Apocalisse. The Walking Dead & affini

27 Ottobre 2015

Il mito dell’apocalisse, lo spettacolo della fine della civiltà a seguito di un misterioso quanto virulento contagio è un grande tema che ha attraversato la letteratura, il cinema e, da un po’ di tempo, anche il racconto televisivo. Curioso come la fine del mondo rappresenti nella serialità americana contemporanea un vero e proprio filone di gusto, un espediente narrativo che spesso si contamina con elementi “di genere” (l’horror su tutti) per metaforizzare paure e inquietudini concrete della società, dallo spreco delle risorse al maltrattamento ambientale del pianeta, dalle guerre globali alle grandi epidemie, ultima quella di Ebola.

 

Non è un caso che il collasso della civiltà come la conosciamo sia al centro di The Walking Dead, una delle serie più importanti degli ultimi anni, che ha garantito ascolti da record a un canale via cavo, Amc, che tradizionalmente può contare su un bacino di pubblico più ristretto e di nicchia. Quando Frank Darabont, già regista di film come Il miglio verde e Le ali della libertà, si è inventato la trasposizione televisiva dell’omonima graphic novel di Robert Kirkman, è partito dall’idea che gli zombie potessero essere anche delle figure fantastiche usate per parlare della realtà e dare forma visibile alla paura dell’epilogo che incalza: «Penso che prima o poi faremo i conti con il fatto che abbiamo creato una civiltà insostenibile. La quantità di risorse che consumiamo… c’è un vero e potente senso di morte che incombe su di noi».

 

The Walking Dead

 

La storia di The Walking Dead è nota: in breve tempo tutti gli esseri umani sono contagiati da un virus sconosciuto e potentissimo. Chi muore ritorna in vita, privato di tutti i suoi tratti di umanità e soprattutto della coscienza (per alcuni si tratterebbe di una metafora della condizione umana contemporanea), trasformato in un puro istinto famelico che spinge ad attaccare, divorare e trasformare in zombie ogni creatura vivente incontrata sulla propria strada. Presto gli zombie, o come vengono chiamati nella serie, i walkers, gli erranti, diventano più numerosi dei pochi umani sopravvissuti e intanto tutti i fondamenti della civiltà occidentale collassano: l’energia elettrica, le telecomunicazioni, la grande distribuzione del cibo. Il denaro smette di essere la moneta di scambio corrente, la giustizia “privata” prende il posto delle leggi: piccoli gruppi di sopravvissuti sono costretti a tornare alle origini della civiltà e la serie racconta il ritorno a un primitivismo governato da regole brutali, uccidi o sarai ucciso. Il racconto segue in particolare le vicende dello sceriffo Rick Grimes e di un piccolo manipolo di persone, donne, uomini e bambini, di cui diventa il leader. Il gruppo abbandona presto la città di Atlanta, un deserto urbano di cemento e macerie, per iniziare una lunga peregrinazione verso terre promesse che si rivelano via via pericolose trappole (una prigione; uno scalo ferroviario, Terminus, abitato da una pericolosa setta; una zona residenziale miracolosamente sfuggita al contagio, Alexandria), non senza subire perdite laceranti e accettare nuove aggiunte.

 

L’epidemia della febbre zombie si propaga senza scampo, attraverso i morsi inflitti dagli erranti ma anche colpendo chi muore di morte naturale: tutti ritornano in vita trasformati, a meno che il loro cervello venga disintegrato con un colpo netto. Mentre la civiltà si sfalda, la serie sceglie di non concentrarsi sulla ricerca delle cause che hanno scatenato il contagio: dopo una disperante visita al Centro Controllo Malattie, un’autorità incaricata di difendere la salute pubblica in caso di emergenze sanitarie di massa, Rick e i suoi capiscono che non c’è più niente da fare, la razza umana è compromessa, l’Apocalisse non può essere fermata. Robert Kirkman, che a seguito dell’abbandono di Darabont dopo la prima stagione ha preso il comando della produzione della serie, ha spiegato la scelta di lasciare da parte la ricerca delle cause dell’epidemia e le sue possibili cure per concentrarsi sui suoi effetti, sul terrorizzante scenario della civiltà che crolla: «lottare in un mondo in cui la civiltà sta crollando è molto più interessante che trovare la cura a un virus». Un meccanismo molto simile è alla base di The Leftovers, sviluppata per HBO da uno degli showrunner di Lost, Damon Lindelof: il pianeta è sconvolto dall’improvvisa sparizione nel nulla del due per cento della popolazione. Le motivazioni della dipartita di massa, un contagio improvviso e silenzioso, restano sullo sfondo, insieme ad altri misteri che alimentano l’immaginario narrativo della serie (Lindelof stesso ha dichiarato che per molti di questi misteri la serie non cercherà di fornire una spiegazione): al centro ci sono le conseguenze su chi resta, la sofferenza, il tentativo di ricominciare, di sopravvivere all’Apocalisse emotiva seguito alla dipartita.

 

The Leftlovers

 

In fondo, gli effetti dell’epidemia sono più spettacolari, più “televisivi” delle sue cause (un castigo dall’alto? l’inevitabile resa di una civiltà portata al collasso dai comportamenti degli uomini?): uno degli aspetti più interessanti di The Walking Dead è proprio la rappresentazione della corporeità lacerata e sfatta degli zombie, il lavoro fatto sui costumi, sul trucco, sugli effetti speciali che dettano il suo cupo tono horrror. La serie è riuscita a dare iconica rappresentazione all’epidemia con episodi degni delle pagine della grande letteratura, da La peste di Camus fino ai capitoli dedicati alla pestilenza del 1630 nei Promessi sposi. Come nell’incipit di The Walking Dead, il racconto della peste manzoniana inizia con il contagio già fuori controllo e la descrizione di uno scenario post-apocalittico: «per tutto trovarono paesi chiusi da cancelli all’entrature, altri quasi deserti, e gli abitanti scappati e attendati alla campagna, o dispersi: “et ci parevano, – dice il Tadino, – tante creature seluatiche, portando in mano chi l’herba menta, chi la ruta, chi il rosmarino et chi un’ampolla d’aceto”».

 

Il primo episodio di The Walking Dead ha inizio in medias res, a contagio ormai esploso, con Rick che si sveglia dal coma in cui si trovava da tempo in seguito a una sparatoria. Come in 28 giorni dopo di Danny Boyle, il protagonista deve da subito fare i conti con un mondo in avanzato stato di disfacimento. Ma molto resta da spiegare, troppo materiale narrativo resta inesplorato: come si è propagato il contagio? È davvero possibile che le autorità non abbiano potuto fare niente per arginare l’epidemia, fermare l’apocalisse? È così che nasce l’idea per Fear the Walking Dead, uno spin-off televisivo (6 episodi, sempre per Amc) che, seguendo una delle tendenze contemporanee della serialità americana, gioca con il tempo, riportando l’azione alle prime avvisaglie del contagio, e lo spazio, spostando lo sguardo sulla megalopoli di Los Angeles. Kirkman ha dichiarato: «Penso che far svegliare Rick dal coma sia stata una trovata originale e un buon modo di aprire The Walking Dead, ma osservare da vicino la civiltà che crolla intorno ai primi sopravvissuti e vederli imparare ad adattarsi in modo molto più veloce, con più pericolo e incertezza, rende Fear the Walking Dead uno show molto diverso». La serie è stata molto criticata perché interpretata come una ripetizione pedissequa dell’originale (già basato su uno schema ripetitivo: gli zombie attaccano, gli umani reagiscono o muoiono). In realtà, più che nella dimensione action e horror, l’interesse dello spin-off sta proprio nella rappresentazione delle prime fasi del contagio: la militarizzazione delle cure, l’isolamento dei quartieri, il panico collettivo che si propaga attraverso i media, i tentativi ingenui di arginare l’epidemia con gli antibiotici, le sperimentazioni cliniche, la caccia all’untore, i primi episodi di violenza e saccheggio. Gli individui non sono ancora stati abbandonati dalle istituzioni, che rivelano però il loro lato peggiore e disturbante. Anche l’impatto visivo di Fear è diverso da quello della serie maggiore, e non solo perché è stata girata in digitale: gli zombie sono meno decadenti e meno decomposti perché più “freschi”.

 

The Last Man on Earth

 

Nel cinema, nella letteratura e nella televisione, i racconti post-apocalittici condividono dei tratti comuni che fanno pensare a un vero e proprio genere narrativo: la civiltà finisce ma i sopravvissuti cercano di fondarne una nuova, basata su nuove regole “di emergenza” e soprattutto sul comando di un leader nominato sul campo. Può essere un processo molto violento e aspro, come avviene in The Walking Dead, oppure l’occasione per un gioco comico che trasforma l’epidemia, la fine del mondo e la vita degli ultimi sopravvissuti in situazioni surreali. Quando Will Forte, comico del Saturday Night Live, si è inventato l’idea di The Last Man on Earth (Fox), il filone post-apocalittico andava già forte, ma trattarlo in chiave comica è stata una novità quasi assoluta (ci aveva provato la coproduzione anglo americana You, Me and the Apocalypse). Il primo episodio è qualcosa di sorprendente, soprattutto considerando che va in onda su Fox, un network che non può contare sulla possibilità di sperimentazione e spirito indie tipici dei canali via cavo: Phil Miller, interpretato da Forte, è l’unico personaggio in scena. Nel 2020 l’umanità è stata annullata da una misteriosa epidemia (mai spiegata nei dettagli) e Phil è, o crede di essere, il “last man standing”, l’ultimo sopravvissuto, come il protagonista de La nube purpurea di M.P. Shiel. I dialoghi sono praticamente annullati, a strappare le risate più convinte è il comportamento infantile e goliardico con cui Phil Miller accetta la fine del mondo: fa il bagno nel Margarita, si autonomina Presidente degli Stati Uniti, fa amicizia con degli oggetti inanimati, come Tom Hanks e il suo Wilson in Cast Away. Paradossalmente, quando fanno il loro ingresso in scena degli altri sopravvissuti e il racconto televisivo torna a canoni più tradizionali, la serie diventa più convenzionale e meno coraggiosa, una satira sullo scontro di caratteri, sulle dinamiche di coppia, sulla convivenza forzata di un gruppo ristretto di persone che segue dinamiche non troppo diverse da quelle dei reality di “sorveglianza e controllo”, vedi Grande Fratello.

 

Non solo metafora delle inquietudini della società, il racconto post-apocalittico è anche e soprattutto un grande espediente narrativo: niente come la catastrofe, la condizione estrema di vita, fa uscire i caratteri delle persone, spesso li ribalta, a volte li trasmuta. Materiale narrativo imperdibile per il racconto seriale televisivo.

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