Confidare ancora nei galantuomini?

2 Novembre 2011

L’articolo di Repubblica dello scorso 21 agosto era un perfetto tappabuchi di stagione, un petit rien da ombrellone. Il titolo suonava Rivoluzione a Miss Italia: nel nuovo decalogo per aspiranti reginette è raccomandata, si leggeva, la lettura di “almeno tre libri l’anno”. Fra i titoli consigliati Madame Bovary, Orgoglio e pregiudizio e Acciaio di Silvia Avallone. Facendo assurgere a classico con stupefacente rapidità – a un anno e mezzo dalla pubblicazione – l’ennesimo monnezzone scala-classifiche fabbricato da quell’industria del cinismo in cui da tempo s’è trasformata l’editoria italiana.

Canonizzazione a tappe forzate che aveva previsto altresì, nel furor promozionale della volata (persa per un soffio) allo Strega 2010, l’oltranza di un editoriale avallonesco imposto alla prima pagina del quotidiano di scuderia, il Corriere della Sera (un temino di poche righe d’impostazione debitamente reazionaria, pour épater col pasolinismo degli stenterelli che tanto si porta in questi casi). Questa primavera è seguita la proposta d’un raccontino della medesima scala-tutto, sempre ai malcapitati lettori dell’house organ RCS, come secondo numero degli allegati “Inediti d’autore”. Giova qui scorrere il canone dei sinora trentatrè “autori” italiani contemporanei canonizzati dal Corriere: dopo l’apertura d’obbligo riservata a un sempre più mediatico Roberto Saviano sfila appunto Avallone seguita, fra gli altri, da Carlo Lucarelli, Fabio Volo, Silvio Muccino e, poteva mancare?, Federico Moccia.

 

A fronte di tali episodi la reazione-standard suona più o meno così: non c’è nulla da strepitare, gli pseudo-libri da classifica ci sono sempre stati e gli editori li hanno sempre promossi; nessuno confonde i monnezzoni coi testi letterari; è proprio grazie al successo dei primi che gli editori possono permettersi i secondi; non contano i tempi della cronaca ma quelli della storia; è appunto la resistenza nel tempo a far sì che oggi leggiamo Italo Svevo e non Virgilio Brocchi. Perché il Tempo – insomma – è Galantuomo.

Considerazioni di buon senso, che come sempre contengono una parte di verità. È vero: nella modernità le cose sono andate più o meno così. Ma da un pezzo ormai non vanno più solo così, e non ci sono fondati motivi di ritenere che in futuro andranno ancora così. Primo argomento: il successo degli scala-classifiche consentirebbe un margine per la sperimentazione (di nuovi format, nuovi autori, nuovi temi e nuovi stili) e spazio per testi a forte coefficiente letterario. La formula di una volta: la commedia all’italiana che finanzia il cinema d’autore. Bene, sono anni ormai che non funziona più così. Lo ha spiegato benissimo André Schiffrin nel primo dei suoi pamphlets, Editoria senza editori (che risale ormai a dodici anni fa): i margini di profitto, in precedenza considerati sull’insieme della produzione, vengono ora pretesi – in scala sempre crescente – su ogni singolo prodotto. Sino a quella che Schiffrin chiama “censura del mercato”. Cassandre, si dirà; apocalittici apodittici. Intanto nel 2006, scomparso Alfredo Salsano, malgrado il successo d’opinione di Editoria senza editori il secondo saggio di Schiffrin, Il controllo della parola, è stato pubblicato sempre da Bollati Boringhieri ma con una prefazione-distinguo, al limite dell’auto-stroncatura, affidata a Stefano Salis. Infine, nello stesso 2010 in cui Bollati Boringhieri viene assorbita dall’impero editoriale GEMS, il terzo capitolo della requisitoria di Schiffrin, Il denaro e le parole – com’è come non è – non esce nella collana dei predecessori bensì per l’ottima, piccola Voland. Censura del mercato? Ci mancherebbe.

 

Secondo: nessuno, in editoria, confonderebbe monnezzoni e testi letterari. Proprio sicuri? Non fa specie incontrare nella stessa collana, la “SIS” Mondadori, Autopsia dell’ossessione di Walter Siti insieme al Conto delle minne di Giuseppina Torregrossa e a Fìmmini di Pietrangelo Buttafuoco? Si risponderà che proprio la narrativa Mondadori è presidiata da uno degli ultimi rappresentanti della gloriosa genia degli editori-letterati, l’erede insomma di Vittorini, Sereni e Calvino. Verissimo: Antonio Franchini, oltre che l’intelligente manager che tutti riconoscono, è anche uno dei più apprezzati scrittori del nostro tempo. Uno scrittore talmente intelligente che i suoi libri nemmeno si sogna di proporli a se stesso come manager. Ché in quanto tale – lo sa bene – sarebbe tenuto a bocciarli. Riguardo alla confusione di piani entro il medesimo comparto commerciale (cioè nell’istituto della collana, orientamento un tempo essenziale) proprio Franchini mi ha risposto – intervistato nel documentario Senza scrittori, prodotto da RaiCinema e l’anno scorso realizzato insieme a Luca Archibugi – che tale confusione deriva dal rimescolamento dell’idea di “letterarietà”, che oggi ciascuno “tira dalla sua parte”. E, alla domanda se questo sia per lui un bene, sorride dicendo che tutto ciò “è molto divertente”.

 

Detto, fatto. Quest’estate in un’altra collana da edicola – “I capolavori dello Strega” del Sole 24 ore – proprio Franchini ha accompagnato con una propria introduzione uno dei suoi maggiori successi come editor, Non ti muovere di Margaret Mazzantini (appunto Strega nel 2002). Descrivendo una scrittura “densa, corposa, spesso ruvida per aderire alle cose in modo più stretto; è una lingua piena di scarti, di soluzioni non canoniche”. Il che fa sì che venga “recepita come una forza in qualche modo esogena, estranea al sistema letterario ufficiale”. Insomma, proprio perché scrive in modo così irredimibilmente atroce Mazzantini rivoluziona la narrativa italiana: per questo la casta dei letterati, tradizionalisti e parrucconi, la snobba o la esecra. (Segno fra l’altro che, con sublime ironia, Franchini para-critico si appropria delle retoriche nuoviste-brutaliste cui in questi anni ci ha resi avvezzi uno dei migliori autori cooptati dal Franchini manager, Antonio Moresco.)

 

È vero quanto sostiene Franchini. La “letterarietà” ognuno oggi la tira dalla sua parte; ma non patrocinando una poetica o l’altra, un progetto di società alternativo all’altro: bensì per coonestare le classifiche di vendita. Facendo cioè coincidere negli stessi testi, una buona volta, valore letterario – relativisticamente sostenuto indecidibile – e – considerato invece oggettivamente misurabile – valore merceologico.Con un’agudeza ha voluto sintetizzare tale situazione il manifesto sull’editoria del movimento TQ: viviamo “in un tempo in cui gli editori non scelgono più i bei libri sperando che vendano, ma i libri che vendono sperando che siano belli”. Correggerei: non si “spera” che quei libri siano “belli”; oggi, autoritariamente, lo si decide.

 

Sento già rispondere: ma esiste la critica, a contrappeso di queste prepotenze da trivio mediatico. La critica? Volete dire quella cosa che si faceva sulle pagine culturali dei giornali? Proprio sull’ultimo exploit di Mazzantini, Nessuno si salva da solo, è toccato leggere su la Repubblica, lo scorso 3 marzo, un articolo – si immagina divertitissimo – dell’illustre Nadia Fusini (in veste di narratrice, è il caso di ricordare, a sua volta cooptata nella SIS): che ha fatto ricorso all’ibridazione dei generi storicamente connaturata alla forma-romanzo (e sì che pochi narratori si attengono a un format più tradizionale di Mazzantini): “basta, basta con la purezza delle forme”, grida (sorridendo, si spera) Fusini: “La forma si sposerà alla disarmonia, si sporcherà con la realtà più umile”. Dopo Mazzantini-Moresco, insomma, siamo direttamente a Mazzantini-Gadda.

 

Ma no, sento che protestate, non parlavamo di questa critica. Quella a cui ci affidiamo è la Critica dei tempi lunghi e degli spazi congrui; confidiamo nei Grandi Saggi le cui Illuminanti Risultanze, anche per questo nostro tempo sventurato, formeranno quel Canone che per il passato è nelle Grandi Antologie, nelle Grandi Storie Letterarie, dunque negli Illuminati Programmi Scolastici e Universitari. Di queste storture sarà il Tempo, appunto, a far giustizia. La saggistica. S’intende quella che oggi i Grandi Editori fanno a gara per pubblicare, vero? (Per lo strangolamento in corso anche di questa dissidenza rinvio a quanto scrive Fausto Curi – ma un quadro desolante era già quello del Mario Lavagetto di Eutanasia della critica, ormai sei anni fa.) Comunque è vero, il tempo – seguendo strade un po’ meno rettilinee di quelle che piace immaginare – ha selezionato Svevo e Tozzi e ha cancellato Brocchi. (In attesa, beninteso, che qualche genio del marketing ne proponga il repêchage con un bel “Meridiano”; in questa gloriosa collana del resto, oltre ad Alberto Bevilacqua ci sono già stati ammanniti tre Mario Soldati e due Piero Chiara.)

 

Non va ovviamente dimenticato il ruolo-chiave della Scuola. Ma è messa oggi, la Scuola, nelle condizioni di fare le sue scelte nel mare delle Scritture a perdere – come le ha definite Giulio Ferroni – che si arrogano tutto lo spazio mediatico a disposizione? L’articolo che più ha sollecitato questo mio l’ho letto ancora una volta su Repubblica. Lo ha pubblicato il 17 giugno scorso Gian Arturo Ferrari, dal 1997 al 2009 onnipotente direttore della Divisione Libri del Gruppo Mondadori poi premiato – buonuscita ben rispondente all’intreccio di affari pubblici e privati notoriamente caro alla proprietà di quel Gruppo – con la carica di Presidente del Centro per il Libro e la Promozione della Lettura istituito dal Consiglio dei Ministri. A celebrare il decennale del maggior successo del grande cocco nazional-popolare, quello dal cui ultimo effato ha annunciato di voler trarre un film nientemeno che Bernardo Bertolucci, insomma di Niccolò Ammaniti. E il libro è Io non ho paura, uscito appunto nel 2001 e a sua volta portato sullo schermo da Gabriele Salvatores. Un libro, esulta Ferrari, “che in questi dieci anni non solo ha toccato picchi di vendita, per conto proprio e in compagnia del film che ne è stato tratto, ma, cosa persino più importante, ha messo radici e si è impiantato nel vero terreno del classico, cioè nella scuola”.

 

Classico– ecco la parola magica. Quella che la concezione parruccona dei moderni voleva legata alla persistenza di un testo che superasse la cronaca e si confrontasse con la Storia. Ma se viviamo nell’età dell’accelerazione globale non può stupire più di tanto che venga proposto quello che Luca Archibugi, in un salace commento uscito sul Fatto quotidiano il 13 luglio, ha definito “instant classic”. Naturalmente anche Ferrari ha ragione: proprio come Franchini. Da tempo la Scuola, sconcertata dalla letterarietà “elastica” ereditata dalla deregulation postmodernista e terrorizzata dall’apparire non abbastanza up-to-date, mette da parte l’illeggibile Gadda e, davvero, propina Ammaniti. (Né fa qualcosa di diverso l’Università demagogica che, nanificati i propri programmi dal Tre più Due, organizza sussiegosi convegni sulla narrativa noir o sul cinema poliziottesco.) Conclude Ferrari: “La paura non c’entra con la fiaba… è la componente costitutiva della tragedia”; quella di Ammaniti è “una fiaba tragica, dunque, una tragedia fiabesca”.

 

Non so se è una tragedia quella che ho raccontato. Ma sono convinto che sia una favola la credenza secondo cui il Tempo – senza che ci poniamo mano noi, qui e ora – sia destinato a comportarsi bene, in avvenire, seguendo il lume della Provvidenza (quella stessa cui gli ideologi neoliberisti, non a caso, sfrontatamente paragonano il loro dio-Mercato). Più probabile che si comporti, piuttosto, come certi Galantuomini (e Gentildonne) qui passati in rassegna.

 

 

Questo articolo è stato pubblicato nel focus sull’editoria del numero Cinque di alfalibri, a cura di Andrea Cortellessa e Maria Teresa Carbone.

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