Verranno con me

26 Agosto 2015

L’estate, mi sono sempre chiesta, è il tempo dei recuperi dei classici (quei libri che non hanno mai finito di dire eccetera) o degli aggiornamenti (specie sul midcult, che chi ne ha tempo e voglia, durante l’anno). Quando le vacanze duravano due mesi se non tre, quando cioè tra l’una e l’altra si distendeva un anno di scuola ovvero di studio ad ampio spettro dal sistema solare alla perifrastica passiva, ci si poteva consentire il piacere o il lusso, sospese le costrizioni solite, di immergersi o reimmergersi in Guerra o pace, i Karamazov, la Recherche integrale (Alessandro Piperno aveva stimato il tempo necessario a leggerne tutti i volumi mi pare in 8-9 settimane). Ora che il tempo dello svago si dilata o restringe a seconda degli impegni contingenti non necessariamente stagionali e, soprattutto, che quello da devolvere alla lettura disimpegnata tipicamente da spiaggia si è ulteriormente ridimensionato per via dei pensili elettronici attivi senza soluzione, propenderei piuttosto per la seconda via: niente classici, meglio gli aggiornamenti. Quindi al mare, ove mi ci recassi per scongiurare le iatture di quelli che quanto sei bianca e guarda che ti ammali, leggerei soprattutto libri rispetto ai quali sono, come si dice, rimasta indietro durante l’anno: i libri di cui tutti parlavano nel dibattito che ormai transita primariamente su Facebook e da cui ero fuori perché magari stavo scrivendo il mio (i romanzi come la vita per quello là: o li scrivi o li vivi - cioè li leggi). Ecco che toccherebbe forse a Sottomissione di Houellebecq (a proposito, com’eravamo rimasti? mi piace? non mi piace più?), oppure ad alcuni romanzi di cui non si parla o pochissimo perché non vincono premi e gli autori non hanno amici recensori: mi piacerebbe leggere L’angelo esposto di Ade Zeno, perché i suoi libri sono molto vicini al mio senso catabatico dell’esistenza. Lui in più ci mette del suo- biografico, perché lavora nei cimiteri come estensore di discorsi per funerali laici.

 

Ma per lo più preferisco, nelle vacanze, tornare negli stessi posti, quelli in cui sono già stata e addirittura sono nata, ritrovare gli amici di sempre e se proprio devo portarmi qualcuno dietro, dev’essere qualcuno che conosco. E dunque in valigia metto i libri nuovi, ove ve ne siano, di autori che ho già letto, possibilmente l’anno prima. Anzitutto Carrère: una lettura che puoi fare anche quando i tuoi vicini (chi non ha dei vicini d’ombrellone è fortunato perché va in barca, ma se c’è un posto dove il libro non serve o non si può proprio adoperare se non come parasole è: la barca), quando i vicini, dicevamo, parlano della maccheronata. Limonov come Luca e Paolo (no, non quelli della tivù, gli evangelisti) come l’omicida seriale di tutta la famiglia hanno il potere romanzesco classico di avvincerti e non c’è urlo che basti a riportarti alla maccheronata. Uno pensa, ma come, anni e anni di scuola di Tartu e di Francoforte per dire queste bestialità sui romanzi, che ti devono trascinare? Ebbene, lo confesso, e un po’ me ne vergogno, anzi tutte le sere ne chiedo perdono al dio (o deessa) Avanguardia e a San Capriccio italiano: quando ho letto l’ultimo di Carrère [Il Regno] ho realmente faticato a staccarmene (i classici non smettono mai di eccetera). Nella vigna del Signore, sragionavo, chi ha lavorato meno prende lo stesso compenso di chi ci si è consumato, chi si è perso e poi si ritrova merita il vitello grasso, mentre il figlio rimasto fedele al padre non viene nemmeno invitato alla festa. Che cos’è, allora, che differenzia il Regno dalla città dell’uomo, se il principio di ingiustizia vi domina allo stesso modo? Ecco, alla fine la risposta è una domanda: e a me piacciono i libri che non risolvono i dubbi, ma li moltiplicano. Così era stato di Limonov, con cui trascorsi un paio di settimane effettivamente marine lo scorso anno: l’avrei finito anche prima, non si fosse trattato di portarlo in barca. Sarà (anche) per quello che me ne è rimasta un’impressione di grande stress fisico, come se nelle avventure del poeta-punk-guerrigliero (le guerre, appunto, dal Kosovo alla Jugoslavia, e gli amori, tra cui una ninfomane alcolista e le minorenni financo), sospeso quel che c’era da sospendere in termini di credulità, fossi stata a mia volta per l’appunto trascinata. E vi saprò dire al mio ritorno dal forse mare anche quest’anno di quali prodigi è capace o almeno a quali domande non risponde Carrère in Bravoure, ancora inedito in Italia, dono del fratello errante (grazie) che legge Proust in inglese e in francese Murakami, a seconda della disponibilità del luogo in cui transita.

 

Verranno con noi altri due amici in formato libro già rodati (stessa spiaggia, stesso mare): Michele Zaffarano con Todestrieb (Arcipelago 2014), libro che tra l’altro ha la cover abbronzante e che con la saga dell’uomo potente ritaglia e cuce luoghi comuni del pensiero politico, economico e sociale contemporaneo. Un commentatore, in un blog, scrive: “A costui mancano le parole”. E non è che sia così lontano dal vero se anche di Balestrini, suo predecessore nell’ars combinatoria, si disse che non aveva mai scritto un verso di suo pugno.

 

Ma perché, abbiamo bisogno di altri versi e di altre parole, e davvero ne inventiamo, quando scriviamo? Non ci limitiamo sempre a combinare e ricombinare segni e significati? Così veniamo all’altro compagno di (letture al) mare collaudato lo scorso anno: Antonio Loreto con la monografia dedicata proprio a Balestrini, licenziata nell’ottantesimo dell’autore (auguri). Certo Loreto, pure se è scrittore a propria volta, al contrario di Carrère per leggerlo ci vuole un’attenzione che ti fa maledire di essere al mare, con la sabbia che copre le parole e le voci degli altri che le rendono ostili (le voci alle parole, e viceversa). Come a ricordarti che creatura terrestre sei e come ti combini male, lì, con tutto quello sciabordio di umani.

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