L’ebraismo è una concezione del tempo / La leggenda di Bruno Zevi

17 Marzo 2018

La vita di Bruno Zevi potrebbe essere narrata come quei racconti della tradizione chassidica in cui – con la velocità di un sogno o di una novella russa – si susseguono viaggi verso terre lontane, insegnamenti ricevuti o impartiti in una scuola e testimonianze di saggezza sapienziale.

 

L’incipit – come scrive lui stesso in Zevi su Zevi, 1993 – è «tutto sbagliato: data, cognome e nome»). La data, il 22 gennaio 1918: «Nascendo il 22 gennaio di quell’anno, […] in una fase intermedia, grigia, in cui si placa il trauma della disfatta, ma l’eventualità di un rilancio appare ancora remota […], ti precludi la disperazione e l’abbandono gioioso, sei costretto in un arco psicologico tra stupito e critico». Il cognome, Zevi: «Roland Barthes ha scritto esaustivamente sulla lettera Z, la “déviance”, dura, spezzettata, interrotta, rovesciata, innaturale, l’opposto della S fluida e continua. […] Zevi è un’intenzionalità verso Levi, perennemente frustrata? Neppure, c’è di peggio. In ebraico non esiste Zevi, bensì Zvi, ancora più breve e stridente». Infine il nome, Bruno: «[…] bisognava cercare un nome che lo integrasse, distendendolo, temporalizzandolo, rendendolo meno nevrotico. Che so? Gabriele, Cesare, Antonio, Carlo Ludovico, Angelo… Doveva cominciare con una B, a ricordo del nonno Benedetto? C’era Beniamino, Benvenuto… Qualsiasi nome è accettabile, tranne Bruno, conciso, precipitoso, con quella “u” che ti impone di chiudere la bocca e che quindi hai voglia di saltare. La città cecoslovacca Brno, ove Mies van der Rohe costruì la celebre Villa Tugendhat, si chiamava originariamente Bruno? Legittimo supporlo. Insomma, oltre a essere cortissimi, rattrappiti, nome e cognome sembrano destinati a contrazioni ulteriori; Brno Zvi».

 

A Roma frequenta il liceo Tasso, dove consegue la maturità classica nel 1936. 

Interrogandosi insieme al compagno di classe Mario Alicata in merito a quale università frequentare, quest’ultimo sentenzierà: «Ci sono due soli mestieri calzanti con la civiltà moderna: il regista cinematografico e l’architetto. Dunque, io regista e tu architetto». Alicata diventerà giornalista ed esponente politico del Partito Comunista Italiano, ma sarà anche lo sceneggiatore del film Ossessione, insieme a Luchino Visconti; Zevi architetto e molto altro ancora.

 

Si iscrive alla Facoltà di Architettura di Roma nell’anno accademico 1936-37, dove nell’arco di due anni sosterrà 13 esami. A seguito delle leggi razziali, nel 1939 lascia l’Italia per Londra: un viaggio che sarebbe dovuto durare al massimo due settimane, e che invece si prolungherà fino all’inizio del 1940. Qui frequenta l’Architectural Association School. Conosce Carlo Ludovico Ragghianti. Con Bruno Fuà, studente di architettura torinese, anch’egli riparato a Londra, progetta di andare in America per laurearsi con Walter Gropius, che insegna alla Graduate School of Design della Harvard University. Ed infatti si imbarca di lì a poco su un transatlantico che fa rotta per New York.

 

Negli Stati Uniti, dopo una «breve e insoddisfacente sosta nella Columbia University», approda infine a Cambridge, Massachusetts, a metà degli anni ’40. Ed è qui che – proprio come un devoto scolaro chassidico – viene finalmente a contatto con i “maestri”: Walter Gropius e, indirettamente, Frank Lloyd Wright. In un primo momento, tuttavia, appare incerto o confuso in merito ai rispettivi meriti e al valore dei due architetti: così, nell’opuscolo An Opinion on Architecture, firmato nel 1941 insieme ad altri studenti di Harvard, il metodo gropiusiano del lavoro d’equipe è fatto oggetto di apprezzamento in contrapposizione al «genio oscuro» wrightiano, «offuscato dalla sua stessa personalità» e «incapace di liberarsi di se stesso». Ma già a partire dal 1943, al suo ritorno in Italia, dopo aver conseguito il Bachelor a Cambridge, essersi sposato con Tullia Calabi e aver soggiornato nuovamente a Londra, diventerà il massimo paladino di Wright, lasciando la figura di Gropius alle cure sollecite di Carlo Giulio Argan, che ne farà il paradigma dell’architetto impegnato socialmente e politicamente per l’Italia della ricostruzione post-bellica. E ancora anni dopo, rievocando quella giovanile pubblicazione, ne riproporrà i contenuti in modo palesemente deformato: «Vi si critica il pragmatismo devitalizzato della didattica, e si difendono, con esplicito riferimento a Wright, i diritti del genio contro l’opacità del team work idealizzato da Gropius».

 

 

Il ritorno in Italia coincide per Zevi con l’inizio di un’attività editoriale che lo vedrà impegnato, nel corso degli anni successivi, su molteplici fronti, da cui sortiranno numerosissimi frutti. Nel primo libro, cui Zevi lavora già del 1944 e che verrà pubblicato da Einaudi l’anno seguente, egli si propone di analizzare quello che, nel sottotitolo, viene presentato come “lo sviluppo del pensiero architettonico negli ultimi cinquant’anni”. In realtà la figura che campeggia in modo indiscusso nelle pagine di Verso un’architettura organica è proprio quella di Frank Lloyd Wright. Nella sua architettura spazialmente aperta e figurativamente irregolare, asimmetrica, Zevi scorge l’emblema della democrazia, esattamente come nell’architettura moderna nel suo complesso vede la battaglia contro il fascismo (quella stessa battaglia che aveva combattuto personalmente dal “fronte” americano attraverso le pubblicazioni del Movimento “Giustizia e Libertà” e le trasmissioni radiofoniche diffuse di là dall’oceano). 

 

Da quel momento in avanti, comunque, il termine “organico” assumerà un significato capace di trascendere tanto l’“ortodossia” wrightiana quanto il più circoscritto ambito architettonico. Nel 1945, insieme a Luigi Piccinato e Silvio Rediconcini, Zevi fonda l’APAO (Associazione per l’Architettura Organica), in cui alla «fede architettonica» si affianca la «fede in alcuni principi generali di ordine politico e sociale», come recita la dichiarazione programmatica pubblicata sul n. 2 di «Metron», la rivista dell’Associazione guidata da Luigi Piccinato e Mario Ridolfi, e in seguito co-diretta anche da Zevi:  «L’architettura organica è un’attività sociale, tecnica e artistica allo stesso tempo, diretta a creare l’ambiente per una nuova civiltà democratica. Architettura organica significa architettura per l’uomo, modellata secondo la scala umana, secondo le necessità spirituali, psicologiche e materiali dell’uomo». Ispirata ai valori della libertà politica e della giustizia sociale, l’APAO nel 1946 si presenta senza successo alle elezioni comunali di Roma.

 

L’“impulso politico” – come lo chiama lui stesso – accompagnerà Zevi per il resto della sua vita: dapprima militando nel Partito d’Azione, poi in Unità Popolare, e infine nel Partito Radicale, nelle cui file viene eletto alla Camera dei Deputati tra il 1987 e il 1992, e di cui ricoprirà la carica di Presidente onorario dal 1988 al 1999. Ma altrettanto costante è il suo impegno civile, che lo vede combattere decennali battaglie contro gli abusi e il degrado urbanistico e territoriale italiano sulle colonne di «L’architettura - cronache e storia» (fondata nel 1955 e diretta da lui stesso fino alla sua morte, avvenuta nel 2000) e dell’«Espresso».

 

A questo sforzo pubblicistico si affianca fin dal 1949 l’impegno universitario, dapprima come libero docente presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, che gli affida il corso di Storia dell’arte e storia e stili dell’architettura, e in seguito – dopo il conseguimento della cattedra nel 1960 – presso la Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, dove insegna fino al 1979. E altrettanto significativo è il suo impegno all’interno di organismi come l’INU (Istituto Nazionale di Urbanistica), di cui Zevi diventa segretario generale dal 1952 al 1968, e l’In/Arch (Istituto Nazionale di Architettura), cui egli stesso darà vita nel 1959. In tutti questi contesti Zevi si fa portatore non soltanto di competenze e passione ma anche – e soprattutto – di una vis critica straordinaria, che fa di lui un vero intellettuale operante, ben al di là dei ruoli istituzionali che a più riprese riveste.

 

Il suo caratteristico “stile” appassionato e torrenziale si lascia riconoscere anche scorrendo l’elenco dei volumi da lui dati alle stampe nel corso della sua vita: dove ogni pubblicazione risponde a un’incondizionata adesione, a un pieno coinvolgimento che oltrepassa di gran lunga i semplici doveri accademici. Così, le monografie dedicate a singoli architetti (Frank Lloyd Wright, 1947; Erik Gunnar Asplund, 1948; Richard Neutra, 1954, cui in seguito si aggiungeranno quelle su Erich Mendelsohn, 1970 e Giuseppe Terragni, 1980) rivelano in modo trasparente le sue predilezioni, le sue ferventi scelte di campo.  E allo stesso modo, libri come Saper vedere l’architettura. Saggio sull’interpretazione spaziale dell’architettura (1948), tradotto in inglese con l’ancora più esplicito titolo di Architecture as Space – così come pure Poetica dell’architettura neoplastica (1953), Architectura in nuce (1960) e Il linguaggio moderno dell’architettura. Guida al codice anticlassico (1973), testimoniano con precisione la concezione zeviana dell’architettura come spazio: spazio interno, e perciò coincidente con il suo utilizzo, o meglio ancora, con l’esperienza del vivere, e non semplicemente con la sua figuratività, appartenente piuttosto a una concezione pittorica, che Zevi ha ben cura di distinguere da quella architettonica: «Negli invasi architettonici l’uomo non si limita a guardare dall’esterno un oggetto o a penetrarlo con l’animo e l’immaginazione, vi è immerso, è assorbito in un cosmo che agisce in una molteplicità infinita di coordinate, e nella durata del loro continuo ritmo» (Architectura in nuce).

 

È in particolar modo in quest’ultimo libro (rieditato in occasione del centenario zeviano da Quodlibet, con una prefazione di Rafael Moneo, traduttore nel 1969 del libro in spagnolo, e una postfazione di Manuel Orazi), che la questione dello spazio viene declinata in tutti i suoi aspetti: dall’antico al moderno, dall’architettura all’urbanistica, dagli autori ai quali Zevi dedicherà costanti attenzioni – Biagio Rossetti (Biagio Rossetti architetto ferrarese, 1960), Andrea Palladio, Michelangelo Buonarroti (Michelangiolo architetto, con Paolo Portoghesi, 1964), Francesco Borromini, Victor Horta, Ludwig Mies van der Rohe, Frank Lloyd Wright – alle opere anonime e ai contesti spontanei e vernacolari, valutati – crocianamente – come altrettanto degni di attenzione e passibili di letture ricche e stratificate.

 

L’utilizzo della fotografia come materiale interpretativo, e non semplicemente illustrativo, con liberi accostamenti e reiterazioni dello stesso soggetto, inquadrato spesso da diversi punti di ripresa o con differenti aperture angolari, caratterizza questo libro, come già era accaduto in Saper vedere l’architettura e in Storia dell'architettura moderna (1950). Proprio quest’ultimo rappresenta il cuore dell’opera storiografica zeviana, nel suo sforzo di portare a una sintesi le vicende ancora “calde” dell’architettura moderna: uno sforzo fino a quel momento non ancora tentato da nessun altro in Italia, e che darà a Zevi una notevole fama anche all’estero. Non si tratta però di una semplice opera di raccolta o di compilazione: la sua ambizione è di aprire nuove prospettive e connessioni, come egli scrive nella Presentazione del volume: «Fino a quando la storia dell’architettura si riteneva conclusa col neoclassicismo non vi era possibilità di passaggio tra architettura antica e moderna, né di intesa tra storici d’architettura e architetti. Il ponte di congiungimento non può essere dato che dalla storia dell’architettura moderna che amplia gli orizzonti dei cultori di arte contemporanea e attualizza quelli dei cultori di arte antica. Essa permette di studiare il passato con piena, vibrante, animata adesione e di amare il presente non più in un’atmosfera effimera di mistici entusiasmi e di sogni avveniristici, ma attraverso la conoscenza approfondita delle sue radici storiche, e perciò con animo capace di distacco. Come è già in larga misura acquisito nel campo della letteratura e delle altre arti figurative, anche in architettura sarà la storia degli ultimi cento anni a servire da tessuto connettivo tra passato e presente e quindi a rispondere all’istanza di storicità posta dall’uomo e dal pensiero moderno». Alla trattazione della “prima età” moderna, fatta coincidere con le Arts and Crafts inglesi e con l’Art Nouveau internazionale, fa seguito l’approfondimento delle figure dei “maestri” europei (Le Corbusier, Gropius, Mies van der Rohe, Oud, Mendelsohn), la narrazione della vicenda italiana (dal Futurismo a Terragni e Pagano) e del movimento organico europeo e americano, mentre due interi capitoli sono riservati al contributo di Wright.

 

«[…] con animo capace di distacco», scrive. Chi tuttavia nelle pagine della Storia di Zevi, così come in tutti gli altri suoi testi e interventi – ma in fondo nella sua stessa vita – ricercasse un atteggiamento equidistante, “distaccato”, rimarrebbe cocentemente deluso. Zevi invece abbraccia la disciplina dell’architettura, al pari della politica, della difesa del territorio e delle altre questioni di cui si è occupato, come altrettante “cause” per le quali battersi. In questa condizione di costante partecipazione Zevi si mostra – come pochi – capace di amare e di odiare, così come – di nuovo come pochi – capace di suscitare amore e odio. Ciò rende la sua figura e il suo pensiero, a cent’anni dalla sua nascita, un “nodo” tuttora da sciogliere: perché – come accade di sovente in questi casi – una personalità tanto affascinante ma al tempo stesso difficile ha finito per lasciare dietro di sé allievi pronti a immolarsi per la “sua” causa, ben più che per quelle che lui stesso affrontava; così come, d’altro canto, anche schiere di nemici più o meno giurati. Ma è soprattutto dalla morsa degli “zeviani” e dello “zevismo”, vale a dire dagli adepti di più stretta osservanza (come sempre, peggior tradimento della lezione di qualsiasi maestro), che occorre liberare Bruno Zevi. La cui eredità oggi, più che oggetto di adorazione o d’imitazione, deve essere oggetto di studio. Uno studio da compiere con quel distacco che – fra i tanti suoi insegnamenti – neppure lui ha saputo trasmettere. 

 

PS Un’ultima considerazione merita il libretto che Zevi ha pubblicato con l’editore Giuntina nel 1993: Ebraismo e architettura (ora ripubblicato dallo stesso editore a cura di Manuel Orazi). Nelle conferenze di cui il libro si compone, Zevi ritorna più volte su un concetto basilare, che tuttavia sembra mettere tragicamente in contraddizione la sua stessa essenza di ebreo e le sue convinzioni di studioso e critico dell’architettura: l’ebraismo è una concezione del tempo, non dello spazio: «Mentre le divinità di altri popoli sono associate a luoghi e cose, il Dio di Israele è il Dio degli eventi. La vita ebraica, scandita sul Libro e commentata dal Talmud, è permeata di storia, cioè da una coscienza temporalizzata dei compiti umani. […] in nessun caso l’ebraismo è riducibile ad una concezione spaziale». Parrebbe un vicolo cieco, senza vie d’uscita o conciliazioni possibili. E invece, dopo aver scorto il culmine del «messaggio ebraico […] nell’opera del massimo genio della storia architettonica, non-ebreo: Frank Lloyd Wright», e analizzato le opere di alcuni architetti ebrei (Richard Meier, Peter Eisenman, Daniel Libeskind, Frank Gehry), Zevi perviene a una “scoperta” a dir poco geniale: lo spazio ebraico è uno “spazio non-spazio”. Spazio della crisi, della tragedia, della catastrofe offerti come valore. Spazio della contraddizione, «frutto di secoli e secoli di vita miserrima e soccombente, spiritualità traboccante, fame endemica, pensiero millenario, superstizioni e credenze cabalistiche, sopportazioni di soprusi e di restrizioni perverse, persecuzioni inaudite per ferocia e ottusità, e poi danza, canto, spasmodica volontà di vivere, delirio dell’attesa messianica, e infine capacità di ridere di sé anche sull’orlo del baratro, del massacro». 

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