Omnia vincit social

8 Luglio 2015

L’unica famiglia naturale è quella composta da due Marò arcobaleno

 

Mentre scrivo queste righe, il pomeriggio di sabato 27 giugno 2015, la mia homepage di Facebook è tappezzata di bande colorate: rosso, arancio, giallo, verde, blu e viola. Oggi, in molte città italiane, inclusa quella in cui vivo, Torino, si svolge la parata del Gay Pride, di cui la bandiera arcobaleno è il simbolo dalla fine degli anni Settanta. Ma il motivo di questa euforia cromatica socializzata, pure legata strettamente al movimento LGBT, è diverso ed esula dalla annuale ritualità legata alla manifestazione.

 

Ieri, 26 giugno, una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti ha sancito l’inalienabilità del diritto al matrimonio per tutti i cittadini che vivono sul territorio americano, conferendo pari dignità, come titola l’apertura del New York Times (“Equal Dignity”), al matrimonio eterosessuale e a quello omosessuale. Si tratta di una sentenza storica, che il social network più popolare non ha perso l’occasione di festeggiare: sulla pagina Let’s Celebrate Pride è possibile trasformare con un click la propria foto profilo in una bandiera arcobaleno, grazie all’applicazione automatica di un filtro (più articolato di quelli di Instagram, ma la logica è la medesima). Facebook diventa così, nel giro di qualche refresh, un unico flusso di immagini virate a sei colori e status carichi di gioia e commozione, contraddistinti dagli hashtag #MarriageEquality e #LoveWins (per la verità, poco usati dai miei contatti italiani).

 

Passa qualche ora e nel flusso – abbacinante, come suggerito dall’attore George Takei (il capitano Hikaru Sulu di Star Trek) in un post condiviso da decine di migliaia di contatti – cominciano a insinuarsi, sotto l’emblema degli stessi colori, soggetti diversi: scorrendo la home non trovo più solo foto, per lo più selfie, di utenti sorridenti, ma anche il volto anacronistico di Galileo Galilei, quelli di Stalin e di Putin (due personaggi non propriamente gay-friendly), e poi Vieri che bacia Pippo Inzaghi, Papa Francesco che bacia un bimbo (immagine che lo screenshot attribuisce al giornalista folgorato sulla via di Medjugorje Paolo Brosio, ma ovviamente si tratta di un fake), Honecker che bacia Brezhnev. E ancora, continuando a scorrere il tempo e continuando io a scorrere la home, in una turbinosa teoria di icone più o meno pop, ecco Lino Banfi, George W. Bush Sr., Socrate, Padre Pio, Jon Snow (da Game of Thrones), Giancarlo Magalli (uno dei social heroes del 2015 italiano), Hans l’uomo talpa (dai Simpson), Chang (dalla webserie di Lori Del Santo The Lady), Burzum (figura simbolo del black metal norvegese, autodichiarato neonazista), Matteo Salvini e Carlo Giovanardi (strenui oppositori, tra le altre cose, dei matrimoni omosessuali). Tutti arcobaleno.

 

Anche le foto profilo di molte fanpage ufficiali (per esempio, quella di Cristina D’Avena, amatissima dalla comunità gay) e i loghi di molti brand vengono arcobalenizzati (Visa rilancia acconciamente il proprio payoff come “Love. Accepted everywhere.”), spesso loro malgrado: è questo il caso della Mulino Bianco, il cui marchio, una volta passato al filtro arcobaleno da qualche troll (la figura del disturbatore di professione della Rete), non può non assumere una connotazione ironica, se nel settembre 2013 il presidente Guido Barilla aveva dichiarato che mai l’azienda avrebbe prodotto spot con famiglie gay, scatenando un putiferio, boicottaggi inclusi. Alcuni utenti postano sornioni foto che li ritraggono assieme ad amici dello stesso sesso: immagini cui basta la sola tinta arcobaleno per conferire una nuance umoristica e sottilmente allusiva, prima assente, a un semplice abbraccio o a un momento rubato a un aperitivo. All’appello non mancano poi gli onnipresenti gattini (secondo molti, assieme al porno, il vero motore della Rete). E gli onnipresenti Marò. Grande assente invece: Gianni Morandi.

 

Massimiliano Latorre e Salvatore Girone

 

In realtà, il gioco morettiano del “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?” trova il suo rovescio – non narcisistico, ma squisitamente valoriale e identitario – nella domanda mentale che è impossibile non porsi più o meno in questi termini: “Non è che se non metto la foto arcobaleno la gente pensa che sono contro i matrimoni gay?”. Ce lo chiediamo io e mia moglie e, immagino, molti altri.

 

A proposito di Marò, proprio ieri – 26 giugno – qualcuno ha creato, a partire da un tweet del fumettista Davide La Rosa (non accreditato, però, come autore della battuta), la pagina L’unica famiglia naturale è quella composta da due Marò, l’esempio di maggiore successo (conta già più di quattromila like), ma non l’unico, della satira scatenatasi nei confronti del motto anti-matrimoni gay e anti cosiddetta ideologia gender. Il caso dei due Marò – i due fucilieri della marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, trattenuti in India dal 2012 con l’accusa di duplice omicidio – rappresenta uno dei capisaldi, assieme al vessatissimo Fabrizio Corona (finalmente scarcerato, e forse così il tormentone cesserà) e alle dimenticatissime foibe, di quello che l’intellighenzia umoristica di Facebook ha definito Partito Benaltrista, un movimento popolare spontaneo che non perde occasione per ribadire, di fronte a qualsiasi evento reo di avere monopolizzato anche brevemente l’attenzione dei media, che sono ben altri, appunto, i problemi di cui ci si dovrebbe occupare, chiedendo compatto e a gran voce: e i Marò? Ecco, anche la bandiera arcobaleno, a modo suo, si è preoccupata di loro.

 

 

Come si sente un arcobaleno in una camera d’Eco?

 

Il caso dei profili arcobaleno, a tutti gli effetti un Internet meme (ne abbiamo parlato parlando di emoticon e ne ha parlato, più di recente, anche Bianca Terracciano, seppure senza usare esplicitamente questo termine), segue un pattern azione-reazione consolidato all’interno dei social network; un fenomeno su cui ha già avuto modo di riflettere, per esempio, il semiotico Massimo Leone. Così come nel caso del motto Je Suis Charlie, diffusosi come attestazione di solidarietà alla redazione del magazine satirico parigino Charlie Hebdo dopo l’attentato del 7 gennaio, alla diffusione cosiddetta virale di una data pratica online è subito seguita la diffusione, altrettanto virale, per quanto magari minoritaria, di una pratica controcorrenziale che, parassitaria, se ne è proposta cinicamente e narcisisticamente – sottolinea Leone – come caricatura: Je Ne Suis Pas Charlie, ondata di politicamente scorretto opposta a un’ondata di politicamente corretto (Je Suis Charlie) generata dal politicamente scorretto (Charlie Hebdo).

 

Quando, come nel caso dei Je Suis contro i Je Ne Suis Pas, le controparti si trincerano sulle proprie posizioni, possiamo parlare, mutuando un termine dalla neonata computational social science (un paradigma importante di cui in Italia abbiamo un esponente importante, Walter Quattrociocchi), di echo chambers: la formazione di vere camere stagne discorsive all’interno delle quali riecheggia, appunto, uno stesso contenuto o contenuti fortemente omogenei (isotopici, in semiotichese), il cui valore, per la comunità che vi afferisce, è squisitamente confermativo di credenze consolidate (si parla di confirmation bias), portando a una radicale e irriducibile polarizzazione delle posizioni in campo, prive di aree di sovrapposizione. È questo il meccanismo che sovrintende alla circolazione e al successo – inteso anche e soprattutto come impermeabilità al debunking (la confutazione con strumenti filologici e scientifici) – di bufale, informazioni pseudoscientifiche e teorie complottiste.

 

Abbiamo visto all’opera questa polarizzazione ottusa anche a seguito delle dichiarazioni su social network, (mancato) filtraggio delle informazioni e utenti “imbecilli” rilasciate il 10 giugno da Umberto Eco, nel corso della conferenza stampa tenutasi a conclusione della cerimonia per il conferimento della laurea honoris causa in Comunicazione presso l’Università di Torino (la lectio magistralis di Eco era incentrata, peraltro, proprio sul complottismo, dal falso Graal di Dan Brown alla numerologia mendace legata all’11 settembre). I media e i social italiani (evidentemente una semiosfera ancora più autoreferenziale della neotelevisione echiana), ma anche molti addetti ai lavori o esperti di settore, con l’eccezione di poche voci fuori dal coro (come Francesco Mangiapane, guarda caso semiotico anche lui), hanno generalmente estrapolato una singola frase, quella incriminata, dal discorso di Eco (integralmente reperibile online) e su di essa hanno imbastito una vera campagna anti-Eco/pro-social durata alcuni giorni e che ha di fatto riportato in auge la dicotomia apocalittici vs. integrati. Elevandola al quadrato: si è generalmente attribuita la prima posizione a Eco (un “vecchio trombone”), e ci si è autoascritti all’altra, mostrando quanto sia facile cadere nella tentazione di ridurre i discorsi sociali, anche quelli più complessi e articolati, a una dinamica di questo tipo. Finendo per dare ragione tanto all’Eco del 1964, quanto a quello del 1975 (anno di pubblicazione del Trattato di semiotica generale nel cui capitolo 3.9 si definiscono come ideologici sistemi di pensiero-trattore come questi) e del 2015.

 

 

 

Pratiche stilistiche, pratiche stilose, pastiche stilosi

 

Va notato come il caso delle foto arcobaleno sia meno polarizzato, come presenti – opportunamente, iconicamente (in senso strettamente semiotico-peirceano) – più sfumature rispetto a quello di Charlie (per quanto, ovviamente, anche i No Charlie abbiano perorato la propria contro-causa con motivazioni assai diverse gli uni dagli altri). L’opposizione alla pratica di cambiare e fare arcobaleno la propria foto e il proprio profilo non è leggibile a senso unico e, soprattutto, raramente sembra poter salire a ritroso fino all’istanza originaria da cui la pratica stessa ha preso le mosse (l’uguaglianza di diritti). Molto spesso, poi, non è che un modo idiosincratico di prendervi parte. Postare sulla propria bacheca una foto arcobaleno del politico Giovanardi è un’operazione ludica, un pastiche, la cui portata satirica non ha per bersaglio né il movimento LGBT, né la campagna #LoveWins, ma lo stesso Giovanardi. Diverso il caso di una foto arcobaleno che ritragga i due Marò: se neanche in questo caso il bersaglio è il movimento in sé, la satira potrà essere indirizzata, a seconda dei contesti, contro la campagna virale, pratica-tormentone a cui si risponde con un altro tormentone social (i Marò), o contro lo stesso contro-tormentone e il suo pubblico di riferimento (i benaltristi di cui sopra).

 

In altre parole: quelle che la sociolinguistica e la linguistica pragmatica definiscono pratiche stilistiche (stylistic practices), modalità di produzione testuale attorno alle quali si coagulano comunità (communities of practice) sociologicamente anche molto eterogenee, geograficamente dislocate e temporalmente localizzate o effimere (un caso eclatante di questa generatività e di questa convivialità è la lingua LOLspeak), non rappresentano forse un microcosmo discorsivo, comprendente algoritmi più o meno formalizzati di produzione testuale, testi e testi generati attraverso operazioni ipertestuali (operazioni di trasformazione e imitazione di testi pre-esistenti), i cui creatori, diffusori e interpreti si misurano mettendo alla prova una competenza specifica (si parla di “meme literacy”), di cui si cerca di dimostrare il più alto grado di competenza attiva possibile? Fare del proprio profilo una caricatura di un profilo arcobaleno, in altre parole, dimostra non solo la conoscenza di un contesto socio-culturale specifico (le rivendicazioni del movimento LGBT, la sentenza della Corte Suprema), ma anche della pratica, più o meno complessa, che consente di affermare di farne parte (“so cosa sta accadendo e lo dico mostrando di padroneggiarne il codice di riferimento”, ovvero arcobalenizzando la mia foto), e di quali figure possano veicolare uno scarto di senso significativo (per esempio, l’immagine di un personaggio notoriamente omofobo) pur condividendone la forma dell’espressione (il filtro colorato). Vince, in questo gioco, che può essere serissimo (l’uso dei meme in ambito politico è ampiamente documentato) o completamente demenziale e nonsense, chi riesce a forzare la formula o il template alla base della pratica, senza romperli (senza fuoriuscire dal formato prescritto), nel modo più creativo ed esagerato (è il caso di ricordare che alcuni flash mob di Harlem Shake si sono conclusi con l’arresto dei loro partecipanti). Pratiche come questa appaiono profondamente metadiscorsive e metalinguistiche e fortemente orientate, nella loro dimensione testuale ultima, quella pragmatica, alla componente fàtica del processo comunicativo (si parla di una “perlocuzione allargata”). Gli utenti vogliono dirci: “ci sono anch’io e sto partecipando, con voi, a modo mio” (un modo che può essere conforme o meno a quello normato dalla comunità).

 

 

Approvazione social e pecoroni arcobaleno

 

Un lungo instant-articolo di J. Nathan Mathias, ricercatore del MIT Media Lab and Center for Civic Media, pubblicato su The Atlantic, spiega come il flusso arcobaleno possa essere utilizzato da Facebook (qualora – si suggerisce con una battuta – non sia stato stimolato a questo scopo precipuo) per mappare e analizzare le azioni degli utenti, anche le più piccole (come premere il bottone mi piace di un dato contenuto o, appunto, cambiare la propria foto profilo), al fine di valutarne l’impatto nella ecologia dei profili.

 

Già nel marzo 2013 Facebook era stato protagonista di un fenomeno virale simile (non però esplicitamente supportato dal social attraverso pagine o app dedicate), incentrato sulla condivisione del logo – un uguale rosa su sfondo rosso (da confrontare con quello del partito Possibile) – lanciato dalla Human Rights Campaign a favore della marriage equality. Lo studio di questo caso citato da Mathias, effettuato da due ricercatori del team Facebook, ha mostrato come non tutti i meme incontrino la stessa facilità di condivisione da parte degli utenti. I meme tipici, ovvero le immagini buffe (come i famosi gattini), vengono condivisi rapidamente dagli utenti, anche se non durano nel tempo. Per quelli legati invece a “risky, costly actions”, come appunto dichiarare la propria posizione su temi politici e di rilevanza sociale (“sono a favore della marriage equality”), gli utenti hanno bisogno di una “social proof”, ovvero sono tanto più inclini a condividere, quanto più si trovano immersi in una cerchia di contatti amici che hanno già condiviso – in questo caso – il logo simbolo della parità di diritti.

 

Mathias sintetizza la grande domanda che sta dietro a questo tipo di ricerche, forse anche mosse da logiche da Grande Fratello, dal marketing e da profilature dei big data, ma nondimeno importanti anche e soprattutto in un’ottica extra-brand e socio-culturale in senso lato: “La scelta di battersi esplicitamente – anche se solo virtualmente – per ciò in cui un amico crede ha un qualche effetto sulla rete sociale di quell’amico, o è soltanto un gesto innocuo e che, in fondo, non costa nulla?”. In altre parole, attraverso “esperimenti naturali” di questo tipo, in cui cioè l’esperienza dell’utente non viene alterata e tutti vengono egualmente in contatto con gli stessi stimoli: “Facebook potrebbe verificare se l’effetto della sentenza della Corte Suprema sulle coppie omosessuali vari in base al numero dei loro amici con profilo arcobaleno. Anche adesso che il matrimonio omosessuale è legale negli Stati Uniti, fare coming out o rivendicare quei diritti decidendo di sposarsi continueranno a essere gesti socialmente coraggiosi. Forse, coppie che hanno un minore numero di amici esplicitamente di supporto [alla causa del matrimonio omosessuale] saranno meno inclini a sposarsi”.

 

 

È proprio questa “social proof” o, in altri termini, la pressione della approvazione o desiderabilità sociale – avvertita anche da me e mia moglie – ad agire in accordo o disaccordo con una data pratica e derivante dalla norma implicita che si istaura anche temporaneamente all’interno di una data comunità (come può esserlo una cerchia di contatti Facebook), che permette il diffondersi esponenziale dei profili arcobaleno. Si tratta di una versione 2.0 del tradizionale modello dell’agenda setting: del resto, i fenomeni cosiddetti virali sono proprio quelli di cui parlano tutti nello stesso momento, saturando la semiosfera, e di cui ci si stanca presto. Il conformismo contagioso giudicato alla base della valanga arcobaleno è stato prontamente stigmatizzato, in rigoroso accordo con il pattern a-discorso-segue-la-sua-satira, dalla pagina-evento Raduno dei pecoroni che riempiono Facebook di arcobaleni ma che domani torneranno a insultare i gay, creata domenica 28 giugno e – lunedì 29, mentre scrivo queste righe – già con 30.853 partecipanti. In buona sostanza, la pagina critica non il movimento d’opinione, ma la pratica che se ne è fatta espressione, perché esplosa sui social solo dopo che l’istanza e il simbolo relativo (la bandiera arcobaleno) che avrebbero dovuto esserne il motore primo e autonomo sono stati oculatamente assorbiti in una strategia corporate, brandizzati da Facebook (con la pagina-app dedicata), e solo dopo che l’obiettivo finale del movimento (l’equiparazione dei diritti) ha riguardato gli Stati Uniti: nulla di simile è accaduto, a livello globale, quando l’Irlanda ha inserito il matrimonio tra persone dello stesso sesso tra i diritti costituzionali, a seguito del referendum del 22 maggio. La pagina critica il gesto automatico, il riflesso social condizionato che ha portato ad aberrazioni – nel senso di una decodifica aberrante del messaggio – come un Mussolini arcobaleno, caricato, senza intenti ludici, né umoristici (mi si assicura, con stupore misto a preoccupazione), da uno dei contatti Facebook di un mio amico.

 

 

Brace yourselves: another meme is coming

 

Ha del poetico che il primo tra i miei contatti Facebook a cui avevo visto postare, sabato 27 giugno, una foto arcobalenata (peraltro un Giovanardi, quando quindi il meme era già entrato nella sua fase caricaturale), sia anche il primo a toglierla, caricando come foto profilo, all’1:26 di giorno 28, una normale selfie scattata con la webcam. Alle 10:30 di domenica, la mia home si presenta ormai del tutto de-arcobalenizzata, fatta eccezione per le piccole e lontane chiazze colorate che sono le miniature delle foto profilo di pochi stoici. Il sito satirico Spinoza sintetizza efficacemente la dialettica prima-dopo con un disegno che mostra un cassonetto targato Facebook traboccante di foto profilo arcobaleno e la didascalia “The gay after”.

 

Benito Mussolini, Carlo Giovanardi

 

Tutto ciò è accaduto nel giro di poche ore: un intero microcosmo discorsivo, fatto di pratiche di produzione testuale, di testi generati e testi al secondo grado (per dirla con Gérard Genette), è nato, esploso e collassato, per lasciare il posto, certo non senza residui o sacche di resistenza, ad altro. Mi chiedo a questo punto quale sarà – se ci sarà – il meme di oggi (domenica 28). E qualche post mi suggerisce che potrebbe essere l’isotopia Grecia: alla notizia del probabile, imminente “default a orologeria” del paese, alcuni contatti, (ancora?) pochi per la verità, grecizzano la propria foto profilo impiegando un filtro fai-da-te del tutto analogo a quello arcobaleno automatizzato da Facebook, ma basato appunto sulla bandiera greca. Il sito satirico Lercio riprende nel suo stile la notizia dell’assalto ai bancomat di Atene, che ha subito fatto sensazione: “Pensionato non ricorda il pin del bancomat e tiene la Grecia ancora in vita”.

 

Prevedere l’esplosione virale di un meme non è cosa facile: si può però individuare un nucleo discorsivo particolarmente fertile alla selezione memetica (c’è un elemento centrale d’impatto, che con Roland Barthes possiamo chiamare punctum, e una struttura variamente e, teoricamente, infinitamente smontabile e personalizzabile) e alla diffusione virale (o, meglio, alla sua diffondibilità su vasta scala, cui concorrono tutti i trucchi del plugging adorniano aggiornati al tempo del 2.0). Il 15 aprile un’attivista Blockupy aveva attaccato il presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi – rettiliano fin dal nome, notano acutamente i complottari – con un lancio di coriandoli, compiendo un balzo, per scavalcare il tavolo della conferenza stampa, tra l’atletico e il goffo: le si erano intravisti gli slip (veri, non come quelli del ministro Boschi, nuovamente vittima – il 30 giugno – di un fotomontaggio). Speravo fortemente che almeno una delle immagini che avevano meglio immortalato il gesto diventasse un meme (ne possedeva tutti i crismi): e meme era stato, ma senza diventare virale (poche le variazioni, poco il buzz generato sui social).

 

Ecco, mi chiedo del meme, penso alla Grecia… anche se so che le domande che dovrei pormi sono ben altre: hey, ma i due Marò?

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