Per una breve storia della fotografia contemporanea cinese

9 Luglio 2015

Sembrano appartenere a un passato ormai remoto le immagini del documentario, Chung Kuo, che il regista Michelangelo Antonioni realizzò in Cina nei primi anni '70, invitato dal Primo Ministro Zhou Enlai, favorevole alla rottura dell'isolamento internazionale e all'avvicinamento agli USA, nonché esperto di propaganda. Scegliere Antonioni per divulgare al mondo gli esiti della straordinaria rivoluzione della “prospera Cina socialista” parve essere del tutto naturale, in quanto regista di fama mondiale, iscritto, inoltre, al Partito Comunista Italiano. Benché Antonioni fu costretto a riprendere delle scene programmate appositamente per lui, come le operaie che dopo il lavoro rimanevano a studiare il Libretto Rosso del Presidente Mao o i bambini che giocavano all'asilo, al cineasta italiano non sfuggirono povertà e arretratezza; riuscì, infatti, a catturare molte immagini autentiche, ad esempio la scarsità di merci nei mercati agricoli, Piazza Tienanmen attraversata da qualche bicicletta e nessuna automobile. Le intenzioni di Antonioni, lungi dall'essere malevole – di fatti il regista rimase positivamente impressionato dall'assenza nella società cinese di quei mali tanto diffusi nell'Occidente industrializzato – furono fraintese e il suo documentario divenne oggetto di una feroce campagna denigratoria lanciata dalla moglie di Mao Zedong, Jiang Qing, e da altri uomini del Partito, in quanto il regista aveva, a loro dire, colpevolmente mostrato il lato negativo della Cina socialista. Nel 1979, tre anni dopo la scomparsa dalla scena politica della Banda dei Quattro, capeggiata proprio da Jiang Qing, e con Deng Xiao Ping alla guida del Paese, il governo fece ammenda, chiedendo pubblicamente scusa all’intellettuale italiano per avergli inflitto un trattamento così iniquo. Siffatta tardiva ammissione di colpa la dice lunga su come stessero inesorabilmente mutando gli ideali sociali dei cinesi. L'ambizione per il progresso e l'industrializzazione, l’apertura all’Occidente, assieme a una transizione da un'economia pianificata a un'economia di mercato di stampo socialista, erano adesso l'imperativo categorico da perseguire senza indugi. Da allora, la Cina è stata protagonista di un autentico miracolo che l'ha portata nel giro di un trentennio a diventare una potenza economica di livello globale, tanto che oggi le decisioni di Pechino sono determinanti anche per noi. Il volto della Cina, del suo paesaggio, e delle sue città è mutato irreversibilmente. I cinesi sono riusciti nel loro più alto e ambizioso intento: non solo uguagliare, ma addirittura superare i paesi sviluppati, il Giappone primo fra tutti. Questo complesso processo di cambiamenti politici, sociali ed economici, culminanti nel 2008 con le Olimpiadi di Pechino, vera e propria “presentazione in società” della nuova Cina, ha sensibilmente influenzato anche le sorti delle arti visive.

 

Rong Rong, Autoritratto, Villagio orientale, 1994

 

Il 1979 può essere considerato a buon ragione un anno cruciale, in quanto nasce il primo movimento artistico d'avanguardia, il gruppo Star (Xing Xing) composto da artisti autodidatti tra cui un giovanissimo Ai Weiwei, ha inoltre luogo la prima mostra fotografica Nature, Society and Man e, sempre nello stesso anno, viene pubblicata una raccolta di fotografie scattate durante i funerali di Zhou Enlai dal titolo People's Mourning dei fotografi Li Xiaobin e Wang Zhipin, fautori, qualche anno più tardi, del movimento noto come Photographic New Wave (Sheying Xinchao). Infine, a un anno di distanza dalla riapertura dell'Istituto Cinematografico di Pechino, che avrà come studenti coloro i quali formeranno la “Quinta generazione”, da Zhang Yimou a Chen Kaige, da Tian Zhuangzhuang a Ning Ying, viene redatto un manifesto sulla modernizzazione del linguaggio cinematografico a opera di Zhang Nuanxin, esponente di punta del “nuovo cinema cinese” e autrice del film Il sacrificio della gioventù (Qingchun ji, 1985), coraggiosamente ambientato durante gli anni della Rivoluzione Culturale.

 

Pur operando chi nel cinema, chi nell’arte, chi nella fotografia, le personalità che guidano questi primi tentativi di dissidenza hanno in comune il desiderio di affrancarsi dai canoni restrittivi del Realismo Socialista imposti da Mao nei quasi tre decenni in cui fu al potere. Infatti per comprendere a pieno lo sviluppo delle arti visive cinesi, a cominciare dalla pratica dei suoi pionieri che posero le basi per la libertà di espressione artistica, occorre fare un passo indietro e andare al periodo storico compreso tra il 1949 e il 1976, anno della morte di Mao Zedong e di Zhou Enlai.

 

Il 1 ottobre 1949 fu proclamata, a Pechino, la nascita della Repubblica Popolare cinese guidata da Mao Zedong, dopo circa un trentennio di lotte intestine e di guerra civile, seguite alla fine dell’impero mancese, che videro contrapposti da un lato, il Partito dei nazionalisti, il Guomintang, guidato da Chiang Kai-shek, e dall'altro il Partito Comunista che ebbe, infine, la meglio. Si afferma così una nuova fase culturale. A Yan'an, città della provincia dello Shaanxi, ove l'Armata rossa aveva costituito il suo quartier generale negli anni '30, apre nel 1938 l'Accademia d'Arte Lu Xun in cui giovani artisti e intellettuali si interrogano su quale direzione debbano prendere arte e letteratura, la risposta a tali quesiti giunge da Mao, il quale nel 1942 pronuncia i suoi celebri discorsi sull'arte e la letteratura, con i quali afferma in sintesi la necessità che l’arte si ponga al servizio della politica e gli artisti al servizio delle masse contadine. Mao impone l'adozione ufficiale dei modelli artistici derivati dalla propaganda sovietica, ovvero lo stile del Realismo Socialista che affonda le sue radici nella pittura accademica europea di fine Ottocento; a tale scopo verrà chiamato a insegnare pittura a olio presso l’Accademia centrale di Pechino il russo Maksimov Maksimovič, il quale influenzerà gli artisti più importanti del periodo come Chen Yifei e Dong Xiwen. La fotografia divenne, invece, uno strumento asservito alle logiche della propaganda di Stato. Le immagini di quel periodo non sono lontane nei contenuti dalla produzione pittorica ufficiale: esse dovevano mostrare con retorica trionfalistica la mobilitazione delle masse contadine per realizzare il sogno di una tanto attesa modernizzazione. Dalle pagine dell’unica rivista di fotografia pubblicata senza interruzioni la China’s Pictorial (Renmin Huabao), si diffuse la pratica del ritocco e della manipolazione. I fotografi che si votarono alla causa rivoluzionaria come Wu Yinxian, Sha Fei, e Xu Xiabing, quest’ultimo fotografo personale di Mao, contribuirono con le loro foto a creare il mito della rivoluzione maoista. Rimaneva relegata nella clandestinità l’attività di Li Zhensheng, fautore viceversa di un tipo di fotografia più intimistica da cui potesse emergere il suo estro e la sua personalità. Mentre Long Chin-san, promettente fotografo legato al movimento culturale del 4 maggio 1919, scelse l’autoesilio a Taiwan dove fondò la Photography Association.

 

Dong Xiwen, La nascita della Nazione, 1964

 

Del tutto effimeri e ininfluenti sul piano della libertà d’espressione furono gli esiti della campagna dei “Cento fiori”, la quale prendeva spunto in modo particolare dal rigoglio culturale denominato “Cento Scuole di Pensiero” del periodo degli “Stati Combattenti” (453 - 222 a.C.). Mao si ispirò a quest’epoca per promuovere a suon di slogan altisonanti (tra cui la celebre frase “che cento fiori fioriscano, che cento scuole gareggino”) la liberalizzazione nella vita culturale del Paese, ma il regime subito si contraddisse spedendo molti intellettuali e artisti di spicco nei campi di rieducazione. Com’è facilmente immaginabile, questo clima di controllo, censura e ferocia inaudita esercitata contro l’intellighenzia soprattutto negli anni della radicalizzazione del processo rivoluzionario (1956-1966), provocò una paralisi nella produzione culturale tout-court.

 

Ma quando, nel 1978, Deng Xiao Ping sale al potere, i tempi sono ormai maturi per prendere le distanze dalla scomoda eredità di Mao, promuovendo, in maniera inedita, la mobilitazione del capitale, delle imprese e degli investimenti stranieri; la Cina è pronta a voltare pagina. A questo punto l’evoluzione dell’arte e della fotografia sono strettamente intrecciate. A partire dai primi anni ’80 e per tutto il decennio si assiste alla nascita di numerose riviste di fotografia. Nel 1984 nella zona economica speciale di Shenzhen, nel sudest della Cina dove confluirono ingenti somme di capitali provenienti da imprese straniere fungendo da volano per l’economia dell’intero Paese, nacque la rivista InPhotography con lo scopo di far conoscere a un pubblico sempre più ampio un nuovo modo di intendere la fotografia grazie a un’inedita possibilità di affrontare temi più vasti e complessi rispetto al passato e al relativo allentamento della censura (peraltro ancora operante). A Pechino e nello Shanxi nacquero poi i settimanali People’s Photography and Photo Newspaper, i quali contribuirono alla diffusione della fotografia documentaria e alla divulgazione delle correnti e degli stili fotografici occidentali. A fare da apripista i già citati Li Xiaobin e Wang Zhipin che offrono dei funerali di Zhou Enlai, uomo molto amato dalla maggioranza dei cinesi, una rappresentazione tanto simbolica quanto tenacemente sociale. Nascono numerosi club, come il Rupture Group di Pechino e il North River League di Shanghai i quali, sulla falsariga del nuovo “credo” efficacemente illustrato da Wang Zhipin nella sua prefazione del catalogo della mostra Nature, Society and Man, favoriscono un vivace dibattito sullo status della fotografia, proponendosi come obiettivo ultimo quello di elevare questa tecnica a livello delle altre arti visive. Con la sua ricerca fotografica, Li Xiaobin sarà invece impegnato sul fronte opposto: valorizzare la capacità intrinseca della fotografia di saper documentare e immortalare la realtà, per sua natura tragicamente mutevole ed effimera. In particolare, negli anni dal 1977 al 1980, intuisce la valenza, sul piano storico e sociale, del movimento di protesta dei Shangfangzhe ( letteralmente i “petizionisti”), ovvero le vittime della Rivoluzione Culturale, che dagli angoli più remoti del Paese si riversarono in Piazza Tienanmen e nelle strade di Pechino per chiedere a gran voce un risarcimento morale e materiale. La sua poderosa documentazione di questo primo movimento di feroce e organizzato malcontento resta a oggi l’unica testimonianza del fenomeno che di fatto passò inosservato agli occhi dell’opinione pubblica come dei media. Non sorprende che a tacere siano stati gli organi informativi conniventi col Potere, persino quelli che osavano, pur timidamente, sfidare il Governo si mostrarono reticenti e alla fine tacquero, consapevoli che non sarebbero passati indenni attraverso le strette maglie della censura.

 

Sul piano artistico, a ricoprire un ruolo di primo piano è il critico e curatore Li Xianting, il quale dalla pagine delle sue riviste Fine Art Magazine e China Fine Art Newspaper lancerà strali sulfurei contro i veti della propaganda di Stato, rea di aver immiserito le potenzialità espressive dell’arte incoraggiando, di contro, gli artisti ad abbracciare senza remore un stile “anti-realistico”; qualche anno più tardi Li sarà, non a caso, il mentore del Movimento Gaudy. Dalla metà degli anni ’80 si affermano nel panorama fotografico cinese due opposte tendenze che, tuttavia, hanno in comune un approccio documentario e umanistico, ovvero votato a raccontare la vita della gente comune con una sincera partecipazione emotiva: da un lato la corrente cosiddetta “delle radici” o “del suolo nativo” (Xiangtu Meishu) e dell’altro la fotografia “delle ferite” (Shanghen Yishu), quest’ultima, in concomitanza con l’arte e la letteratura, intende denunciare gli sconvolgimenti e le tragedie indotti dalla Rivoluzione Culturale nella vita della gente, mentre il movimento del “suolo nativo” ha come obiettivo quello di ricercare le radici culturali della civiltà cinese, fotografando luoghi remoti del Paese e alcune minoranze etniche con un approccio quasi scientifico ed etnografico. Valgano da esempi il lavoro di Wu Jialin sul popolo Wa dello Yunnan e quello di Yu Deshui sulla vita dei popoli lungo le rive del Fiume Giallo.

 

Zhang Haier, Cai Shanqing nella sua stanza, Guangzhou, 1994

 

Il 1989 segna uno spartiacque nella storia della fotografia e dell’arte contemporanea cinese. Due gli avvenimenti fondamentali: le proteste di Piazza Tienanmen, culminanti con la violenta repressione del 4 giugno, e l’inaugurazione presso il Museo Nazionale di Pechino della prima mostra ufficiale dell’arte d’avanguardia dal titolo China Avant-Garde. Se negli anni ’80 la censura e la mancanza di aiuti governativi costringono gli artisti a praticare la loro arte di dissidenza clandestinamente, esibendola in spazi privati, magazzini, appartamenti, e in aree rurali, così da eludere la sorveglianza inquisitoria del Ministero della Cultura, verso la fine degli anni ’90 le arti visive, affrancate dalla rabbiosa spinta iconoclasta e anti-ideologica dei pionieri, e favorite dalla nascita di un vero mercato e di un circuito espositivo fatto di fiere, gallerie e case d’asta, cominciano a esplorare, sia pur in maniera sempre vigile e attenta, nuove tematiche sulla scia dei grandi mutamenti economici e sociali che stanno avendo luogo nella nazione: il consumismo, la passiva e pervasiva assimilazione degli stili di vita occidentali, la trasformazione irreversibile del territorio per via di uno sviluppo vertiginoso del settore immobiliare, il fenomeno concomitante dell’urbanizzazione e la nascita di grandi metropoli. In questo mutato clima ideologico e culturale avviene la transizione da un tipo di fotografia documentaria a uno di tipo concettuale, in cui gli aspetti egemoni sono non più l’opera finale, la rappresentazione in sé, bensì l’idea, il pensiero e il percorso per realizzare l’immagine. I primi fotografi che operano in questa direzione sono Gu Zheng, Mo Yi e Zhang Haier, quest’ultimo, autore peraltro di un discusso reportage in bianco e nero sulle prostitute di Guangzhou, sarà ospite nel 1988 insieme ad altri quattro fotografi del Festival della fotografia di Arles: primo atto di un interesse sempre maggiore dell’Occidente nei confronti dell’arte asiatica. Un’altra interessante costola della nascente fotografia concettuale è costituita da quei fotografi autodidatti, che durante gli anni della prima ondata di arte performativa, utilizzarono la fotografia per lavorare affianco degli artisti documentandone, appunto, le performance. I più famosi sono senza dubbio Xing Danwen e Rong Rong, autori degli scatti del Villaggio Orientale (Dong Cun), un quartiere all’estrema periferia di Pechino, ove si raccolse una comunità di artisti, alcuni dei quali divenuti in seguito famosi come Zhang Huan e Ma Liuming. Costoro praticarono per primi la Performance, mettendo in scena il loro corpo nudo con cui indagare su tematiche come l’identità, il malessere sociale, l’oppressione del Potere sul singolo, le proprie precarie condizioni di vita senza risparmiarci i dettagli più crudi – si veda, ad esempio, la Performance 12 Square Meters di Zhang Huan. Due mostre, negli anni ’90, legittimano a pieno titolo la fotografia concettuale, termine che acquisisce diritto di cittadinanza anche nel dibattito teorico, New Image: an exhibition of Conceptual Photography (Pechino, 1997) e Images Telling Stories: China’s New Conceptual Photography (Shanghai, 1998).

 

Zhagn Huan, Family Tree, 2000

 

Dal 2000 è ormai diventato impossibile parlare di un solo tipo di fotografia: esistono, piuttosto, diverse idee, approcci e riflessioni, nonché uno stimolante intreccio, che abbatte vetuste divisioni tra i generi, tra la fotografia e l’happening, la performance, l’installazione e la video arte. Se per Ai Weiwei la fotografia è prima di tutto veicolo per un’indagine sulla realtà, in Wang Qingsong è invece mezzo per criticare il consumismo e l’americanizzazione del Paese. Vengono in mente poi Liu Bolin e Li Wei, le cui immagini “ricostruite” ribaltano il consueto rapporto performance-fotografia, laddove l’enfasi è posta proprio sull’immagine finale per la quale la performance viene, appunto, concepita. Ma anche Hu Jieming, di cui è esemplare la fotografia La zattera della Medusa (2002), una rivisitazione in chiave “cinese” del quadro omonimo di Théodore Géricault, nella quale, grazie alle possibilità consentite dalla manipolazione digitale, Hu riunisce immagini provenienti da diverse realtà socio-politiche, offrendo così uno sguardo critico verso la globalizzazione.

 

Liu Bolin, Paolina Borghese Bonaparte, Roma, 2012

 

In che direzione stiano andando le arti visive in Cina non è del tutto chiaro, come pure nel resto del mondo. Ovviamente la fotografia non fa eccezione, una cosa, però, la si può affermare con ragionevole certezza: gli artisti e i fotografi cinesi sono ormai protagonisti dell’art system globale, ben consapevoli dei meccanismi perversi di un mercato ormai in mano a finanzieri e collezionisti. Un tale scenario lascia intravedere due possibili distinzioni, tra chi sceglierà di “giocare” maliziosamente col mercato, sfruttando, quindi, a proprio vantaggio la finanziarizzazione dell’arte e chi, invece, lo contrasterà per riaffermare la nozione di autorialità come forma di potere.

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