Umanità / La sensibilità della mela
Che ci sia bisogno di un’altra mela, di un nuovo strappo che ci butti fuori da questo globo saturo in cui ci siamo ficcati? “Adamo ed Eva – dice François Jullien – non potevano immaginare un Fuori a cui aggrapparsi per tenersi fuori, “e-sistere”, avventurarsi. Mangiando la mela, però, hanno introdotto la fecondità di un’incrinatura in quell’ordine stabilito, hanno aperto uno scarto che li estraeva da quel mondo e dalla sua saturazione-soddisfazione” (Il gioco dell’esistenza, Feltrinelli 2019). Insomma, una sensibilità nuova, la sensibilità della mela, per l’appunto.
Per una persona la sensibilità è innanzitutto uno strumento, che si attiva in diverse modalità a seconda delle situazioni. Il marine in combattimento deve avere una sensibilità di tipo sensoriale non certo affettivo, una sensibilità “tecnica” che gli serva ad agire per sopravvivere, non una sensibilità emotiva che serve a vivere in armonia. Più in generale direi che la sensibilità è come una specie di semaforo che regolamenta il flusso dei sentimenti. È il nostro sensore straordinario che dobbiamo imparare a conoscere e a gestire nel modo più efficace. Quanto più lo conosciamo (e riconosciamo) tanto più sappiamo leggere la realtà. Quando devono prevalere le ragioni dell’umanità la nostra sensibilità dovrebbe poter fermare le ragioni altre da quelle dell’umanità. Proviamo a pensare per esempio a tutte le volte che le istanze dell’economia prevalgono su quelle della società (vedi, su tutte, la questione climatica).
Oggi chi non è tenuto ad avere una precisa padronanza in un qualche settore – ad “avere le mani in pasta”, per dirla con una deliziosa espressione della sensibilità italiana –, si limita all’approssimazione, tende a rappresentare le cose della realtà corrente con una specie di schizzo, un abbozzo, un appunto grafico bidimensionale, come se ciò che sta sullo sfondo, il contesto lontano e profondo delle nostre vite, quasi volesse volare via. È come se avessimo rinunciato alla prospettiva. È così. Vogliamo ricordare un’altra volta, fino alla noia, quanto lungo sia l’elenco dei deficit cognitivi, affettivi, emotivi a cui soprattutto i più giovani sono andati incontro? Solo che un disegnino su un foglietto per insegnarti la strada non potrà mai essere una esauriente rappresentazione del luogo dove tu vuoi andare. Si sta in superficie (vedi Basta stare in superficie?). Ma c’è di più: gli stessi valori psichici di questo inizio di secolo, dice lo psicoanalista anglo-americano Christopher Bollas, “non si basano tanto sull’esperienza diretta, quanto piuttosto sulle percezioni indirette prodotte dalla rivoluzione dell’informazione. I Sé contemporanei vivono a una certa distanza dal coinvolgimento nella vita reale: si ritirano dall’ansia suscitata da tutto ciò che non è mediato [cioè filtrato dai media, ndr] per cercare rifugio nella tecnologia, che promette un ambiente affidabile, confortevole, indolore” (L’età dello smarrimento, Raffaello Cortina 2018, p.119).
Superficializzazione e allontanamento dalla realtà fattuale condizionano giocoforza il semaforo della sensibilità collettiva. E con una psiche “alleggerita” dalla progressiva mancanza di introspezione – carattere tipico della nostra epoca secondo Bollas –, molti ormai sembrano effettivamente muoversi come in una palestra, tra un esercizio e l’altro, tra un attrezzo e l’altro, cinque minuti di sforzo intenso e poi distensione e respirazione. Tutto è fuori nell’esteriorità del fisico. Che il semaforo stia pure spento. Sarà il prevalere della “passione dell’ignoranza”, come la chiamava Lacan?
La sensibilità collettiva si trasforma col mutare del peso specifico dei valori e fluttua nella Storia tra momenti di bonaccia e periodi di tensione (la psicologia delle masse esiste), e il semaforo individuale non può che modularsi di conseguenza adottando di volta in volta la ritmica dei nuovi linguaggi comportamentali. Oggi la percezione della morte fisica, per fare un esempio concreto, è sentita molto diversamente; l’azione stessa di uccidere è percepita come materialmente attuabile: lo mostrano i moltissimi casi di aggressioni tra giovani nei contesti sociali del divertimento, bar e discoteche, o semplicemente per strada. Pensiamo agli infiniti femminicidi: spesso gli assassini dicono “ho fatto una cazzata”, come si trattasse di una svista e non di una mostruosità. “Far fuori qualcuno” sembra sempre più una facile replica di un esercizio astrattamente praticato (attivamente o passivamente) nel virtuale. E persino la lingua si conforma, è naturale: l’iperbole e l’enfasi – le voci dell’esagerazione – diventano le figure retoriche preferite negli scambi verbali più o meno social (lo fa notare bene Andrea Tarabbia in Parlare per immagini, Zanichelli 2019, un piccolo manuale nato per gli insegnanti e gli studenti, che sarebbe utilissimo a tutti). Allargando lo zoom il discorso potrebbe facilmente estendersi alle discipline in generale, all’espressione contemporanea, alle variazioni della loro “capacità di sensibilità”, dal critical thinking (che analizza i problemi) al creative thinking (che trova le soluzioni).
Avere una sensibilità è necessario, quel semaforo è uno strumento vitale. Ma se la mia sensibilità non è più abbastanza pronta, educata, sensitiva, dipende da me, dalla mia natura o è indebolita, affievolita, frivolizzata dalla società in cui mi succede di vivere? Bertolt Brecht in L’anima buona del Sezuan (1938-1940) rappresenta le oscillazioni della nostra sensibilità, che si adattano o respingono le controverse evoluzioni del vivere. La protagonista Shen Te è una prostituta, è altruista e generosa, ma il suo animo buono viene frainteso e per proteggersi si traveste da uomo e diventa cattiva. La sua doppia natura la renderà instabile, non riuscirà a essere buona e/o cattiva; quando una delle due vorrà prevalere Shen Te non sarà più in grado di dominare la sua vita perché la sua sensibilità sarà di volta in volta lacerata dalle opposte attrazioni.
Di sicuro c’è bisogno di lavorare per alzare (o tenere alto) il livello della sensibilità, per ripristinare una forza naturale grazie alla quale provare a tenerci stretta la nostra umanità umanistica (intesa alla Cacciari come capacità di lavorare le nostre inquietudini). L’insensibile è chi non sa più usare la sensibilità, perché l’ha persa, l’ha soppressa e messa in un angolo, l’ha sacrificata per lasciare le sue energie… al black friday. L’insensibile, che non ha il semaforo, riduce la sua forza di decidere, scegliere, prefigurare. Vive in un contesto che non è più né on-line né off-line, ma on-life (secondo la definizione di Luciano Floridi, direttore del Digital Ethics Laboratory dell’Università di Oxford), da entità fittizia, smontabile e rimontabile a seconda di come gira la temperatura mentale del tempo. Di questo, per altro, si nutre la politica più sporca che alimenta il “vizio disgraziato” di preferire la servitù alla libertà, come lo definiva cinquecento anni fa Étienne de la Boétie, amico di Montaigne, nel suo Discorso della servitù volontaria (Feltrinelli 2014).
Una nuova sensibilità si formerà ragionevolmente dall’“impasto” delle contraddizioni, impareremo ad azionare il nostro semaforo avvertendo le ammaccature provenienti dai tanti diversi sentimenti, quando la nullità pregnante della banana di Cattelan striderà con la edificante slitta di Babbo Natale di Banksy. Una sensibilità dello scarto, fatta, per dire, di semplicità e non di semplificazione, di complessità e non di complicatezza, più di serenità che di soddisfazione, di fiducia e non di rancore, di curiosità e non di passività, più di politica che di economia, di bellezza e non di degrado, di radici e non di sradicamenti, più di senso dell’umanità che di senso dell’individuo, più di parole che di pubblicità. Una sensibilità in cui prevalga non un’”intelligenza pesante”, ma l’“intelligenza leggera, quella capace di ascoltare gli altri”, come va ripetendo Renzo Piano, grande maestro di sensibilità (intervista a Che tempo che fa del 15 dicembre scorso).
Il giovane critico americano Charles Finch sul New York Times osserva che “le comunicazioni, dietro un flusso incessante di dati, si sono evolute continuamente mirando a funzioni cerebrali sempre più primitive”; srotoliamo il testo infinito dei social come un papiro composto dai pochi ideogrammi-emoji, e la letteratura sembra come messa a riposo. Già, la letteratura: vorrà, mi chiedo, prima o poi, tentare una volta ancora di fare i conti con la complessità del “nuovo profondo” che si è andato costituendo? Lo dico con accorata ingenuità. Uscirà dalle “due camere e cucina in cui oggi, a quanto pare, abita” (Claudio Magris), per tornare a costruire grandi dimore culturali, come faceva nell’Ottocento-primi Novecento?
Le vaste narrazioni di Elena Ferrante e Karl Ove Knausgård, dice Finch, sono delle significative eccezioni, le loro storie di vite “suggeriscono qualcosa al tempo stesso di sorprendente e confortante: che in ognuno di noi sia riposta qualcosa di troppo profondo per dargli un nome o poterlo modificare, e che proprio per questo motivo è sopravvissuto, per ora, alla scintillante superficialità della nostra epoca. L’Io, suppongo” (La letteratura al tempo degli emoji in Repubblica, 16.12.2019).
Non sappiamo se la rottura, lo “scarto” della mela, ci sarà e dove si svilupperà. Se la letteratura, o la narrazione seriale TV, o il cinema, cioè le fabbriche dell’immaginario, faranno da traino; o se invece saranno la realtà degli spostamenti umani, la mistione delle culture unificate dalla rete, o, ancora, i conflitti brutali della Storia a smuovere una nuova sensibilità. Di certo occuparsene, cercare di costruirla, di farla molto “sensibile”, ora, penso sia soprattutto un impegno etico che dovremmo darci.