Un’idea di leggerezza / I teatrini della vita degli oggetti
Soltanto nelle botteghe degli artigiani e negli studi degli artisti, abitate da visionari creatori e venditori di bellezza, la materia sembra assumere le vere forme alle quali era destinata. Come mostrano le incompiute possenti statue del ciclo dei Prigioni di Michelangelo Buonarroti, le figure sono già dentro la materia e aspettano soltanto la scintilla della creatività per essere liberate. “La materia è l’entità più passiva e indifesa del cosmo. Ognuno può plasmarla, modellarla, a ognuno essa obbedisce. Tutte le organizzazioni della materia sono instabili e fragili, facili a regredire e dissolversi. (…) Non esiste una materia morta, la morte è solo un’apparenza dietro cui si celano ignote forme di vita. La gamma di queste forme è infinita, i toni e le sfumature inesauribili”. Così scriveva lo scrittore ebreo polacco Bruno Schulz nel suo fantasmagorico libro Le botteghe color cannella (1934). Come suo padre Jakub, protagonista dei racconti, che nella bottega di tessuti all’angolo della piazza principale di Drohobycz, nella Galizia orientale, inventava forme folli e mirabolanti, Guido De Zan, nella sua bottega-laboratorio di fianco alla chiesa di San Lorenzo, nel centro di Milano, in mezzo alla confusione degli attrezzi sugli scaffali e al calore del forno, crea oggetti che sono pezzi di un bizzarro e poetico teatrino della materia che prende vita: “Difficilmente mi vengono in mente nuove idee quando sono lontano dal laboratorio. Solo lì dentro succede. Allora comincio a guardare i pezzi, quelli in lavorazione e quelli finiti e le idee arrivano senza fatica. Spesso sono varianti di pezzi che ho di fronte a me, più raramente si tratta di qualcosa di completamente nuovo”.
È difficile sottrarsi alla suggestione di ricercare l’origine dell’arte creativa di De Zan, nel decennio da lui trascorso, negli anni sessanta, a lavorare come educatore in un centro del Comune di Milano per ragazzi con disabilità mentali. Nell’opera di assistenza, l’incentivo alla creatività manuale, attraverso la produzione di vasi di ceramica, era un elemento pedagogico e di sostegno assai importante. La materia, plasmata con le mani nella pasta umida, gira sul tornio, sale e prende forma come un serpente a sonagli che si desta al suono ripetitivo del suo incantatore. L’artista e il folle hanno il dono di liberare le forme dalla materia. La differenza la fa la tecnica. L’artista si impossessa degli strumenti più adatti per estrarre le forme più belle e appropriate.
Come Vulcano nel proprio antro, De Zan nella sua disordinata bottega ama spingersi ai limiti del calore, sperimentando diversi utilizzi del grès e della porcellana: materiali che richiedono per la cottura temperature molto elevate e una ricerca particolare sia riguardo agli impasti che alla composizione degli smalti. La tecnica vasaria giapponese ha dato a De Zan la chiave per far accendere le forme nella cottura più giusta anche se rischiosa. Della tecnica del raku ha scoperto la sobrietà che gli ha permesso di realizzare oggetti anche simbolici, tazze per la cerimonia del tè, vasi e pannelli decorativi. Il raku, con la sua ricottura cruenta a temperature estreme, educa all’imprevedibilità perché non si sa cosa può succedere nel forno: è una lunga scuola di pazienza, di tecnica, e di accettazione zen della volontà della materia, che lontano dai nostri occhi si comporta in modo indipendente. Per prendere forma, l’opera deve superare la “prova del fuoco”. Ma De Zan non ha imparato soltanto dall’arte giapponese. Ha saputo appropriarsi delle tecniche delle parti più diverse del mondo: dai laboratori artigiani a Montefiore Conca (Romagna) a Fremura (Liguria), da Oslo a Taizé in Borgogna (dove operava il frate Daniel de Montmollin, influenzato dallo svizzero Philippe Lambercy).
I vasi creati da Guido De Zan hanno le forme più stravaganti e varie: vasi spigolosi, curvi, prospettive, figure, sogliole… A volte fanno dubitare di poter stare in equilibrio. Ma la loro vitalità e originalità sta nei graffiti che percorrono la loro superfice (e mi ricordano il segno pittorico di Tullio Pericoli). Bruno Munari, nel 1994, ha parlato giustamente di “pelle dell’argilla”, notando che “Guido è uno dei pochi ceramisti che si preoccupa di dare non solo una forma ai suoi oggetti, ma anche una pelle particolare, una texture fatta a mano da lui stesso, secondo la forma dell’oggetto”. Forme solo a prima vista semplici ed essenziali, solo apparentemente spoglie di decori, smaltate o lasciate naturali così che la stessa materia possa esprimere la propria texture e colorazione, caratterizzano tutta la produzione di De Zan, dall’oggetto d’uso al pezzo unico ‘d’arte’, piccole sculture a tema. “L’argilla [...] se è solo liscia vuol dire che interessa solo la forma, ma se invece ha una superficie texturizzata allora è più interessante perché ha un motivo in più per essere osservata”.
Come le bottiglie nei dipinti di Giorgio Morandi, ad un certo punto i vasi di De Zan hanno iniziato ad accostarsi e raggrupparsi. Queste “nature morte” sono dei dispositivi per vedere: siamo noi che con esse vediamo e superiamo l’eccesso di visività che ci circonda. Abbiamo un grande bisogno di selezionare per fare ordine nel caos di ciò che vediamo: artisti come Morandi e De Zan ci forniscono dei punti di appoggio con le loro nature di oggetti morte che sono una sorta di “totem domestici”.
Le nature morte sono delle messe in scena. Gli oggetti diventano simulacri di personaggi che, con le loro forme, ci restituiscono il teatro della vita. I Teatrini con forme geometriche, ma anche le Torri (sorta ziggurat composte di segmenti sovrapposti a piramide), i Paesaggi (colline-nuvole disposte su vari piani come quinte di una scena), le Cattedrali e persino i Percorsi (scatole di porcellana dove fluttuano linguette che paiono danze di pesci), sono oggetti in movimento. Affiancano i lavori chiamati ‘Teatrini della vita’ che fanno pensare alle opere di Fausto Melotti: telai di legno che contengono personaggi diversi che si prendono ciascuno un ruolo, come nei presepi.
In tutti gli oggetti creati da De Zan, sia singoli che accostati tra loro, domina un senso straordinario di leggerezza: “I miei lavori mostrano una tendenza alla leggerezza e la ricerca di un equilibrio stabile. Per i materiali che compongono la ceramica, la leggerezza non è facile da raggiungere. Quello che cerco di fare è trasmettere a chi guarda il mio lavoro una sensazione di leggerezza. Spesso per le mie ceramiche utilizzo terre chiare come la porcellana e un impasto di grès mescolato alla porcellana (…). Anche i segni che decorano i vasi consistono in linee sottili, che incrociandosi e in alcune parti infittendosi, danno l’impressione di chiaro-scuro, di ombre-luci tipico dei disegni su carta o delle stampe tratte da incisioni”.
In questo “alleggerire la materia” sta il senso più profondo del lavoro di De Zan che produce oggetti di un’allegria malinconica, colori smorti ma mai freddi, liberi da ogni condizionamento della materia, capaci di concentrare l’universo in forme semplici e al tempo stesso assai elaborate. Un pulviscolo poetico ricopre questi oggetti che sembrano quasi staccarsi e distinguersi dallo sgomento del mondo.
Questo testo è l’introduzione al volume di Guido De Zan, Un’idea di leggerezza, An idea of lightness, a cura di Eugenio Alberti Schatz e Anty Pansera, progetto grafico di Paola Lenarduzzi, Corraini edizioni.