Arlene Heyman, psicanalista newyorkese / Il buon vecchio sesso fa paura
Matt è malato di leucemia, a uno stadio terminale. Pesa pochi chili e prova dolore a ogni movimento, a ogni boccone o sorsata d’acqua. Sua moglie Ann lo assiste e lo accompagna nella sua malattia. Lo ama anche normalmente però, come una moglie ama il marito in un matrimonio che funziona negli anni. Nonostante la malattia, l’ospedale, la maschera e i camici di carta (Matt è immunodepresso) Matt e Ann teneramente, ma non privi di reciproco e acceso desiderio, a volte fanno l’amore. Un giorno Lucinda, la ex compagna di Matt, con la quale l’uomo ha mantenuto ottimi rapporti, fa un salto in reparto per fare visita al malato. Lucinda è una strepitosa ballerina nera, – Ann la vede per prima. Avanza decisa nel corridoio d’ospedale in un abito vermiglio attillato, che svasa all’altezza delle cosce. Le gocce di cristallo che porta alle orecchie dondolano mentre cammina, i capelli stirati sono raccolti in uno stretto chignon sulla sommità del capo. È alta almeno due metri, pensa Ann, ed è la persona più in salute che lei abbia mai visto. Ann esce dalla stanza per lasciare intimità ai vecchi amici che stringendosi le mani cominciano a parlare fitti. Dolore. E rabbia con se stessa per quel dolore, lo stesso vecchio dolore, giustificato o meno. Dunque ha ancora forza per la gelosia, quello spreco di emozione, quel mostro dagli occhi verdi. No, è Lucinda il mostro dagli occhi verdi. Ancora lì, Lucinda. Non si supera mai niente in questa vita.
“Non si supera mai niente in questa vita” è il veritiero leitmotiv della bella raccolta di racconti Il buon vecchio sesso fa paura, edita da Einaudi e tradotta da Anna Nadotti, esordio letterario della psicanalista newyorkese Arlene Heyman. Sette racconti, sette frammenti di normali esistenze. A dispetto del titolo, che per certi aspetti può essere traviante, non è solo la sessualità a essere protagonista di questi racconti. Ironici, grotteschi, intelligenti, a volte scabrosi; i racconti della Heyman mettono l’accento sul fisiologico, su quegli istinti sotterranei e universali che muovono l’essere umano. I non detti, le paure irrazionali, i rimpianti, le pulsioni più indicibili e a tratti persino imbarazzanti.
Dan viene chiamato nella notte da Rosemarie, la donna che fa da badante a suo padre. Sam, suo padre, è morto. Dan raggiunge la donna, disperata. Il padre probabilmente ha avuto un malore durante un rapporto sessuale con la sua infermiera. Nonostante Sam sia sposato con la madre di Dan, Rosemarie è la sua amante, forse persino il suo amore; Dan in fondo lo sa. Ha vent’anni meno di lui, ha un figlio, Ali, a cui il padre è molto legato. I due personaggi puliscono e sistemano il cadavere dell’uomo, la scena è grottesca, surreale, ma dolce. Avviene un importante confronto, Dan conosce alcuni aspetti della vita del padre attraverso le parole di Rosemarie.
– È stata gentile a chiamarmi –. Dan distolse gli occhi.
– Ero preoccupata per Ali, temevo che si svegliasse e lo trovasse morto, la polizia. Era molto affezionato a Sam –. Le tremò la voce. – Lo sa che giocavano a baseball insieme? Suo padre qualche volta lo ha portato a vedere gli Yankees.
A me non mi ha mai portato a vedere gli Yankees.
Questo è il pensiero di Dan nonostante il corpo esanime di suo padre che troneggia nella stanza; allo stesso modo Ann riesce a provare gelosia per il marito in fin di vita che saluta (probabilmente per l’ultima volta) una donna del suo passato. Il focus dell’autrice non è sulla sessualità, ma sui sentimenti e le reazioni dei personaggi legati agli aspetti incomprensibili e fisiologici della vita, che siano il sesso, la malattia o la morte. I personaggi della Heyman sono sessuati, vivi, i loro corpi sono funzionanti e ricettivi. L’originalità dell’autrice è data dal fatto che gran parte dei personaggi hanno tra i sessantacinque e i novant’anni e come scrive Alexandra Schwartz sul The New Yorker “a pochissimi scrittori viene da chiedersi se una donna di settant’anni possa ancora essere sensualmente coinvolta, e meno che mai di immaginare la forma e i modi di tale coinvolgimento”. Così come i racconti analizzano e si soffermano sulle emozioni legate agli aspetti fisiologici dell’esistenza, su diversi tratti dell’irrazionale umano, anche la cornice narrativa è specchio di questa indagine. Attorno ai sette racconti ruotano tematiche legate tra loro, che si ripresenteranno, se pur in modo diverso, nell’arco del libro, provocando sui personaggi un effetto boomerang. Molti dei protagonisti sono ebrei assillati dalla memoria che non sarà mai pacificata delle deportazioni naziste, in un racconto la caduta delle torri gemelle fa da sfondo a una vicenda familiare, sono ricorrenti temi come la malattia, la vecchiaia e la morte. Questioni incomprensibili, irrazionali, che sia a un livello storico che a un livello umano amplificano “l’universo pulsionale” dei protagonisti. In aggiunta, molti personaggi sono medici e biologi, ancora una volta, quindi, a stretto contatto con gli aspetti più corporali dell’esistenza.
Il buon vecchio sesso fa ancora paura perché implica un confronto vero con le proprie fragilità, con le questioni irrisolte che si annidano nelle profondità di ogni essere umano. Non ci sono perversioni, sesso del futuro, siti di incontri e pratiche eccentriche, ma solo corpi che si vogliono, che si chiamano l’uno con l’altro. Corpi arrabbiati, spesso raggrinziti, impauriti, goffi, ma decisamente veri. La Heyman attua un’operazione anti pornografica pur offrendo una sensazione voyeuristica al lettore, sostituendo la componente visiva del sesso, la performance perfetta, le “giuste dimensioni”, la canonica sensualità femminile con un interessante ritratto interiore, una descrizione emotiva della sessualità che permette la riacquisizione di una “dignità sensuale” anche a soggetti considerati erroneamente asessuati dalla società contemporanea, come per esempio gli anziani e i malati. Le storie raccontate dalla Heyman, che per molti aspetti riportano alla mente Le nonne, celebre raccolta di racconti di Doris Lessing, mettono in crisi l’idea che un certo tipo di “ribellione sociale” spetti soltanto ai giovani. Lo dimostra l’anziana protagonista di Happy island che, nonostante abbia superato i novant’anni, viva in un ospizio e non sia più del tutto autosufficiente, rivendica con naturalezza la sua figura di donna (oltre che di nonna) dotata di sensualità e che si rivela diretta nell’affrontare tematiche legate alle sue esperienze e ai suoi gusti sessuali (cosa che scandalizzerà la figlia, decisamente più moralista).
Una bella indagine riguardo la questione della vecchiaia, in questo caso trattata soprattutto in ambito femminile, è data dal piccolo e interessante saggio di Luisa Ricaldone, Ritratti di donne da vecchie, edito da Iacobelli Editore. L’autrice attua un’efficace analisi letteraria di anziani personaggi femminili, Sarah Durham di Amare, ancora (Doris Lessing) che si innamorerà di ben due uomini più giovani di lei e la vedova di Ogni passione spenta (Vita Sackville-West), che dopo essere rimasta sola decide (nonostante la protettiva insistenza dei figli) di andare a vivere da sola. Si parla di donne che recuperano in vecchiaia opportunità perse nella prima parte della vita. In entrambi i casi la vedovanza innesca un potente meccanismo; come scrive la Ricaldone: «se non si è libere da fare da vecchie ciò che si vuole, quando si potrà allora?». Tuttavia, come ricorda l’autrice del saggio, queste figure femminili, metafore di una vecchiaia gioiosa e riappropriata di un’inimmaginabile libertà, rischiano di sostituire a vecchi stereotipi (a una vecchiaia caratterizzata da fragilità, malattia, deperimento fisico ecc.) nuovi stereotipi, come ad esempio l’imperativo di apparire in forma, giovani e vitali soprattutto in una società che ha messo a disposizione avanguardistiche tecniche di rimodernamento dei corpi; soluzioni che permettono di evitare il confronto con i propri limiti biologici. Quando poi si tratta di donne, vi è sovente una forma di retaggio di matrice inconfutabilmente maschilista che tende a “penalizzare” entrambe le raffigurazioni della vecchiaia. L’anziana fragile è asessuata, è una nonnina ingobbita privata di qualsiasi forma di femminilità, d’altra parte l’anziana vitale, desiderosa di vivere appieno gli ultimi anni della propria vita, appare laida e caratterizzata da una sensualità volgare; si pensi alla cosiddetta cougar, che nell’immaginario (pornografico) maschile è la donna matura alla ricerca di giovani prede. Granny (dolce e asessuata nonnina) vs Gilf (acronimo di “grandma i’d like to fuck”, “nonna che mi farei”, che supera persino la cougar in quanto ha l’“aggravante” di essere nonna; in sintesi: una nonna sexy).
La raccolta della Heyman però si mantiene lontana dagli stereotipi senza precipitare in uno scadente immaginario “pop-maschilista”, restando ancorata alla struggente bellezza del reale, effettuando un’analisi attenta e profonda della vecchiaia in cui i “maturi” protagonisti racchiudono in sé fragilità e stanchezza, ma allo stesso tempo uno straordinario potere seduttivo.
Il buon vecchio sesso mette ancora paura perché obbliga ad un confronto interiore, alla consapevolezza della finitezza e della corporalità dell’uomo. La Heyman, in maniera a mio parere inusuale, racconta di un sesso che porta il lettore a osservarsi e riscoprirsi debole e vulnerabile, ma, allo stesso tempo, innesca un importante meccanismo di autocoscienza e di riflessione. Permette di ritrovare l’eccitazione nella fantasia, nei propri rancori, nel compagno o la compagna di una vita, in una figura giovane e attraente, ma anche in un corpo segnato dagli anni, in qualunque situazione ordinaria che ci si può presentare. Non stimola gli occhi, stimola la mente; costringe a guardare in modo diverso.