Ritrovare la fede nell'umano / Petter Moen, Mollergata 19

12 Luglio 2019

«I confini del mio corpo sono i confini del mio io – scrive Jean Améry –. La superficie cutanea mi protegge dal mondo esterno: se devo avere fiducia, sulla pelle devo sentire solo ciò che io voglio sentire» (in Intellettuale ad Auschwitz, Bollati Boringhieri). La tortura rovescia questa certezza e travolge ogni scelta, decisione, proposito: «quando non si può sperare di essere soccorsi, la sopraffazione fisica da parte di un altro diviene definitivamente una forma di annientamento dell'esistenza» (Améry). Questo accadde a Petter Moen, intellettuale ed esponente della resistenza norvegese all'occupazione nazista, quando all'età di 43 anni venne rinchiuso nella prigione della Gestapo a Oslo, in via Mollergata 19.

Il 3 febbraio 1944, Moen viene arrestato insieme alla giovane moglie Bergliot S.V. Gundersen che verrà subito internata nella prigione Lager di Grini, un campo di transito aperto dai nazisti in Norvegia e destinato agli oppositori. Prigioniero alla Victoria Terrasse, il quartier generale della Gestapo tedesca, Petter è sottoposto a tortura e interrogato ripetutamente. Da questo momento, le sevizie e gli interrogatori infiniti saranno una regola, anche quando Moen verrà trasferito alla prigione di Mollergata 19. I suoi carcerieri sanno di avere tra le mani una delle figure di riferimento della stampa clandestina, in particolare del giornale «London Nytt» (Notizie da Londra), che informando sull'andamento della guerra spinge la popolazione alla resistenza; per questo utilizzano ogni mezzo per costringerlo a parlare.

 

Il clima di terrore che la Gestapo sa infondere nei prigionieri del Reich è totale: sottoposti a interrogatori vengono sollevati da terra per i capelli, fino a perderne ciocche insanguinate, subiscono fustigazioni con corde nodose e spranghe di ferro sulla schiena e su tutto il corpo e schiacciamento di vari organi con minaccia di castrazione. Il viso tumefatto, il corpo dolorante e rotto, il sangue rappreso dai piedi alla testa, il prigioniero usciva da questi trattamenti speciali irriconoscibile persino ai compagni di prigionia. Moen che quando è nella cella inizia a tenere un diario delle ore e dei giorni trascorsi in isolamento, comincia a scrivere incidendo le parole su fogli di carta igienica scura, con l'aiuto di un pezzetto di ferro, recuperato da una tenda dell'unica finestrella della cella.

 

Reagisce così al dolore, alla paura e alla solitudine, nonostante il divieto di scrivere. Scrive quasi sempre alla cieca, nelle condizioni di buio della cella, e ogni cinque pagine, raccoglie il suo lavoro in un altro foglio, facendo poi scivolare i suoi pensieri «arrotolati» nei fori della presa d'aria della cella, posta alla base di una parete.

Moen ritrova così se stesso e il «tesoro» della resistenza al nazismo, recupera coraggio e dignità, dialoga con la moglie e i suoi compagni di lotta così, continuando a scrivere anche quando gli verrà cambiata la cella e sarà rinchiuso, questa volta insieme ad altri, in attesa di essere deportato in Germania.

Dal 10 febbraio al 4 settembre 1944, Moen scrive un migliaio di pagine che non potrà rileggere e che consegna agli uomini che verranno dopo di lui, invitandoli esplicitamente o indirettamente, con il racconto delle sue piccole vittorie quotidiane contro il male, fisico e psichico da cui si sente aggredito in ogni istante, a tenere alto lo spirito, a trovare la strada della fede in Dio, intesa anche come fede nell'essere umano. In una parola a resistere per contribuire al sorgere di una nuova umanità, capace di accogliere l'altro e di dialogare in spirito di amore. I suoi amici in libertà, la moglie cui rivolge sempre un «amoroso e tenero pensiero», gli consentono di dare corpo, attraverso una scrittura segreta e fluente come un’acqua che esce dalla fonte originaria, a una resistenza interiore che si manifesta anche nei suoi sogni.

 

 

Il 16 febbraio scrive: «È la V.T. [Victoria Terrasse] il grande terrore. Sono stato strangolato – fisicamente e moralmente – per 30 ore laggiù. Rabbrividisco e tremo all'idea del prossimo interrogatorio. Picchiano perché tu dica più di quanto sai!! Ma stanotte in sogno ho avuto un cenno. [... mi si diceva:] non temere così tanto. Te la caverai facilmente.»

Consapevole che ogni suo cedimento avrebbe comportato la fine dei suoi compagni di lotta, Moen cerca in ogni istante di ritrovare una forza che i suoi carcerieri provano, in ogni momento, a ridurre a estrema debolezza, per togliergli ogni resto di umanità.

«Non sono coraggioso. Non sono un eroe» scrive tra l'altro, consapevole della sua natura. Eppure, grazie alla scrittura, come è accaduto anche ad alcuni prigionieri dei ghetti e dei Lager, trova la forza di resistere, di ritrovare il senso della responsabilità per tutti coloro che lottano per la libertà e per la dignità. Il dolore e la paura non lo piegano.

 

Esistere e resistere per gli altri sono due modi di essere che lo rappresentano all'interno di una ricerca della fede, in un Dio che assume forma umana. Che si fa corpo a partire dalle sue ferite dopo le torture, che entra con forza nella vita quotidiana come il pensiero di Bella, nome con cui designa il suo amore terreno, la moglie.  In tutta questa sua tragedia umana, traspare dalle righe che ci riportano con forza e dolcezza i suoi pensieri dal carcere, il suo bisogno di ritrovare il divino in tutto ciò che è umano. E come suggeriva già Moravia, in: L'uomo come fine (Bompiani), per Petter Moen il dolore, la sofferenza, la vicinanza con la morte sono quel che resta di umano nell'uomo e nella donna anche quando sembra che la loro anima sia perduta, trasformata in merce, in puro oggetto di scambio; sono quel resto dell'essere che non si può cedere, scambiare e che se ricompreso dentro se stessi, anche nelle condizioni estreme, ci riporta alla nostra umanità. 

Quella di Moen, mossa da una scrittura a volte traballante, che sembra cedere alla disperazione e al dolore, alla paura e all'angoscia, è una parola molto vicina al racconto di Primo Levi dei Sommersi e salvati. Ci ripropone con forza il nostro essere, e in modo ineludibile, umani e fragili e nel contempo forti, se il pensiero dell'Altro prevale nel disegno del mondo in cui progettiamo di vivere ancora, fosse solo per pochi istanti.

 

Nei suoi scritti Moen si sofferma spesso su molti dettagli della vita quotidiana e, quando viene trasferito in una cella con altri detenuti, scrive della gioia di una ritrovata dimensione sociale.

Prelevato dal carcere il 6 settembre 1944, come annota un suo compagno di cella, in uno dei rotoli trovati vicino ai fogli del diario, verrà caricato sulla nave Westfalen, insieme ad altri prigionieri. Due giorni dopo, nello stretto di Kattegat, lo scafo urta una mina e affonda.

Fra i deportati i sopravvissuti sono pochi: a uno di loro, Petter Moen aveva confidato di avere scritto il diario e di averlo nascosto nella prigione. Pubblicato in Norvegia nel 1949, a settant'anni di distanza viene tradotto per la prima volta in Italia, con una cura editoriale seria e rigorosa.

 

La sua lettura oggi ci restituisce il senso di un nuovo civismo, capace di superare le avversità e di vincere la spinta a rinchiudersi nell'interesse individuale, costi quel che costi, anche l'abbandono della solidarietà e della responsabilità nei confronti degli altri. Attraverso la perdita di sé, a cominciare dal suo corpo martoriato, Moen ritrova la fede nell'umano e nella socialità, la forza di resistere anche quando il dolore fisico lo getta nella crisi più profonda. Una lezione importante per oggi e insieme un monito a non smettere di credere nella capacità di reagire alle avversità, per non rinunciare mai al rispetto di sé e alla dignità; attività dello spirito che hanno un grande valore se la ribellione alla disumanizzazione, in atto nel nostro tempo, si coniuga con la virtù quotidiana dell'altruismo.

 

Petter Moen, Mollergata 19, Quodlibet 2019.

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