggio in America. Già con lo sguardo cercavo su cosa poggiavano i minareti e non quello che sembravano indicare instancabilmente con il dito. Così ha cominciato a nascere intorno a me la solitudine dell’uomo che non crede più. Nel raccontare questa storia, di colpo mi viene in mente un episodio triste della mia infanzia: il maestro del corso di musica mi costringeva a cantare in coro un inno di cui non sapevo le parole perché il giorno prima non le avevo imparate a memoria. Pensai di cavarmela facendo finta di aprire e chiudere la bocca a ritmo, ma una bambina seduta in prima fila fece la spia. Per l’inganno, mi rifilarono non un’isola mentale, ma qualche bacchettata. Quasi trent’anni dopo mi trovavo davanti allo stesso problema, con la bocca aperta su preghiere che non mi convincevano più, solo in mezzo a una folla che non si accorgeva del mio silenzio. Ma chi mai avrebbe potuto sentirlo? Nessuno: da noi Dio è ritornato in forze e pesa sempre più sulle spalle di coloro che fanno a gara per portarlo. Il peggio è che anche dall’altro lato dello specchio, nel Paese dell’uomo bianco, questo silenzio rimane invisibile e non trova spiegazione. Pensando a salvare l’anima del suo selvaggio, Robinson interroga Venerdì sul suo creatore. «Una specie di vecchio ancora più vecchio del mare, della terra o della luna e delle stelle e da cui tutti vanno quando non hanno più un posto dove andare dopo la morte», risponde il Selvaggio. «Ogni cosa gli dice: Oh!», traduce l’uomo bianco. Vivo in un Paese che si alza e va a dormire gridando: «Oh!», mentre io faccio finta di gridare con gli altri. Capirete perché, se a volte ho accolto alcuni uomini bianchi su quest’isola, loro non l’hanno quasi mai vista. Più o meno tutti se ne tornavano rapidamente a casa con le stesse maschere africane che avevano portato con loro e che credevano di aver comprato qui, da noi, a sud di ogni cosa civilizzata.

 

La caduta non indicava però solo l’assenza di gravità che ho sempre sognato sin da bambino: era anche impoverimento. Devi essere arabo, ed esserlo stato a lungo, per capire ciò che sto per raccontare: per una volta ero libero del peso straordinario del Dio invisibile – eredità degli ebrei, obbligati a vedere il mondo non come un racconto o una storiella che Dio narra a se stesso, ma come un enigma oscuro, un linguaggio di fuoco che si consuma all’infinito –, e mi sottraevo alla mia lingua e a quella di tutti gli uomini messi insieme, immerso in un calcolo enorme con il peso di una misera virgola, senza risposte né domande. Una volta tanto avevo l’opportunità di vivere gli inizi a ogni istante della caduta, e quella di non essere incastrato come il restante miliardo di uomini della mia razza tra una vita anteriore che non hanno vissuto e una vita posteriore consumabile solo dopo la morte. Non provavo più quel senso di colpa congenito che rende immangiabili tutte le mele o i fichi del mondo, e la vita non era più pentimento, né paura dell’inferno, né reclusione lontano dal suo Volto eterno, né un crimine da espiare: non avevo mangiato la mela, non ho mai messo piede in quel giardino e non dovevo né la mia miseria né il mio splendore alla storia di Dio ma solo alla mia storia. Tutto questo lo seppi nel momento esatto in cui uscii piano dall’oblò come fumo. Dio doveva cavarsela da solo, proprio come me, e doveva, anche lui, fare metà della strada per incontrarmi o ritrovarmi.

 

Ricordo una delle mie scoperte, qualche anno prima di questo viaggio, che già tracciava la mia via. Ero in ufficio ad aspettare la fine della giornata, come si aspettano i titoli di testa di un film, quando all’improvviso, senza l’aiuto dell’intelligenza o della ragione, capii che ero lo scemo della tempesta: in quasi tutte le religioni, gli angeli, gli dèi, i diavoli tengono banco al di sopra dell’uomo che tira la carretta. Però io ero l’unico a morire e a nascere con dolore in tutta questa storia faconda. Ero l’unico a pagare ed ero l’unico destinato allo sradicamento e all’assurdo. Peggio! Ero l’unico che doveva guadagnare la propria vita e perderla. Perché allora proprio io me li dovevo tenere sul groppone? Solo dopo la caduta, nel momento stesso in cui mi diedi l’illustre nome di Venerdì, capii che l’isola era assolutamente deserta e che poteva essere popolata solo se lo decidevo io, oppure soltanto dalle mie paure e speranze. A volte, a testa in giù, capovolto come l’appeso dei tarocchi, guardavo le stelle fragili, a un’altitudine in cui il giorno e la notte sono appena accennati, e mi dicevo che l’enigma è ancora più terribile quando si guarda oltre il solito cielo. Ero ancora più solo, tremante, nudo di fronte a un’isola ancora più gigantesca, a sua volta ingannata da un mare ancora più inimmaginabile. Quale nome ti potevi dare quando eri vittima di questo genere di naufragio ancor più assoluto? Non lo sapevo. Forse il nome di una delle divinità dei tempi antichi.

 

L’interrogativo era per me nuovo e lacerante e quasi mi faceva venire le lacrime agli occhi: felice di aver conosciuto la liberazione – già rara per l’uomo e quasi impossibile per un arabo responsabile dell’ultimo monoteismo sulla lista –, ma già pieno di nostalgia per quel mondo dove Dio era da qualche parte dietro il muro del cielo. Noi abbiamo il deserto, che promette il Paradiso, e non potevo abbandonarlo solo per sentirmi più leggero nell’aria. Diventato di colpo eretico a circa undicimila metri di altitudine, avevo perso il Paradiso, non mi restava che il deserto impossibile da decifrare. Arabo, abbandonavo il mondo del Dio che era cresciuto con me, un Dio che a lungo ho nutrito con le mie mani, e la religione che a lungo mi spiegò che non bisognava guardare di sotto per non avere le vertigini, tutto questo per un mondo né peggiore né migliore, né tantomeno conosciuto e la cui posta in gioco non era la mia salvezza ma la sua combustione, prodotta dal soffio di qualcuno di invisibile. Cosa sarebbe successo se il Venerdì di un tempo fosse sbarcato sull’isola dell’uomo bianco con i pantaloni, un sestante, l’uso della lingua del mondo, un libro prediletto? È difficile da immaginare. Un Venerdì deve essere un selvaggio. Allo stesso modo un arabo deve essere l’uomo di una sola religione.

 

Altrimenti sarebbe invisibile agli occhi del Bianco, troppo simile per essere utile a un falso dialogo, e privo di interesse per l’indagine sull’anima che si apre con il racconto di Robinson. Scrivere storie del genere serve all’uomo nero per diventare bianco, giacché quest’ultimo di rado è interessato al percorso inverso. Rimane il grande interrogativo: è possibile una «venerdineide» come lo furono tutte le robinsoneidi scritte da secoli? No.

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