Orizzonti festival / Il teatro a Chiusi non è una follia
Prima di Orizzonti Festival 2016 erano quattro amici al Barretto Hakuna Matata. Adesso sono il ‘gruppo di ascolto’ del direttore artistico. Vorrebbero un luogo unico a Chiusi in cui riunire tutti gli eventi del Festivàl (lo chiamano così, alla Pippo Baudo, con l’accento sulla a). Andrea Cigni ribatte parola su parola, come se fosse in una riunione operativa, non a prendere il caffè nei giardini del Duomo, e spiega con allegra, gentile fermezza, che un festival deve aprirsi e integrarsi, stare dentro e uscire dalle mura, le sue e della città. Altrimenti non ha possibilità di sopravvivere né, probabilmente, ragioni di esistere.
“Al di là del suo essere e avere ci sta simpatico” mi dicono a ‘seduta’ conclusa. E poi riprendono a discutere: ognuno ha la sua idea. Lo sentono loro, Orizzonti è diventato cosa e casa propria. Non possono più farne a meno, come le strade, il panorama, il cibo, come se ne andasse della vita stessa del borgo. Possono solo aiutare a consolidarlo, migliorarlo, ampliarlo, per far entrare ancora più luce dalle finestre e pubblico dalle porte.
Al suo terzo anno di direzione artistica, il 40enne toscano di Castiglioncello, provincia di Livorno, premiato regista d’opera e direttore del Conservatorio di Musica di Cremona ‘Claudio Monteverdi’, lavorando ventre a terra e sguardo in avanti, riunione operativa dopo riunione operativa e caffè dopo caffè, ha raggiunto le conquiste che mancavano: l’affetto combattivo e la partecipazione sentita della gente. Quest’estate (29 luglio – 7 agosto) Chiusi, provincia di Siena, si è così risvegliata tra le capitali italiane del teatro, della danza, della musica, con un festival giovane, dinamico e appassionato, che possiamo collocare tra la multidisciplinarietà del Festival dei Due Mondi e l’attitudine produttiva e residenziale di Inequilibrio. E nella direzione di fare della città un cantiere della creatività vanno pure i futuri Stati generali della cultura e dell’arte, e il sogno/obiettivo di diventare Capitale italiana della cultura nel 2018, punti fermi di un’amministrazione comunale (PD-PSI) che sostiene e ha sostenuto Orizzonti e forse, anche per questo, ha stravinto le elezioni dello scorso giugno.
#Follia2016 è il tema che ha incorniciato la XIV edizione. Follia che guida le azioni, le speranze, le relazioni di chi sa osare in un mondo che tende a uniformare tutto: la scintilla generatrice di un momento creativo, raccontata quotidianamente sulle colonne di Zenit, per il secondo anno consecutivo il quotidiano di informazione e critica frutto del ‘Campus per uno spettatore critico’, a cura di Andrea Pocosgnich e Luca Lòtano di Teatro e Critica, e, novità assoluta, sulle frequenze di Radio Orizzonti, web radio ideata e condotta da Roberto Catalano e Lorenzo Cutùli, regista l’uno, scenografo e costumista l’altro. Follia, quindi, non come un vuoto, non quel vento che, risalendo all’etimologia latina, riempie una palla da gioco, e da qui, metaforicamente, un uomo dalla testa vacua, leggera, mobile come essa, piuttosto la manifestazione di una pienezza esplosiva e irriconoscibile finché non porta a un qualche atto artistico. È l’estasi di cui parla Massimo Marino a proposito di Santarcangelo, Monticchiello e VolterraTeatro, che a Chiusi però non guarda ai cieli dell’Utopia, ma cammina nella polvere della Storia.
“Si rischia di vivere senza conoscere la follia”
Ricercare un contatto con l’esterno che la mente dimentica per poterlo trovare ancora, e dirlo meglio, più vicino al sentire profondo, come i numeri di telefono che Alda Merini scriveva sui muri della sua casa a Milano, Ripa di Porta Ticinese 47, sui Navigli. Segni di incontri passati, fili di discorsi da riprendere quando tornerà la forza di sbrogliarli, alle pareti di un universo di libri, sigarette, lattine e cianfrusaglie in espansione, che l’amico e fotografo Enzo Eric Toccaceli ha raccolto per Orizzonti Festival con la mostra Alda Merini: nell’assoluto demone azzurro nel Museo archeologico nazionale, in collaborazione con il Festival della parola di Parma. Estro, dolcezza, malinconia e ironia della poetessa “matta in mezzo ai matti” brillano di luce propria negli scatti in bianco e nero discreto e sensibile di Toccaceli, e le liriche, qui, sembrano dar voce alle parole taciute da statue, sarcofagi, urne della civiltà etrusca. “Io ho bisogno del mio dolore per poterti capire”.
Lettere, impronte, richiami di assenze presenti che Roberto Scappin e Paola Vannoni hanno ascoltato di persona da malati e disagiati mentali e poi trascritto in sPazzi di vita (la follia non è un refuso), una coproduzione Quotidiana.com e Orizzonti Festival, in prima nazionale nel chiostro di San Francesco. Il folle è solo sé, ciò che vede noi non lo vediamo. È una statua, un sarcofago, un’urna di un tempo che non ci parla o, meglio, che non riusciamo a sentire, perché lo consideriamo morto dentro, perduto per sempre. Quotidiana.com cerca invece di dirli, i matti, rispettandone l’assenza di leggi che regolano l’ordine naturale dei discorsi, rendendo corporea la loro mente, un percorso inverso a quello di Teatro Periferico, che in Mombello – voci da dentro il manicomio rende mentale il loro corpo.
Scappin e Vannoni sono seduti su due cubi bianchi, il capo chino, come burattini recisi dal loro Io, e in mezzo a loro un tavolino, anch’esso bianco. Le luci scavano le pieghe della pelle e dei costumi, pantaloni neri, camicia bianca, vestito scuro. Gli occhi bassi, smarriti, sono cerchi bui, come il disco sospeso là sopra. La sigaretta spenta di lui, i passettini tremolanti di lei, con la chiave della camera al collo. Parlare intermittente e non agire: un rap della stanchezza della vita, della voglia di non fare niente.
“Non fingersi folli, ma sentire e osservare, dire, mettersi in relazione con l’altro senza codici e negoziazioni – spiegano – il folle vede così bene che è accecato dalla menzogna e illuminato dalle possibilità”.
Ecco, il bianco e nero di Enzo Eric Toccaceli ora è lassù, su quella Luna piena, lo schermo su cui Scappin e Vannoni in video aprono la visione degli spettatori su motivi, ragioni, problemi, sulla radiografia di sPazzi di vita. “Ciao, come stai?” è il refrain dei loro incontri nei corridoi ospedalieri della scena, la domanda resta, la risposta cambia, e si passano storie, esistenze sincopate, il puzzo, il sesso, la felicità, la malattia, la fede. Una ciclicità incendiaria e grottesca, perché hanno un fuoco dentro, ma sono fiamme che non (li) scaldano fuori, sono gesti compiuti e subito dimenticati.
Tornati Roberto e Paola si accendono finalmente quella benedetta sigaretta, si soffiano in viso un bacio denso e fugace, lingua che sovverte la vita, il bene e il male. E voltano le spalle a domande che continuano a rispondere, a risposte che insistono a chiedere. Che cosa sono le nuvole? era il cruccio dell’omonimo film di Pasolini del 1967 con attori-maschera come Totò, Ninetto Davoli, Franco e Ciccio, Laura Betti. Il fumo, diremmo adesso, di verità in fuga a cui noi associamo le forme più assurde per cercare di fermarle, trattenerle, senza, comunque, capirle.
La fame dei corpi
Escono dal nero denso degli stessi spazi di Quotidiana.com Gli orbi della compagnia Abbondanza/Bertoni, un’altra coproduzione con Orizzonti Festival, in anteprima nazionale al teatro Mascagni. Cercano le mani, le trovano, escono dal buio, ma gli occhi restano lì, accecati. Hanno visto troppo e ora non riconoscono più niente, sono caricature ormai prive di spirito vitale, automi contemporanei mano nella mano con il vizio e la tenerezza. Dove finisce l’uno inizia l’altra, e viceversa. In fila, sono un corpo unico che gira in cerchio, su se stesso, come La danza di Matisse, sprigionata in scena a partire dalla Parabola dei ciechi di Pieter Bruegel il Vecchio, come racconta Michele Abbondanza a Luca Lòtano su TeC. Eleonora Chiocchini, Tommaso Monza, Massimo Trombetta, Antonella Bertoni, Michele Abbondanza, vanno a tempo con lo stridere delle scarpe sul palcoscenico, su linee che si intersecano, si spezzano, attorno a un microfono, unico elemento di scenografia, sono una catena di anelli che cercano un’indipendenza, presa e lasciata, mai conquista o voluta definitivamente. Pare essere un solco comune della danza italiana di oggi, basti pensare a In girum imus nocte (et consumimur igni) di Roberto Castello o a Season di Giorgia Nardin, affermare la sicurezza – al pari della coercizione – del gruppo sull’individuo, come se al di fuori ci fosse solo solitudine e perdizione.
Gli orbi, allora, è un rave ossessivo della spudoratezza, un bondage di parrucche, rossetti, travestimenti, ricordi passati di gioventù. Una donna dice al figlio attraverso il microfono: “mamma è felice”. Poi, è subito pronta a picchiarlo. Calci, schiaffi, pugni simulati, finché tutti insieme gli strappano la pelle e la mostrano come un trofeo, una Sacra Sindone dell’interiorità. Forsennatamente sessuale è l’insistenza sulla seconda pelle, la vera natura sotto la prima, nascosta, come la calza trasparente che Michele Abbondanza indossa sotto i pantaloni e la camicia, con la cravatta e il cappello di paglia. Si muove sinuoso e provocante su Sex Bomb di Tom Jones e Mousse T. Entra il suo doppio, la faccia presentabile che mostra a lavoro, un uomo coperto dalla testa ai piedi con una calzamaglia elastica. Danzano insieme, ma distanti, come Narcisi specchiati in acque non comunicanti.
In una balera, il valzer della falsità, dell’apparenza, li trova tutti vestiti con eleganza di campagna, fuorché l’incappucciato, usato anche come tavolino su cui sedersi per un selfie. Uno lo sodomizza al rallenty. Su Prisencolinensinainciusol di Celentano emanano in mutande e reggiseno un amore libero, pietà lasciva di gruppo che alla fine spoglia e richiama a sé pure l’uomo-manichino.
“Esseri ‘ciechi’ che irridono, smorfieggiano, danzano, aspettano il loro turno e si alternano nella fame di relazione” chiarisce la compagnia. Con grande, forse eccessiva sarabanda di immagini, Abbondanza/Bertoni mostrano che la normalità porta alla follia, che è sospensione del tempo, assenza di gravità relazionale. Ci si cerca, ma ciò che si trova è la maschera di un malessere che nella sua semplice esposizione trova la visibilità necessaria a ripetersi. Di faccia in faccia.
La palestra dell’amore
E si guardano dritti negli occhi, acrobaticamente energici, ariosi e terreni, Maud de la Purification e Antoine Roux-Briffaud, lo slancio e la presa, la passione e l’attesa di Romeo e Giulietta 1.1 – la sfocatura dei corpi, creazione del 2006 che Roberto Zappalà ha ripreso come primo capitolo di ‘Antologia’, il progetto che mira a dare nuova vita alle pietre miliari della sua linea coreografica. Lo spettacolo, prodotto da Scenario Pubblico / Compagnia Zappalà Danza, ancora in coproduzione con Orizzonti Festival, è stato presentato in prima nazionale nel chiostro di San Francesco. Qui raccontiamo, però, la prima della prima nella palestra dell’istituto superiore Einaudi/Marconi, nel centro di Chiusi, visto che la pioggia aveva reso inutilizzabile il Chiostro: un’occasione realmente unica e irripetibile di vedere il lavoro scarnificato fino all’osso, all’essenza dei due danzatori, respiro, mistero, fatica.
I quadri svedesi, il canestro, la rete da pallavolo alla parete, sono illuminati a giorno. Romeo e Giulietta sono in sneakers, camicia e pantaloncini. Lei entra in scena, un rettangolo bianco, su una biciclettina rosa, lui aspetta, seduto con una maschera da sub. Musiche dei Pink Floyd. Quando arriva, ruota, sprofonda come nell’acqua, sempre più nelle sue spire, alla ricerca forse di Ofelia, mentre lei continua a girare lungo tutto il perimetro. “Breath, breath in the air” canta David Gilmour. Fuori ticchetta la pioggia. Romeo risponde: “Love me tender”.
Uniti da una diagonale fatta di niente cercano di trovare una loro gravità, di camminare. Intanto in strada infuria il temporale, tuoni, lampi, che rivelano i moti interiori dei due giovani innamorati. Giulietta tiene testa alla madre, al pubblico, citando Cara maestra di Luigi Tenco: “Cara maestra, un giorno m’insegnavi / che a questo mondo noi, noi siamo tutti uguali / ma quando entrava in classe il Direttore / tu ci facevi alzare tutti in piedi / e quando entrava in classe il bidello / ci permettevi di restar seduti”. Il ballo in maschera è sensuale senza sesso, con la gioia del passarsi tra le mani come bambini che si imbrattano di cioccolata, ma quando scoprono chi è l’altro, si disperano, non riescono più a reggersi in piedi, le gambe scivolano, cadono tutte le direzioni che non riescono a prendere. Si avvicinano, eppure gli abbracci non si incontrano, girano su se stessi come fuoco nel fuoco. “Sei sfocato, sei fuori fuoco” dice la registrazione audio di Harry a pezzi, il film di e con Woody Allen del 1997 su un autore alle prese con il ‘blocco dello scrittore’ e in piena crisi depressiva (resa appunto con il fuori fuoco fotografico).
I respiri implorano di essere sedati, calmati, spenti. Lei si slaccia le scarpe, resta scalza e lo aspetta, e allora lui slaccia le sue. Si guardano come da dietro le palpebre di un tempo carico di scoperta. Si rotolano l’uno sopra l’altra per cercare il momento dell’amore. Non si riconosce più di chi è il piede, la mano. L’abbraccio sfugge ancora, scappa, va veloce, bisogna correre per riprenderlo.
Ora non vanno più lontano da soli, si afferrano con forza, nessuna strada è preclusa: possono donarsi completamente, perdendo e ritrovando il contatto. Restano in canottiera e mutande ed è quasi una lotta, sono nella cripta dei Capuleti, chissà. L’amore si è mutato in dipendenza. Si spengono tra le gambe, le braccia e le labbra di un bacio non dato.
“Ci sentiamo ‘sfocati’ quando ‘percepiamo’ che la distanza tra noi e l’amato non è quella giusta” afferma Roberto Zappalà, quando cioè siamo o ci sentiamo troppo vicini o troppo lontani. Sono andati troppo vicino Gli Orbi, sono andati troppo lontano Romeo e Giulietta 1.1 e come Icaro hanno bruciato le ali del desiderio al Sole delle convenzioni.
La follia continua
Conti di espirazione e inspirazione, posizioni, contorsioni di stili diversi, sono le piume di Francesca Pennini nei 10 miniballetti di CollettivO CineticO, un alfabeto che pulsa in scena e con la scena, grazie all’incredibile naturalezza di una libertà di immaginazione conquistata nell’infanzia.
Hanno impastato forme e colori della #Follia2016 anche Ricci/Forte, la soprano Maria Billeri, Traviata diretta dal maestro Sergio Alapont, l’Amleto di Roberto Latini, i Testori ed Henry James di Valter Malosti, le VisitAzioni di Paolo Panaro, il duo Baglini/Chiesa. Nella serata finale, Arturo Brachetti ha ricevuto il Premio Orizzonti Festival 2016 dalle mani di Pino Strabioli. Gabriele Valentini e Laura Fatini hanno proposto Marrana, ma è l’ultima volta che si esibiranno come Compagnia Orizzonti: presto le Orizzonti Officine (sulla scorta di quelle per bambini già affidate a I Macchiati) formeranno i talenti di una compagnia stavolta di livello professionale, all’altezza del resto della programmazione. Per il momento, il legame con le energie del territorio è assicurato dall’invenzione dell’orchestra di Orizzonti Festival, formata in collaborazione con l’orchestra dell’Opera italiana, insieme a Sinapsi Group: i maestri sono tutti giovani talenti italiani, età media 23 anni, e sono stati in cartellone anche all’Amiata Piano Festival con un concerto trasmesso su Rai Radio3.
Dai manifesti il primissimo piano tagliato su un grande occhio fermo, risoluto, determinato, “osserva le persone, il Festival guarda chi l’ha visto e in questo senso anche avanti” riflette Andrea Cigni a lato del nostro incontro il giorno dopo la chiusura. Elemento generatore di arte e cultura, momento di pura genialità che dà forma al lavoro di ogni artista, dicevamo a proposito del tema del 2016. Ma anche perché doveva essere il suo ultimo anno e si era detto che era stata una follia tutto quello che aveva fatto, vincere il bando promosso dalla Fondazione Orizzonti d’Arte e in tre edizioni rilanciare sul piano nazionale un festival che nelle prime undici non era andato oltre l’ambito locale. Avanti, adesso, c’è di nuovo lui, per #Vita2017 (28 luglio – 6 agosto), presente, peraltro, nel programma triennale che è valso a Orizzonti il riconoscimento di festival multidisciplinare dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo. Già annunciate due opere liriche, Maria Billeri sarà Norma. E poi, avanti ancora, nel 2018 e nel 2019.
Cigni ha così tre anni per vincere una sfida se possibile ancora più importante di quella appena archiviata: costruire una nuova ‘classe artistica’ in grado di pensare per Chiusi al teatro, alla danza, alla musica, tutto l’anno e non solo nell’isola felice di due settimane d’estate; qualcuno – soprattutto – che possa un giorno prendere il suo posto ed essere, magari, anche pagato (lui è un volontario come un altro, lo fa, come si dice, per il bene della comunità).
Perché se un Festival lo si vede dalla città che immagina, una direzione artistica la si giudica dall’alternativa che realizza.