La fascinazione del teatro di Castiglioncello / L’ironia, il rumore, l’invisibile

7 Luglio 2016

C’è un bambino acquattato sulle ginocchia della madre che, alla fine del primo episodio dei Quattro moschettieri in America dei Sacchi di Sabbia che ha aperto la XIXma edizione del Festival Inequilibrio di Castiglioncello, non vuole, con tutto se stesso non vuole, che il nobile e malinconico Athos de la Fère, emigrato negli States per colpa della crisi economica mondiale, giaccia a terra esanime, falcidiato dalle raffiche di mitra di volgari sicari della mafia italo-americana. E ha ragione perché negli episodi successivi i tre che come è noto “eran quattro” tornano vivi e vegeti, troppo vitali per accettare che la società di massa americana faccia loro la festa: al cinema delle major che dapprima li ha rifiutati oppongono l’arte del pop-up, il disegno dal vivo di Guido Bartoli, il teatro d’ombre, la narrazione in rima, il corpo un po’ smarrito di Giovanni Guerrieri che ha preferito incarnare l’aristocratico Athos piuttosto che l’arrivistico D’Artagnan.

 

I quattro moschettieri in America.

 

 

Tutto un teatro che, sulla scia dei personaggi di Dumas a suo tempo ripresi alla radio da Nizzi e Morbelli ai quali lo spettacolo è dedicato – ci sono anche le figurine distribuite dopo ogni episodio –, avrebbe voluto suicidarsi, come i quattro tentano vanamente di fare nei tre episodi. Ma che poi si è scoperto capace di miracoli artigianali che sub specie performativa valgono gli effetti del cinema più tecnologicamente avanzato (per esempio l’integrazione tra uomo e cartone perfezionata da film come Chi ha incastrato Roger Rabbit?). Moschettieri di carta e di carne, con la loro anacronistica scherma figurativa i Sacchi (Giulia Gallo, Giovanni Guerrieri, Giulia Solano) hanno trapassato la tirannide del visivo a fil di spada per tre sere di seguito. Ed è stato un vero piacere.

 

Ci sono anche altri bambini a Castiglioncello, li si incontra con un’occhiata distratta appena si imbocca il viale alberato che porta al Castello: sbiadiscono in una riproduzione tirata in seppia di un quadro  del macchiaiolo Giuseppe Abbati, e cosa facciano è difficile dirlo, seduti su un manto erboso, forse giocano, ma non è escluso che si stiano organizzando per una crociata. Di certo c’è che alle loro spalle una strana porta aperta su un muro si affaccia sul mare e sul cielo. Da quasi vent’anni questi bambini, che nel quadro originale sono macchie di colore abbacinate, creature solari, “fanno teatro”, cioè qualcosa che è insieme molto evidente e molto nascosto. Lo scrivo qui per gli assessori che sul genius loci di Castiglioncello e del suo Castello, visibilmente concepito come una scenografia, rischiano di ingannarsi (così tanto che uno di loro, intervenendo a uno dei dibattiti in programma al festival parla di “territorio dei pittori” e cita “i vari Martelli, Lega”, dimenticando nella foga che Diego Martelli non fu mai un pittore ma un critico e un mecenate amico di pittori, un organizzatore di residenze artistiche ante litteram). 

 

Sacchi di sabbia, ph Lucia Baldini.

 

Nel Konzert dei Freier Klang (Franz, Sergius e Stetur), sceneggiato da Rita Frongia e invisibilmente diretto da Claudio Morganti, l’infanzia è un vento che finalmente soffia dove vuole trasformando in musica aleatoria tutto quello che ispira ed espira, che sbatte o che tocca, ma anche che striscia – come le cerniere dei trolley con cui si presentano i concertisti – sfiora, fischia, ammicca: il touch di uno smarphone collegato a un theremin (strumento di note origini leniniste, qui in versione gadget made in japan), una radiolina da collo con microfono, un fischietto per il richiamo degli uccelli  infilato in bocca,  e insomma una dotazione magica destinata a liberare suoni (poiché i Freier sono i “liberatori del suono” Die Befreier des Klang) la cui comicità suprema consiste anzitutto nello sfuggire completamente allo sguardo del pubblico che, catturato dalla sua stravaganza, non riesce a identificarla come origine della musica. Per svariati motivi. 

Freier Klang, ph Lucia Baldini 

 

Il primo è che, pur producendo suoni, non sono degli strumenti riconducibili all’esecuzione musicale per come la conoscono i frequentatori abituali delle sale da concerto, ma dei giocattoli, delle entità parodistiche che in taluni casi (come l’amplificatore collegato alla radio da collo) prendono l’aspetto di macchine celibi – un crepitante duchampismo di fondo, anche se targato John Cage, aleggia su tutta la performance dei Freier, volgendo in malinconia il radioso sorriso del suo nonsense, il gas esilarante della sua gag. Il secondo sono le facce, le posture, la mimica di Sergio Licatalosi, Francesco Pennacchia e Gianluca Stetur: se vedessimo un’orchestra di clown che esegue una partitura di Bach (o meglio, di Schubert, l’unico musicista colto citato in partitura) riusciremmo a credere che lo stia facendo sul serio? La prima aleatorietà è quella del patto di credenza che abbiamo stretto tra quel che vediamo e quel che sentiamo. Se il patto vacilla, siamo a teatro, nel regno della competenza usurpata e dell’incompetenza elevata ad arte. Ma sta proprio qui il sottile prestigio del concerto morgantiano che all’inizio della sua esecuzione declina anche la propria teoria antiesecutiva (“non dominiamo, non eseguiamo, non creiamo, noi liberiamo la musica.

 

Freier Klang, ph Lucia Baldini.

 

Aderiamo al rifiuto del principio di composizione, rifiutiamo il suono organizzato…”): i Freier fanno quel che dicono e dicono quel che fanno, danno a vedere un concerto di musica aleatoria eseguito in quanto performance comica, ma non c’è un gemito, un colpo di tosse, una penna caduta, o una battuta del contrappunto verbale di Rita Frongia che perda il ritmo o ecceda il suono, persino le risate del pubblico (che, estaticamente, ride di tutto e di niente) divengono riprese musicali. Tutto in un senso è musica, anche la voce registrata di John Cage che si ode nell’intervallo, ma, come sempre accade con Morganti – si pensi all’uso della figurazione in Ombre Wozzeck – con tutti i mezzi del teatro, visto che lo strumento principale e più risonante di questa rivelazione sonora è la sconfinata maestria performativa di Licatalosi (Sergius), Pennacchia (Franz) e Stetur (Stetur). Freier Klang è l’avanguardia che si specchia nel suo rovescio e sposa il suo fantasma più ricorrente (il fallimento) rendendo umoristica la propria ironia: un capolavoro inavvertito che ride di se stesso con quella rara, contagiosa esplosione di buon umore che, dice Milan Kundera ne La festa dell’insignificanza, ha qualcosa di infinito. 

 

L’ironia abita anche i due atti de La vita ferma di Lucia Calamaro presentati al teatro di Vada. Ma è una coda di scorpione che il dolore rivolge contro se stesso, il sussulto estremo di quel discorso ininterrotto che va e viene, si inabissa  e riappare, nei testi di questa drammaturga che è di gran lunga l’autrice più originale del nostro attuale paesaggio teatrale. Che tanta vitalità espressiva sia destinata a infrangersi contro la barriera bianca della morte senza mai rassegnarsi, non sorprende: accadeva già in Tumore, il suo primo spettacolo, ambientato nelle more di un’agonia, che Lucia Calamaro portasse la parola (e il teatro) a misurarsi nella lotta estenuante con il suo contrario, il non-detto, la reticenza, la vergogna (che sarà il tema dell’autobiografia di Magick), il mutismo dell’afasia. Così La vita ferma si ritrova a mettere in scena uno dei tabù più imbarazzanti della modernità: la contemporaneità tra i vivi e i morti che stelle silenziose ci sovrastano con il loro firmamento, almeno finché un gesto inconsulto non le rovescia sulla terra, come fa Simona Senzacqua  rovesciando sulla scena un cesto pieno di biglie di vetro che rotolano ovunque. Il non voler morire dei morti, quel loro continuo, assillante riaffiorare dalle onde del tempo, ritornanti: una figura che tanto appassionò Jacques Rivette nei suoi ultimi film.

 

Lucia Calamaro, ph Lucia Baldini.

 

Un assillo letterale, perché La Vita ferma si apre con Riccardo Goretti, il marito, che sgombera la casa dopo la morte della moglie e nel frattempo parla con lei nascosta sotto un cartone. E di questo corto-circuito temporale – con cui la vita si inchioda nel passato, ferma, irrisolta, poiché il tempo che le resta è quello in cui la morte dell’altro ha corso – lo spettacolo continua a portare l’imprinting con una noncuranza che qua e là rasenta un’allegria surreale, come se tra i privilegi del teatro ci fosse quello di sospendere o di confondere l’ordine del tempo. La scena fluttua nella tipica indeterminatezza delle scenografie mentali della Calamaro regista di se stessa, vuote e sontuose, mutevoli, quasi umorali, come può esserlo l’architettura di un sogno. Attori e personaggi sembrano aver passato il tempo a tatuarsi vicendevolmente: non è un caso che ancora una volta portino gli stessi nomi di battesimo degli attori; lui, Riccardo Goretti, è un intellettuale bonario che non riesce a finire un libro fondamentale su Michel De Certeau, lei, Simona Senzacqua, una danzatrice che ama indossare sgargianti vestiti a fiori ed è ossessionata dal bisogno di controllare il proprio ricordo anche dopo morta. E la lingua fluisce come sangue portandosi appresso tutti i detriti, i tic, gli idioletti della quotidianità, un parlato frugale continuamente in cerca di una svolta del pensiero nel quale di colpo si aprono radure di inaudita chiarità, squarci di pura metafisica che hanno l’aria di stupire chi li pronuncia prima ancora di chi li ascolta. Lucia Calamaro dà voce al recondito, dice il pensiero più interno, porta il dialogo fino all’ordine della confessione ma senza mai separarlo dai suoi processi, dai suoi vizi di forma, dalle sue glossolalie (ivi comprese quelle di un linguaggio colto alle prese con la propria inadeguatezza), in una parola dal suo corpo vissuto.

Bimbi a Castiglioncello, ph Giuseppe Abbiati. 

 

Entrando in una chiesa dove non è quasi mai entrato Riccardo Goretti chiede quello che tutti nella vita abbiamo chiesto almeno una volta: ingaggia un pavido negoziato con Dio chiedendogli non il massimo, ma il minimo, non un cambiamento del destino, ma un timido rallentamento del tempo, un giorno, forse due, magari tre, una grazia miserabile. È una preghiera commovente (perché miserabile), un estremo rilancio del desiderio che ricorda gli estenuanti mercanteggiamenti di certi profeti biblici con Dio. Nel dramma c’è anche una bambina, la figlia, interpretata da Alice Rendini. Ed è forse l’unica a rendersi conto che la vita non può essere fermata.   

 

 

Festival Inequilibrio di Castiglioncello (Livorno): fino a domenica 10 luglio, una produzione Armunia. Fotografie di Lucia Baldini.

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