Uno shock / Autocensura a Hong Kong
Quel che accade a Hong Kong è terribile. Un paese che da ventitré anni è abituato alla più completa libertà di espressione e di stampa, al punto che un’intera generazione più giovane letteralmente non conosce le limitazioni d’uso in Cina, e quindi comunica liberamente sui social e sul vasto web, apre testate e radio indipendenti, manifesta (pacificamente quando non attaccata dalla polizia) per ottenere il suffragio universale, da un giorno all’altro si è sentita comunicare che è finita lì: la National Security Law approvata a Pechino e poi ratificata dal governo locale prevede l’arresto e la condanna tra i tre e i dieci anni per ogni atto di “secessione, sovversione, terrorismo e collusione con forze straniere”: cioè tutto. Hong Kong è un paese ancora alla ricerca del suffragio universale, benché alcune forme di espressione della volontà popolare tramite elezioni, pur limitate, ci siano. E proprio questa ricerca, iniziata nel 2014 con il cosiddetto movimento degli ombrelli, ha scatenato, nei fatti ha anticipato la zampata cinese, alla faccia degli accordi che prevedevano il completo ricongiungimento alla madre patria cinese solo nel 2047, e che in modo chiaro prevedevano nei cinquant’anni precedenti forme larghe di autonomia.
La generazione più giovane è venuta su avendo nelle orecchie la musica occidentale che i genitori sbandieravano a rimarcare la loro lontananza dalla Rivoluzione Culturale nei settanta: i Sex Pistols, i Pink Floyd. Ma anche tanto Cantopop, e gli idoli del cinema locale, perfino il raffinato Wong Kar Wai pronunciato però in cantonese, come lo traslitteriamo noi, e non nel mandarino che diverrà presto obbligatorio perché sarebbe Wang Jiar Wei . Nell’ultimo anno, dopo gli imponenti cortei del giugno-luglio 2019 in cui si calcolava che uno su cinque o sei tra i sette milioni di abitanti fosse per strada, molti negozi avevano scelto il giallo come colore distintivo delle loro vetrine, tappezzate di volantini e slogan: è il primo segno evidente della sconfitta, questo, le vetrine smantellate, le persone che passano e fotografano quello che definiscono uno scempio. E alcuni muri della città, nelle stazioni della metropolitana o nei sovrappassi pedonali, definiti negli ultimi anni Lennon Walls perché sfondo a centinaia di post-it multicolori recanti slogan a favore della democrazia, oggi sono stati ripuliti, qualcuno timidamente reincolla nuovi post-it grigi e questa volta muti. Tante persone, immediatamente il giorno dopo l’applicazione della legge, hanno cancellato account facebook o twitter, hanno chiuso i blog. Si chiama paura: tutto qui. Demosisto, il partito del più noto in occidente tra i leader del movimento, Joshua Wong, è stato sciolto entro ventiquattrore e uno dei leader, Nathan Law, ha lasciato il paese.
Mi diceva una ricercatrice qualche anno fa: io voglio il diritto di pensare quello che penso senza dover chiedere a nessuno: voglio il diritto di essere me stessa. Perché di questo si tratta. Qui la parola chiave è: autocensura. Tenete conto che escono un giorno sì e uno no una sorta di decreti attuativi della legge. Recentemente è stato chiarito che la polizia ha diritto insindacabile di perseguire gli editori per ogni contenuto, presente o passato, contrario alla legge. Tutti sono sui loro siti a spulciare articolo per articolo, a domandarsi cosa farne, a chiedersi se sia più prudente cancellare. Sui giornali occidentali sono comparse interviste a giornalisti, poeti, attivisti, che dopo la prima reazione di sconcerto hanno dichiarato di non volersi assoggettare. Dicono che continueranno a scrivere quello che pensano, ma solo qualche giorno fa mi scriveva preoccupata un’amica per sapere se l’avevo citata nel libro che sto preparando: in che modo? E che parole le ho messo in bocca? Io ricordo gli amici a Pechino quando mi raccontavano l’autocensura, che ha portato qualcuno a smettere di scrivere: come posso non raccontare, mi si diceva, tutto ciò che è importante per me? E figuriamoci loro, gli intellettuali giovani e meno giovani di Hong Kong che negli ultimi anni sono divenuti tutt’uno con il movimento per la democrazia, vivendo sulla propria pelle la repressione feroce degli ultimi dodici mesi, fino al Covid che ha spento tutto.
A Pechino tutto è più asettico, sotto traccia: perché l’abitudine è consolidata in settant’anni. Tutti noi che l’abbiamo frequentata sappiamo che gli intellettuali e gli artisti, nel complesso, circolano liberamente, i quartieri delle gallerie d’arte sono sempre pieni di novità, come se la crescita economica tumultuosa fosse accompagnata anche da uno sbocciare di attività creativa. Ma tutti sono abituati allo slalom necessario a evitare i cosiddetti temi sensibili, la modalità è vastamente introiettata, e chi viene di volta in volta sanzionato fa spallucce: solo di pochi nomi importanti si viene a sapere di un arresto, di una carcerazione, ciascuno ha un romanzo o un progetto in un cassetto, e si sa che non ne uscirà mai, le frustrazioni aperte sono della fine del periodo dorato negli anni ottanta, dopo le prime aperture poi chiuse con il massacro di Piazza Tian an men. Da allora, l’autocensura. È questo essere tutto sottotraccia che permette a molti di dimenticare, quantomeno di sottovalutare la forza della soppressione delle libertà di espressione in Cina: qui non se ne è mai vista, persino i social sono di stato, e che i contenuti ogni tanto vengano cancellati (come durante le settimane di espansione del contagio) non comporta particolari infelicità: è sempre stato così. Ma per Hong Kong è uno shock: perfino sotto il tallone della Corona britannica la libertà di critica era assodata, e si manifestava per l’indipendenza. Oggi i ragazzini, banalmente, si chiedono: non avrò più Telegram, Facebook, Twitter? Chi si occupa di cultura non sa che pesci pigliare. È tremendo.
Non so immaginare quale potrebbe essere la mia reazione se mi dicessero che accade lo stesso nel mio paese. Cosa posso scrivere, cosa posso o non posso dire? Davanti a una pagina bianca quanto lascio correre il mio pensiero? E ora: cosa c’è di mio negli archivi? E online? Quando si parla, nella consueta modalità asettica, della Cina e della negazione della libertà di parola si fa riferimento a qualcosa di comunemente dato, ci si può fare della filosofia perché gli accomodamenti, le rinunce, i compromessi con se stessi sono ormai parte di sé, della propria personalità. Ma qui è novità, è negazione di tutto il modo di vivere dell’esistenza intera dei meno anziani. C’è un paese del mondo dove sia già andata così? Dalla libertà di espressione e di stampa, all’autocensura a cui fa da spalla l’ora di educazione patriottica nelle scuole di ogni ordine e grado? Forse solo qualche paese finito sotto il tallone del fondamentalismo islamico. Si spera che prevalga, a Hong Kong, quel proverbiale atteggiamento del regime cinese di non pestare mai troppo duro, di reprimere nell’ombra: ma questa appunto è la minaccia più sentita, l’ombra, nella quale sei tu, solo con te stesso, che devi decidere cosa non scrivere, dove fermare la tua frase, quale verso tenere sospeso, e poi, magari dimenticare. Ci si attendeva, capisco, un più lungo periodo di interregno da qui al 2047: una vita, la propria. Ma la zampata cinese è arrivata, forse in parallelo a quella americana che consente a Israele di papparsi la Palestina.
Ancora una volta è la grande geopolitica che si fa beffe delle aspirazioni degli individui. Siamo sempre lì. Eppure non è finita: conosco molti hongkonghesi, anche giovani, e so che la voglia di libertà è insopprimibile. Ci sono le elezioni al parlamento, a settembre. Elezioni farlocche, perché metà dei seggi vengono assegnati dalle corporazioni professionali, per lo più asservite a Pechino. Ma le sorprese sono dietro l’angolo, stando ai sondaggi il campo democratico potrebbe vincere quasi in tutte le circoscrizioni grazie al maggioritario, e chissà che tra le corporazioni non si apra qualche smagliatura. Alle primarie del campo democratico hanno partecipato seicentomila persone, quasi un abitante di Hong Kong ogni dieci. Ne vedremo delle belle.