Germania al bivio: Kiefer e Feldmann

19 Febbraio 2014

La storia culturale della Germania è punteggiata da piccoli e grandi contrasti irriducibili, tesi e antitesi che camminano fianco a fianco, rincorrendosi, sparendo a tratti per poi ritornare ciclicamente. Queste polarità non sono mai destinate, apparentemente, a sposarsi in una sintesi ideale, e raramente quel che c’è in mezzo assume un significato autonomo, o costituisce una reale alternativa; si sta fermi al bivio per pochi istanti prima di gettarsi anima e corpo da una parte, o dall’altra. Tra le tante coppie d’opposti che hanno dato un carattere particolare, e un ritmo specifico, alla storia dell’arte tedesca, la più longeva e facile al rinnovamento, è di sicuro il contrasto quasi esasperato tra indugio nel turbamento e ostentazione d’allegrezza, cupezza contro (spesso amara) ironia, gravità materica contro levità di concetto.

 

Il libro di Massimo Minini, Kiefer e Feldmann. Eroi e antieroi dell’arte tedesca contemporanea (Johan & Levi), tratta un particolare momento della storia dell’arte tedesca, che inizia quando lo sciamano Beuys è già diventato vecchio nume tutelare per le più giovani generazioni di artisti, attraverso la lettura dei lavori, e della vita, di due autori in particolare. La struttura stessa del titolo è in sé ossimorica, e richiama anche visivamente il contrasto di fondo che sottende il testo: la prima parte, secca e minimale, lascia spazio solo ai due cognomi, Kiefer (Anselm) e Feldmann (Hans-Peter), ma immediatamente interviene quel sottotitolo così onnicomprensivo, vasto, troppo vasto per un libricino tanto breve “eroi e antieroi dell’arte tedesca contemporanea”.

 

Chiaramente è impossibile ridurre la storia dell’arte (anche solo una storia dell’arte…) allo “scontro” tra due individualità artistiche, sebbene importanti, e ben rappresentative di discorsi paralleli e parimenti significativi per l’arte tedesca della fine del ventesimo secolo, come quelle di Kiefer e Feldmann. E l’impossibilità è elevata al quadrato, se si pensa al tempestoso scenario storico nel quale queste vicende artistiche si compiono: la Germania del tardo dopo-guerra, del boom economico, della RAF, della divisione e dell’unificazione, che si trasforma ed evolve fino a diventare il gigante europeo di oggi. Insomma, sicuramente l’intento di Minini, ironico quanto sfacciatamente personale nella descrizione delle faccende artistiche di cui il testo parla, non è, e non può essere quello di tracciare una “vera” pagina di storia dell’arte.

 

Piuttosto questo libello ci restituisce l’impressione, schietta e informale, di un amante e conoscitore dell’arte tedesca, il quale, sebbene cerchi, almeno a tratti, di portare avanti il discorso senza ostentare palesi favoritismi, certo pende da una parte (la parte del simpatico Feldmann, più allettante di quella del cupo Kiefer). Un favoritismo determinato anche dai casi della storia. Infatti, se Kiefer è diventato uno dei nomi di spicco tanto del mercato quanto del sistema delle mostre e delle pubblicazioni, Feldmann rimane personaggio, sì famoso, ma ancora di nicchia, anche meno rappresentativo dello stesso mood che impersona, se paragonato ad altri artisti tedeschi che cavalcano l’onda dello shock lieve e della leggerezza provocatoria, come Martin Kippenberger ad esempio. La propensione a tifare per il perdente è tra le più umane delle inclinazioni, ma qui l’istinto è accompagnato da un’onesta ammirazione, per un artista e un uomo che non cede all’eccesso sentimentale, che cammina sul limite sottile tra serietà e ridicolo senza mai eccedere da una parte o dall’altra.

 

Sull’altro versante Minini descrive un Kiefer mondano, che si prende sempre troppo sul serio, con il suo maestoso studio di Parigi, i suoi dipinti giganteschi, pesanti, e spesso troppo carichi di memorie tetre e pensieri ostentatamente universali. Ciò non di meno lo scrittore sa bene che sarebbe scorretto sottovalutare il valore di quest’artista, il quale rappresenta un sentire nazionale molto pronunciato, il cui lavoro è un buono specchio dei suoi tempi, sebbene la realtà, nel caso di Kiefer, appaia spesso trasfigurata, come nelle favole o nelle leggende. Nel testo si fa più volte riferimento al fatto che Kiefer sia stato allievo di Joseph Beuys; Anselm stesso parla sovente, direttamente e indirettamente, dell’influenza operata su di lui dalla figura dell’artista di Düsseldorf. Ma anche dalla più frettolosa delle letture dell’opera di Kiefer, e attraverso una rapida, impressionistica, comparazione con quella di Beuys, si potrà evincere che il più giovane autore ha sì attinto a piene mani da certi modi e stilemi del più vecchio maestro (una particolare attitudine nel trattamento della materia, e, concettualmente, il richiamo al fantastico nascosto nella trama dei veri eventi della storia), ma ha anche completamente ignorato una altrettanto rilevante caratteristica della sua attitudine umana e artistica, componente che ha reso Beuys quello che è stato e continua a essere, ossia la sua disarmante ironia.

 

Joseph Beuys è riuscito nel raro intento di rendere l’ironia, un’ironia spesso un po’ esagerata, didascalica, molto tedesca, strumento necessario per farsi prendere sul serio (basti pensare alla sua performance irrealizzata e irrealizzabile “Innalzamento del muro di Berlino di 5cm per migliorarne le proporzioni”, o alla disarmante semplicità politica della canzone “Sonne Statt Reagan”, cantata nel 1982 contro la politica militarista di Ronald Reagan), in questo senso allievi favoriti di Beuys sono anche tutti quegli artisti tedeschi della generazione dei nati negli anni ʻ40 e ʻ50 che hanno usato una risata ruvida e dissacrante quale strumento creativo e di pensiero, tra cui lo stesso Feldmann.

 

Allora chi è l’eroe, chi l’antieroe? Alla fine della lettura quel sottotitolo vasto, troppo vasto, appare automaticamente ridimensionato, perché non può esserci una risposta univoca a questa domanda. Kiefer prende per sé il ruolo dell’eroe, di chi si carica il fardello della storia sulle spalle per regalare a tutti gli altri la redenzione, ma la sua serietà eccessiva finisce per screditarlo, dall’altra parte Feldmann, che non ha bisogno del fasto e dell’eccesso, tanto nella vita quanto nell’arte, si accaparra quel che resta, il ruolo di antieroe, di energico dissacratore. Tuttavia sembra apparire più eroico, all’autore del libro, il gesto minimo di Feldmann, collezionista attento d’inezie, ammiratore della normalità, e per questo più efficace e generoso cantore della sua epoca. Se l’eroismo, in quanto tale, non attira Feldmann, comunque la sua azione artistica compie quello che gli eroi normalmente compiono, ovvero il salvataggio della propria contemporaneità. Kiefer, d’altro canto, sebbene apparentemente invischiato nelle faccende della storia, cammina sopra di esse a pelo d’acqua, senza mai immergersi, senza sporcarsi del tutto, e questa caratteristica iscrive il suo lavoro più nel registro dei miti che a quello delle saghe eroiche.

 

La comparazione particolare e personale compiuta da Minini apre uno spiraglio ulteriore sull’affascinante mondo dell’arte tedesca contemporanea, che cavalca questi stessi temi, segnata dai medesimi forti contrasti, e c’invita a riconsiderare gli opposti sotto una luce diversa, adottando una prospettiva nuova che sappia mettere in dubbio le nostre certezze. Il confronto tra le due singolarità artistiche di Kiefer e Feldmann, l’impressione tratteggiata dall’autore, può rivelarsi un buon punto di partenza per una riflessione più ampia e approfondita sulle vicende artistiche odierne di una nazione che ha dato, e forse dà ancora, il ritmo all'Europa.

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