Il meme che non fa ridere

29 Ottobre 2015

Venerdì 4 settembre 2015. Scrivendo su Google le lettere “ay”, la prima parola suggerita dall’autocomplete è “Aylan”.

 

Tutti sappiamo della foto del “bambino che dorme”, tutti abbiamo visto l’immagine che ha “commosso il mondo” e “scosso le coscienze”, pubblicata da tutti i quotidiani, mostrata da tutti i media, rimpallata tra le polemiche su tutte le bacheche di tutti i social. Tutti conosciamo il nome del bambino (“scognomato” come si conviene a praticamente tutti i “piccoli” costruiti dal discorso giornalistico), tutti ne conosciamo la storia. Aylan (in realtà, Alan) è entrato nell’enciclopedia globale: la sua voce su Wikipedia è stata creata la notte tra il 2 e il 3 settembre. Cioè, subito.

 

Schema dell’immagine del “bambino che dorme”

 

È da ingenui – o romantici del cinismo – pensare che la foto non avrebbe dovuto essere pubblicata. È un’immagine troppo fotograficamente e giornalisticamente perfetta. Un frammento della disperazione del mondo impaginato in una composizione di sorprendente essenzialità, rigore formale, compostezza. E per questo ancora più potente, perché capace di fare scattare immediatamente un meccanismo empatico, identificativo fortissimo: “sembra/poteva essere mio figlio/fratello/cugino/nipote”.

 

Gli amici antispecisti sottolineano sempre, seguendo Derrida, come la vera sfida nei confronti dell’altro sia l’accettazione del radicalmente altro da sé, di quello che il nostro occhio riconosce – perché non riconosce – come “diverso”, “alieno”, “mostro”, non di quell’altro in cui possiamo specchiarci agevolmente: è facile insomma amare il proprio gatto, umanizzarlo ancora più di quanto non sia umano già di suo (di quanto non sia “animale”, dotato di anima). Meno facile amare una gallina o un maiale, comprenderli, ritrovarvisi.

 

In questo chiasmo, tra la forma composta del “cucciolo” Aylan e il contenuto disperato della storia che l’immagine ci racconta, il successo della foto. Amare, comprendere, ritrovarsi in Aylan è facilissimo. Rubo le parole a un mio contatto Facebook: «Il dolore […] dei simili mi/ci tocca di più. Mi dico questo perché penso che la foto del bambino siriano non avrebbe ‘scosso le coscienze’ se fosse stato di pelle più scura, o vestito con abiti etnici, o denutrito. È un’immagine perfetta per scuotere le coscienze perché sembra un bambino italiano normale, non povero, non straniero, non violentato, non straziato da una bomba, non insanguinato. Di immagini peggiori è piena la rete, basta cercare, ma non mi/ci scuotono nello stesso modo». Il “bambino che dorme” è altro, per dire, dai profughi giannelliani, scuri come il carbone e tutti strapazzati, ed è per questo che è meno altro: non è un “loro”, è un “noi”.

 

L’Aylan di sabbia realizzato dall’artista indiano Sudarsan Pattnaik, archivio Getty Images

 

L’immagine non poteva non essere pubblicata, per la sua forza simbolica e il suo potenziale mediatico, per la sua capacità di essere sineddoche, carotaggio in profondità di un momento del mondo. E sineddoche spendibile, vendibile. Altra cosa, per esempio, porsi degli scrupoli sul pubblicare o meno i contenuti diffusi dall’ISIS: l’horror in alta definizione confezionato con tecniche hollywoodiane dallo Stato Islamico non è testimonianza del mondo, ma propaganda progettata per diventare virale. Non mostrarlo dovrebbe essere un gesto non tanto etico, quanto politico, il rifiuto di una complicità.

 

Tornando a noi. Un conto è pubblicare/usare l’immagine di Aylan, altro discorso è il modo in cui è stata pubblicata/usata: le parole che le sono state affiancate, la manipolazioni di cui è stata oggetto. “il manifesto” l’ha posta in apertura (come praticamente tutti i quotidiani nazionali a eccezione de “La Repubblica”), con il titolo “Niente asilo”. Si tratta evidentemente di un gioco di parole: asilo “politico”, “rifugio”, “protezione”, ma anche “nido”, “scuola materna”, data la doppia condizione – di bambino e di profugo – del bambino curdo-siriano. Nel mare di commenti postati a caldo alla pubblicazione della prima pagina su Facebook i tanti critici criticano proprio non tanto la scelta dell’immagine in sé (alcuni, ovviamente, anche quella), quanto la “didascalia” che è stata scelta per commentarla, tecnicamente una battuta: “Il gioco di parole da due lire. […] Invocate pure il diritto di cronaca, ma è come se alla liberazione di Auschwitz qualcuno avesse titolato ‘a tutto gas’”. “Sapete cos’è questo titolo su quella foto? Una battuta”. “Una battuta di Zelig”.

Niente asilo, prima pagina de “Il Manifesto”, 3 settembre 2015

 

Se “il manifesto” ha scelto il gioco di parole per appropriarsi dell’immagine, centinaia di utenti da tutto il mondo hanno modificato o ricreato l’immagine del “bambino che dorme” per rendervi omaggio, sancendone lo status di instant icona della condizione dei profughi siriani. Le immagini hanno girato con due hashtag: il turco #KiyiyaVuranInsanlik e l’internazionale #HumanityWashedAshore. Come sempre accade, prima si è diffusa la pratica, poi la pratica è stata bignamizzata (es. 17 Heartbreaking Cartoons From Artists All Over The World Mourning The Drowned Syrian Boy, del sito leader nelle top virali, Buzzfeed), infine la pratica è stata parodiata. Rubo le parole di un altro mio contatto Facebook: «Oggi puntualmente spuntano le prime barzellette ciniche sul bambino annegato (‘già non sopporto i bambini vivi in spiaggia, figuriamoci quelli morti’), le prime vignette e immagini parodistiche. Il meccanismo è sempre lo stesso e somiglia terribilmente a quello del cinema popolare di un tempo. Prima venivano fuori i film seri di Maciste, Ursus ecc... poi il mercato si saturava e scattava la parodia: ‘Maciste contro Dracula’ e similia». Il fatto è che, un po’ come nel caso della “freddura” del “manifesto”, anche la quasi totalità degli omaggi ha come un retrogusto, stavolta involontariamente, umoristico o parodico.

 

Le 17 immagini selezionate da Buzzfeed sono ascrivibili al genere di tormentone visivo supernaïf che gli utenti più smaliziati dei social attribuiscono ai poveri “analfabeti funzionali” (o, con modalità diverse, ai “gentisti”): colori evidenziatore, glitter, scritte in Comic Sans, deformazioni dovute alla compressione Jpg, cuoricini, stelline, gattini e via così. Con l’eccezione di una sola immagine (in cui vediamo una specie di sogno what if in cui Aylan – lo riconosciamo dalla “divisa” calzoncini blu e maglietta rossa – e quello che identifichiamo come suo padre camminano sorridenti lungo la battigia), tutte riprendono la posa immortalata dalla foto – anzi, dalle foto – aggiungendo elementi o ricontestualizzandola. Aylan diventa un angioletto caduto, tiene in mano dei palloncini, è cullato da un angelo o raccolto dalla mano misericordiosa del Mediterraneo, è un corpo la cui fossa è stata scavata da sceicchi e affaristi, viene pianto dagli animali che popolano il mare, è in un lettino o in un letto, si ricongiunge con la madre (ed entrambi sono fantasmi), ha un secchiello per giocare con la sabbia, ha davanti una barchetta di carta.

 

Aylan con dieci palloncini. Fonte @Joyce_Karam

 

È chiaro che lo slancio emotivo di questi che il sito americano chiama “artisti” (ma immagino che la maggior parte di loro lo sia allo stesso modo di quei personaggi che hanno scritto un’autobiografia o un libro di barzellette e che per Wikipedia diventano “scrittori”) è sincero e forte, ma non si può non dire fuori dai denti che si tratta di immagini brutte, di pessimo gusto, non solo e non tanto per il soggetto, ma proprio per il modo, estremamente goffo, con cui questo è stato trattato: lo stesso identico modo con cui gli utenti smaliziati di cui sopra realizzano i meme parodia della gaffe di un politico o di un altro evento strano o divertente. Il bricolage di questi “artisti” non si poneva certamente scopi umoristici, eppure si è posto, di fatto, a tutti gli effetti, entro il “cerchio magico” delle pratiche ludiche internettiane. Del resto, anche quello all’origine del Botched Ecce Homo (o Potato Jesus), uno dei meme più clamorosi degli ultimi anni, voleva essere, nelle intenzioni della sua pia esecutrice, un gesto riparatore, di devozione e di suffragio.

 

L’Ecce Homo del Santuario della Misericordia di Borja, Spagna: dall’originale alla versione “restaurata” (2012)

 

Alcune giocose e quasi luccicanti, altre più “pastellose” e “poetiche”, le immagini sono tuttavia terribilmente tetre. In un paio di casi, anche forzate, prive di senso (e l’incongruenza logica e visiva, l’errore in senso lato, è alla base del meccanismo comico che sovrintende alla generazione dei meme): perché un bambino dovrebbe giacere sdraiato faccia in giù sulla battigia mentre guarda una barca di carta galleggiare in mare? Perché dovrebbe tenere in mano dieci palloncini? Quest’ultima immagine, poi, è sorprendentemente simile a uno degli stencil nello stile, appunto, surrealmente tetro, di Banksy. Torno a rubare le parole del mio amico: «Non so se sia stato opportuno o no pubblicare la foto del bambino morto sulle coste turche, alla fine propendo per il sì. Ma prima di farci un fotomontaggio per esprimere un pensiero o un’idea, per far ridere o piangere, ci penserei otto volte. E anche prima di condividerlo su Facebook, prima di cliccare il tastino, non sarebbe meglio fermarsi un attimo a pensare se per caso, non si sa mai, sia meglio di no?». Un contatto del mio amico commenta polemico postando la storica foto della “Napalm girl”, scattata da Nick Ut nel 1972, in Vietnam, vincitrice del Pulitzer: se ha avuto senso pubblicare quella, perché non pubblicare anche questa. Il mio amico risponde chirurgico: “Ecco, ci faresti un fotomontaggio comico?”. Il punto, cioè, di nuovo, non è la foto in sé, in quanto documento, manufatto espressivo o quel che sia, ma le forme di manipolazione al centro delle quali è stata posta.

 

Banksy, Can’t beat the feeling, 2004

 

Faremmo un fotomontaggio con la bambina dal cappottino rosso di Schindler’s List o con la foto dei bambini del ghetto di Varsavia con le mani in alto? Probabilmente no, o almeno non per esprimere la nostra solidarietà. Banksy ha usato la Napalm girl di Ut per il suo Can’t beat the feeling (2004), trasformandola in una Dorothy Gale – una delle sue ossessioni – disperata, accompagnata mano manina non dallo Spaventapasseri, dal Boscaiolo di latta e dal Leone codardo, ma da Topolino e Ronald McDonald. Quello di Banksy, però, è un discorso che programmaticamente riprende icone, desemantizzate dall’usura che hanno subìto, e vi sovraimprime connotazioni protestatarie a mezzo di un black humour basato su decontestualizzazioni e ricontestualizzazioni, su giustapposizioni rivelatrici: le sue sono parodie al catrame, che prendono intenzionalmente di mira i soggetti, “colpevoli” e “innocenti”, su cui parassitariamente si innestano. Resta la somiglianza plastica tra il meme di Aylan e lo stencil di Banksy.

 

Tutto queste considerazioni non, o comunque non tanto, per discettare del buono o cattivo gusto di attivisti o utenti social, quanto per riflettere su come le modalità di manipolazione, appropriazione o creazione di contenuti siano cambiate e come vengano sempre più spesso mutuate da luoghi e modi altri, da altri generi di Internet. Basta confrontare le immagini di Buzzfeed, della scultura di sabbia realizzata da un artista indiano di fama mondiale, di un’azione messa in scena su una spiaggia marocchina, di un graffito brasiliano e di una fiaccolata organizzata a Sydney per capire di cosa stiamo parlando.

 

Dal mio punto di vista, il caso del “bambino che dorme” è importante perché dimostra che le modalità di appropriazione di un dato tema o di una data figura, e in generale di un qualsiasi contenuto mediale, stanno andando sempre più verso forme di bricolage, di creatività vernacolare, ossessivamente preoccupate dal grado di manipolazione e personalizzazione che pongono in essere: Don’t Keep Calm e personalizza. Tempo fa pensavo che i meme fossero tutti dotati di una qualche componente umoristica, che le derivava dalla loro natura ludica: i meme non sono tristi o drammatici, non esistono meme del suicidio in diretta del tesoriere della Pennsylvania Budd Dwyer (riportato sugli schermi da Mr. Robot) o dell’uomo che si getta da una delle Torri Gemelle, per quanti questi siano stati eventi dall’impatto mediatico incredibile e in certe forme siano diventate immagini virali.

 

Se esistono, quei meme sono fatti “apposta”, in “cattiva fede”, da cinici che si compiacciono del proprio cinismo o, altrimenti, da troll che prendono di mira non il soggetto rappresentato ma la comunità che l’ha preso in carico e ne ha fatto il proprio simbolo-tormentone (lo abbiamo visto con le parodie dei profili arcobaleno). Esistono meme di questo tipo, per esempio – pochi – sul Gheddafi linciato o sul Mussolini appeso di Piazzale Loreto: ma perché in casi di questo tipo scatta il meccanismo protestatario del dileggio, della vendetta, su personaggi tutto tranne che neutrali, tutto tranne che possibile oggetto di un consenso unitario e di segno positivo.

 

L’unico precedente possibile del “meme tragico” del “bambino che dorme”, l’unico vero caso accostabile, è quello del motto-tormentone “Je Suis Charlie” e della fiumana di disegni pro-giornale e pro-satira che sono stati realizzati contestualmente. In quel caso, però, il clash tra evento tragico e componente umoristica era dovuto alla tematizzazione di quest’ultimo: “Charlie Hebdo” è un giornale satirico che è stato attaccato per la sua dedizione alla satira “senza se e senza ma” e i primi a “scherzarci su” sono stati proprio gli autori e i fumettisti sopravvissuti all’attacco.  Il riso, amaro, in quel caso, era programmatico. Per inciso, “Charlie” ha fatto satira anche sulla foto di Aylan con almeno un paio di vignette e in una di queste compare Ronald McDonald.

 

Quello del “bambino che dorme” è un caso di pedopornografia dell’immagine come qualcuno ha voluto dire? Non credo. Non più almeno di tutto quello che vediamo ogni giorno sotto tutti i colori della cronaca. Pedopornografia no. Clickbait certamente. Totem usa e getta per le barricate social idem. Simbolo e monito speriamo. Epicentro di forme di bricolage selvaggio e un po’ ottuso, di una produttività testuale che sempre più elide il significato semantico a favore di quello pragmatico, che fa prevalere il gesto personale sul senso, le intenzioni sul risultato, la comunicazione sulla significazione, senza dubbio.

 

 

(Ringrazio Roberto Di Palma, Alberto Scotti e Ligas per i suggerimenti, volontari e non)

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