Marc Dugain. Viale dei Giganti
“Essere, vuol dire essere incastrati.” L’esergo di Emil Cioran in apertura ci porta subito al cuore dell’ultimo romanzo di Marc Dugain. In effetti, quello che l’autore francese ha scritto, prima ancora di essere la vera storia di un serial killer raccontata con profonda intelligenza narrativa, è un libro sul rapporto di ogni essere umano con un senso di reclusione che impedisce di uscire dalla propria coazione a ripetere. La reclusione fisica, la prigione, viene dopo: una volta oltrepassata la barriera che divide il criminale dal buon cittadino, il folle dal sano. Ma prima c’è la reclusione mentale, da cui il protagonista di Viale dei Giganti (Isbn Edizioni, Traduzione di Chiara Manfrinato) sa di non potersi emancipare.
Lo scrittore è stato folgorato dalla vicenda di Ed Kemper – ancora oggi in carcere, colpevole di stupro e omicidio ai danni di giovani ragazze –, ha ascoltato le interviste, letto i documenti, visitato i luoghi dove si sono svolti i fatti, per poi lavorare alla costruzione di un personaggio indimenticabile. Un mostro del quale, con il procedere della narrazione in prima persona, cominciamo a comprendere i ragionamenti e le reazioni. Il protagonista del romanzo si chiama Al Kenner, ha sperimentato l’odio della madre e la sua violenza fin da piccolo, l’ha vista alcolizzarsi e ha perso il suo unico alleato, un padre che se n’è andato e che però lui continua in cuor suo a difendere. Da quel momento in poi, sarà incapace di reagire e, anzi, cancellerà il dolore, diventerà assolutamente indifferente, salvo poi trovarsi prigioniero dei propri orrendi pensieri. Da quelli non ci si può salvare.
Marc Dugain
Ma l’altra faccia della reclusione è il senso dello spazio. L’autore è un maestro nel farci sentire immersi nei grandi spazi americani, quando Al Kenner parte in moto per assaporare ancora una volta la velocità, il vento e le distese di montagne – per vivere i soli momenti di vera libertà da se stesso e dalle proprie ossessioni. E allora, sì, proviamo una forma di empatia nei confronti dell’assassino e siamo portati ad allargare lo sguardo verso la società che, molto chiaramente, l’ha prodotto. È l’America degli anni ’60, della violenza lecita durante la guerra in Vietnam e del sogno del movimento hippy destinato a naufragare. Al, figura consapevole, lucida, un QI sopra la media, parlando con una figlia dei fiori invecchiata definisce quella sconfitta, dettata da un errore di valutazione: “L’uomo non nasce buono per essere poi corrotto dalla società. È un rettile braccato da un civiltà alla quale cerca perennemente di sfuggire”.
Così Dugain ci porta nel territorio di un male terrificante eppure a un passo da noi e, senza scadere nel voyeurismo, è capace di affascinare e avvincere, in un romanzo che inghiotte e non rallenta mai. Siamo sempre sul crinale tra realtà e dissimulazione e lo stesso protagonista è la sintesi perfetta di questa contraddizione umanissima. E forse una delle vie più interessanti della narrativa contemporanea sta proprio lì, sul confine labile tra la realtà di una storia vera e la finzione che la trasforma, rendendocela così più vicina. Dugain ne fa la cifra potente di questo libro, confessando nella nota finale che “romanzare un personaggio vuol dire tradirlo per restituirne al meglio la sostanza”.