1938-2022 / Herbert Achternbusch: scantinati, bar, buie paludi
Una lettera del 2011
Caro Herbert,
è passato molto tempo dalla prima lettera che ti ho scritto, ma questa, che per il momento è anche l'ultima, è una lettera particolare: accompagna infatti l'uscita italiana del tuo libro L'ora della morte. Tutto sommato abbiamo aspettato solo dieci anni, prima che arrivasse il momento.
La prima volta che ho sentito parlare di te avrò avuto a malapena sedici anni. Tu eri già piuttosto conosciuto allora, avevi girato qualche film, pubblicato dei libri, fra i quali anche L'ora della morte, ma per noi ragazzi di paese eri ancora una scoperta. Non eri molto ben visto, dalle nostre parti, avevi fama di chi sputa nel piatto in cui mangia, era difficile trovare tuoi libri, lì in Bassa Baviera, dove eri cresciuto e dove io cercavo allora di trovare la mia strada.
Leggere il nome di un paese come Deggendorf, Hengersberg, o anche il tuo Breitenbach, in un romanzo, mi era sembrato un miracolo, un tocco di luce: c'era dunque la possibilità di scappare da quella provincia e dalla sua lingua, per poterla osservare da fuori! L'identità bavarese ti rimane appiccicata addosso a vita e il modo in cui noialtri parliamo e ci esprimiamo rimanda continuamente al luogo della nostra origine.
Nel 1984 ero all'università di Erlangen. Una mia compagna di studi ti faceva da assistente per la messa in scena del Gust a Monaco e fu costretta a compilare un piccolo dizionario per la traduzione dei termini della Bassa Baviera cosa che, per quanto grande fosse la mia invidia per lei, era comunque una piccola rivincita. L'università cominciò ben presto a sembrarmi una cosa senza senso e nel 1986 ne avevo abbastanza anche della Germania e quindi emigrai in Italia. A Roma imparai l'italiano facendo l'addetto alle pulizie in un collegio cattolico: secchio, straccio, prodotto, furono le mie prime parole nella nuova lingua. Intanto vagavo per Roma e andavo a teatro, dove spesso ero l'unico spettatore. Scovai un teatro, il Trianon, in una zona periferica in cui davano Susn con la regia di Gianfranco Varetto, e mi presentai. Ottenni un contratto come assistente alla regia. Era un inizio.
Quando nel 1994 insieme a Paolo Musio, Fabrizio Parenti e Massimo Bellando Randone fondammo il gruppo Quellicherestano la nostra prima azione fu quella di abbandonare il teatro come edificio e istituzione e di trovare luoghi più comunicativi, come bar e osterie. In una di queste birrerie, il GoldfinchClub, non lontano da Campo dei Fiori, mettemmo in scena la tua Rana. Lionello, l'oste, fu il nostro primo spettatore e consigliere. Per le prove tradussi la prefazione di L'ora della morte e la mettemmo in pratica parola per parola: ignorammo deliberatamente la linea di confine fra arte e vita, lasciammo fluido e aperto il varco e approdammo a un ritmo di gioco teatrale quasi meteorologico, che mi faceva pensare a molti tuoi film. Ti scrissi una lettera nella quale ti raccontavo quello che stavamo facendo e cosa accadeva durante le prove.
Allegai a quella lettera anche uno schema piuttosto complicato che era stato disegnato da Lionello: una lettura assolutamente originale, necessaria e personale da parte di chi, forse, non avrebbe mai incontrato questo tuo testo sotto forma di libro. Mi scrivesti che saresti stato presente alla proiezione del tuo film Hades al festival di Bolzano e io, senza pensarci due volte, salii sul treno. La sera stessa ti venni a cercare per le osterie di Bolzano, sbirciando attraverso tutte le finestre, finché non ti trovai, circondato dal tuo clan. Mi ero fatto coraggio, ero entrato e mi ero presentato: sulle prime mi avevi guardato in malo modo e parlato con tono brusco, come per mettermi alla prova, ma poi mi avevi fatto accomodare lì al tavolo con voi, e più tardi mi hai portato vedere una grossa colonna di granito rosso in uno scantinato lì vicino. Non abbiamo parlato molto, quella sera, ma comunque abbastanza per ricordarci l'uno dell'altro. “Duro” doveva essere ciò che facevamo, così mi dicesti.
Quella nostra Rana, forse nemmeno tanto dura, la videro e la apprezzarono in molti: abbiamo trasformato tanti scantinati e tanti bar in buie paludi da attraversare per poi trovare una via d'uscita verso l'agognato deserto, come fa la tua rana, senza nascondere la nostra vulnerabilità, ma al contrario, ostentandola. Lasciavamo sempre le porte aperte, facevamo entrare i rumori della strada, l'imprevedibile della vita fuori e a volte qualcosa arrivava fino a noi, dentro il ‘teatro’.
Il GoldfinchClub più tardi l'hanno dovuto chiudere per motivi igienici e noi ci siamo spostati verso altri luoghi: sedi di partito, gallerie d'arte, per strada e nei centri sociali, sempre alla ricerca di nuovi modi, capaci di dar forma a quell'esperimento sociale che si chiama teatro.
Il 1997 fu l'anno della mia seconda messa in scena di un tuo testo, L'ultimo ospite, al Teatro Stabile di Brescia, in combinazione con una mostra del tuo ciclo di dipinti Takla Bash. A Brescia avevo lavorato a più riprese per sette anni in qualità di aiuto regista e quindi conoscevo bene la città, ma forse proprio per questo tutto andò storto. Mi avrebbero volentieri fatto a pezzi, dopo il nostro spettacolo, e fino al 2004 da quelle parti non mi sono più potuto far vedere. Tutto soltanto per quel tripudio verbale nel corso del quale Tucidide mette sotto processo la società decadente e molto autoreferenziale in cui vive, cosa che forse nella Brescia di allora risultò fin troppo riconoscibile. Intanto continuavo a tradurre i tuoi testi: L'ora della morte, Mio Herbert, Cuore di vetro, Lo stivale e il suo calzino, Bonaccia, più tardi poi Il campione del mondo. In teatro mettevo in scena Schwab, Jelinek, Moresco, Moravia e non da ultimo Tarantino (il tuo corrispettivo italiano: allo stesso modo in cui andavo ogni tanto a stanare te allo ‘Schneiderbräu’ di Monaco, seduto vicino al banco di mescita, così andavo a stanare lui a Torino nella sua ‘piola’ vicino alla stazione di Porta Nuova: stesso anno di nascita, autodidatta, scrittore, pittore, proprio come te).
E poi fu la volta di Dulce Est, a Roma nel 2004: teatro per bambini chiamavi tu questa storia di suicidi. Quel testo mi fece esattamente lo stesso effetto dell'albero di prugne della tua infanzia del quale racconti in L'ora della morte: come fosse esso stesso natura, come fosse riuscito a fare il salto nel periodo prima del compimento del quinto anno di vita, prima della completa formazione di un Io, che poi non fa che starci fra i piedi. Il salto in un periodo quindi in cui si è ancora parte naturale di tutto quello che ci circonda.
Certo non si può sperare di avere un successo strepitoso con uno spettacolo del genere, si tratta piuttosto di un lavoro che rimane ai margini, di un programma in contrasto con quel mercato che gira come impazzito sempre più veloce intorno a sé stesso e non trova il tempo per fermarsi un attimo e fare ad esempio qualcosa di così inconcludente come ricordarsi i nomi dei fiori. Cosa che facevano invece Lea Barletti e Gabriele Benedetti, i protagonisti di Dulce est, completamente nudi sulla scena davanti a un pubblico leggermente spiazzato.
Con Lea e i nostri due ragazzi siamo poi venuti a trovarti una volta nella tua “Casa Azzurra” nel Waldviertel in Austria. Avevi costruito un tempio e anche un teatro nel cortile di casa. Noi stavamo sempre seduti nel tempio, a giocare e a bere il tè fra le tue grandi sculture in legno vecchio dipinto e il leone di pezza da cavalcare, mentre il teatro se ne stava lì, abbandonato a sé stesso, invaso dalle erbacce e sorvegliato solo dal grande dipinto giallo raffigurante tua figlia Noemi con il naso che le sanguina. L'immagine di quel teatro me la porto dentro da allora. Tu andavi tutti i giorni in paese a comprare un pesce vivo per poi buttarlo nello stagno che avevi scavato tu stesso dietro la casa, come cibo per gli aironi, che venivano invece combattuti aspramente dai contadini della zona. Questa era la tua forma di Buddhismo, così dicevi.
Nel 2006 sei poi venuto a Roma dove avevamo organizzato una piccola mostra di dipinti del tuo ciclo Macchie bianche. Ma Roma non ti piaceva e sei scappato presto.
Cos'altro? Non so nemmeno se questa tua storia italiana ti interessi. Ci sono naturalmente anche molte altre persone che hanno lavorato con passione sui tuoi testi: la traduttrice Luisa Gazzero Righi, Gianfranco Varetto (regista e attore di Susn), Valter Malosti (regista e attore di Susn), Maurizio Lupinelli e Lady Godiva (Ella), Totò Onnis (Ella), il Teatro Due di Parma (Gust) e non so chi altro. Non so più a quante persone ho sottoposto il tuo romanzo L'ora della morte, finché non mi sono imbattuto in Antonio Moresco. È stato lui, poi, a trovare un editore.
Quel che io stesso ho sempre cercato di fare qui, e in questo tu sei stato il mio maestro e “generale a quattro stelle”, è stato resistere alla tentazione di una forma già data; è stato trovare sempre di nuovo il coraggio di aspettare finché si cristallizzasse una qualche nuova forma della quale nessuno di noi aveva avuto idea fino a quel momento. Ecco, questo è il coraggio che mi manca soprattutto ora – autunno 2011 – in questa Italia malata, che avrebbe bisogno anch'essa di reinterpretarsi ex novo in modo radicale. Quel coraggio che, in forma un po' disperata, è alla radice dell'unico grande romanzo della tua vita improntato al tuo motto: “Non hai nessuna chance, ma sfruttala!”.
Grazie Herbert,
tuo Werner
San Cesario di Lecce, 2 novembre 2011
Ecco, ora è il 13 gennaio 2022 e ho appena letto sul giornale che sei morto pochi giorni fa. Ho ritirato fuori quel vecchio testo scritto in occasione della pubblicazione del tuo romanzo in Italia senza modificarlo granché. Voglio solo aggiungere che dopo quel 2011 ci sono state ancora molte altre lettere, e incontri, e anche un ultimo spettacolo da un tuo testo. La prima assoluta di Arkadia, l'ultimo tuo testo, nero, nerissimo, ma sempre intriso di quel tuo invincibile umorismo. L’ho realizzato in Germania in occasione del tuo ottantesimo compleanno. Ma tu eri già costretto a letto, non uscivi più di casa, accudito da tua figlia mentre guardavi alla TV i documentari sugli animali. La tua è stata un'uscita di scena lenta e silenziosa. Ma non sarò certo l'unico a ricordarti, per sempre.
Grazie,
Werner
Un pensiero di Lea Barletti
“Du hast keine Chance, aber nütze sie”: non hai alcuna possibilità, ma sfruttala (H. Achternbusch)
Lui, l'ha fatto.
L'ultima volta che l'abbiamo visto, a casa sua a Monaco, ormai diversi anni fa, quando siamo arrivati guardava i cartoni di Tom &Jerry. Gli ha fatto piacere che avessimo portato i bambini, gli piacevano. Secondo la figlia non poteva alzarsi, ma invece si è alzato e ci ha preparato il tè.
La casa era tutta dipinta, tutta, anche i pavimenti di legno. Era piena di luce, ma forse sono io che voglio ricordarla così. Il tè era buono. Le tazze erano belle, imperfette, forse orientali. Ogni oggetto era bello e un po' imperfetto, come ogni cosa veramente bella, ogni storia, ogni persona.
Questo piccolo dipinto lo aveva regalato pochi anni prima a nostro figlio Tobia. È un asinello. Tobia lo tiene sulla parete accanto al letto.
Lea Barletti